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Per completare le necessarie prmesse circa il metodo usato dai collegi, bisogna cercare di comprendere più da vicino che cosa sia l’equità. Tema che qui verrà trattato limitatamente all’articolo 1124 del codice civile, disposizione concernente l’esecuzione del contratto, il quale obbligava anche alle conseguenze non espressamente pattuite ma derivanti dall’uso, dalla buona fede e dall’equità.

Nel diritto romano, l’unica regola circa gli effetti del contratto era: “uti lingua

nuncupassit, ita jus esto”. Parallelamente al processo di estensione della categoria della causa civilis obligandi – che non era più limitata allo strictum ius, ma comprendeva

anche vincoli fondati sul diritto naturale e riconosciuti dal diritto pretorio – venne a stabilirsi “una nuova funzione giuridica, sotto il nome appunto d’equità, secondo cui nello stabilire la natura del contratto, e nel determinare il quale ed il quantum delle reciproche prestazioni, anziché stare allo stretto senso della parola, era concessa al

306 In questo senso anche M. Offeddu, Attualità di una ricerca storica: probiviri industriali e licenziamento, in

“Giornale di diritto del lavoro e delle relazioni industriali”, 1981, p. 68.

307 Aspetti questi che saranno oggetto di analisi nei paragrafi successivi. Il legame tra giurisprudenza

probivirale e diritto del lavoro nella Costituzione è stato sottolineato dal Romagnoli: “Infatti, il diritto sindacale e del lavoro prefigurato dalla costituzione che stavano scrivendo è un diritto di compromesso è un diritto di compromesso. Come, peraltro, era già apparso a quei piccoli protagonisti della più grande transazione dei conflitti tra capitale e lavoro sponsorizzata dallo Stato precorporativo che furono i probiviri. Per questo, come i probiviri del tardo ‘800 i padri costituenti pensavano che associazione sindacale fosse sinonimo di associazione per la tutela organizzata degli interessi economico-professionali non solo degli associati, bensì di più vaste collettività...”; cfr. U. Romagnoli, Il lavoro in Italia. Un giurista racconta, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 128.

308 S. Caprioli, Redenti giurista empirico. Introduzione a E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei

giudice libera potestas aestimandi ex bono et aequo quantum praestari debet. [...] Il che voleva significare che il giudice dovesse sempre ritenere che le parti avessero contratto

ut inter bonos agier oportet et sine fraudatione, sebbene si fossero contrariamente

espresse”. Ne derivava che “la prestazione di ciascun contraente si doveva considerare non già per se stessa, ma in relazione a quella dell’altro, esigendosi fra le stesse la correspettività del dare e dell’avere, e precisamente quell’uguaglianza, che è richiesta dall’equità”309. Tale era il significato che, secondo il Bianchi, doveva attribuirsi

all’equità richiamata dall’articolo 1124 del codice civile.

E, in un certo senso, tale era pure il significato attribuito dal Marioni, per il quale il contenuto dell’equità era rappresentato dal diritto naturale. Se tale locuzione aveva avuto nelle varie epoche storiche significati diversi – l’Autore muoveva dall’analisi di tali concezioni: dal Medioevo all’Umanesimo dal determinismo spenseriano al positivismo etico italiano, dal neo-idealismo critico crociano al materialismo critico di Loria – il Marioni ha dato una propria definizione di diritto naturale: tale è quello che ha fondamento nella natura sociale (e storicamente collocata) dell’uomo. I principi cardine di questo diritto naturale, e da cui derivavano tutti gli altri diritti dell’uomo consociato, erano libertà e solidarietà310. Anche per il Brugi le conseguenze del

contratto, non espressamente previste, non potevano che derivare dalla comune intenzione dei contraenti311.

Questo è senz’altro il metodo utilizzato dai probiviri, soprattutto in materia di conflitti e contrattazione collettiva, i quali hanno saputo contemperare gli interessi contrapposti attraverso le lenti della solidarietà di classe e della libertà del singolo312. È

stato detto sopra che al termine equità, nelle decisioni probivirali, veniva quasi sempre attribuito il significato proprio di alcune clausole generali313. Occorre ora rilevare – e

309 Così A. Bianchi, L’equità dei contratti secondo il patrio codice civile (art. 1124), in “Il Filangieri”, 1884,

p. 399.

310 F. Marioni, L’equità e la sua funzione nei giudizi, cit., pp. 492-501.

311 B. Brugi, La presupposizione e i criteri d’interpretazione del contratto formolati negli articoli 1124, 1131

codice civile, nota a Corte d’Appello di Genova, 15 maggio 1906, Moretti e altri c. Comune di Genova e Società mutua cooperativa ligure fra ortolani e contadini, in “Rivista di diritto commerciale”, 1907, II, pp. 46-52.

312 Vedi infra § 11 e ss. Severo invece il giudizio del Ricca Barberis sull’equità, cui si sarebbe sempre ricorso

in tempi di disordine: “Essa sembra la panacea di tutti i mali, il rimedio alle strettezze in cui si dibatte la società, lo strumento per attuare l’ideale cui si sarebbe dovuto mirar sempre: difendere l’umile contro il potente, il debole contro il forte.

Nulla di più erroneo e di più pericoloso, perché non solo l’ideale perseguito da secoli non si realizza punto ma, ogni qualvolta i rapporti giuridici si lasciano regolare dal sentimento, son distrutte le basi della vita sociale. E poiché colpito è prima d’ogni altro l’umile, il danno è proprio tutto di coloro cui si vorrebbe sovvenire. La tanto decantata equità è, dunque, un inganno esiziale”; v. M. Ricca Barberis, L’equità

perturbatrice dei rapporti sociali, in Id., Sul diritto della guerra e del dopoguerra (Studi di legislazione e di giurisprudenza), Torino, Fratelli Bocca editori, 1926, p. 337 e ss..

313 Per Isidoro Modica la stessa equità rientrava tra le clausole generali; cfr. I. Modica, Il prossimo

cinquantenario del codice civile italiano. Prolusione letta nella Regia Università di Catania il 12 gennaio 1914,

in parte questa è la ragione per la quale l’equità veniva identificata con altre nozioni ampie e generali – come i collegi abbiano spesso sovrapposto il concetto di equità alla nozione di buona fede, come del resto accadeva in dottrina314. Ne è un esempio

l’accostamento tra l’esecuzione del contratto secondo buona fede e l’interpretazione secondo equità che avrebbe dovuto darne il giudice, nonché la contrapposizione alla scissione romanistica tra contratti bonae fidei e contratti sctricti iuris, alla voce “buona fede” dell’Enciclopedia giuridica italiana315.

D’altro canto la nozione di buona fede, così come di tutte le clausole generali, ha un contenuto elastico e facilmente adattabile ad una pluralità di situazioni, anche contrapposte, a seconda del valore politico di riferimento. Sempre il Cazzetta ha infatti sottolineato, in relazione però all’articolo 1175 del codice civile del 1942, come dalla metà degli anni Ottanta (del Novecento) si siano verificati una “riscoperta delle clausole generali” e, contestualmente, un cambiamento dell’utilizzo della buona fede e della correttezza in favore del lavoratore, come strumenti di controllo dei poteri imprenditoriali316. Per quanto concerne la giurisprudenza probivirale – in un contesto

in cui la buona fede contrattuale veniva utilizzata per pretendere, quasi pedagogicamente, un certo contegno del lavoratore nel rapporto di lavoro – i collegi, se hanno per lo più utilizzato il binomio buona fede-equità per estendere le garanzie dei lavoratori e per ampliarne le tutele, non hanno esitato ad applicare la clausola di buona fede in senso restrittivo al fine di biasimare comportamenti di singoli lavoratori che fossero contrari ad un agire “da galantuomini” e che avrebbero potuto rappresentare, se tollerati, un pericoloso precedente.

Puntuale, e generalmente valido, il monito di Rodotà: “L’evoluzione dei pericoli in largo senso politici di un ricorso ampio alle clausole generali si ritrova non solo tra coloro i quali hanno messo l’accento sul rischio di un «sopravvento dell’interventismo dei giudici», di un «decisionismo giudiziale» che comprometterebbe «la certezza delle relazioni giuridiche», ma anche tra quelli che piuttosto si mostrano preoccupati del

314 G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale, cit., pp. 180-181: “L’art. 1124 del c.c. del 1865

conteneva un riferimento alla buona fede come criterio di esecuzione del contratto e un richiamo all’equità, all’uso e alla legge come parametri integrativi del contratto. La separazione tra la funzione integratrice e quella di esecuzione del contratto non fu mai in realtà fortemente operativa e particolarmente frequenti furono le sovrapposizioni (se si vuole, le confusioni) tra equità e buona fede”. Vedi anche i riferimenti bibliografici ivi contenuti.

315 G. Lomonaco, voce Buona Fede, in Enciclopedia giuridica italiana, Milano, Società editrice libraria, 1911,

vol. II, parte I e II, p.571. Cfr. pure Articolo 1124 in V. Cattaneo, C. Borda, Il codice civile annotato, Torino, Tip. e Lit. Camilla e Bertolero editori, 1877, II ed., parte II, libro III, p. 835.

316 G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale, cit., pp. 185-186, nota 59). Vedi pure C. Marti,

Alcune ipotesi di applicazione giurisprudenziale del principio di buona fede, in Il principio di buona fede. Giornata di studio – Pisa, 14 Giugno 1985, Milano, Giuffrè, 1987, vol. III, pp. 161-169.

paternalismo di cui esse si farebbero portatrici, con ingerenze indebite in ambiti che dovrebbero essere integralmente lasciati alla libera determinazione dei privati”317.

Il discrimen tra giudizio di buona fede e di equità risiedeva, nella concezione positivistica ottocentesca, nella diversità delle norme sociali di riferimento – sociali nel primo, ideali nel secondo – e pertanto nel fine, conservativo nell’un caso evolutivo nell’altro. Se “il ricorso all’equità presuppone lo scardinamento del caso da precedenti o modelli generali, la non comparabilità con altri casi già sperimentati”, “il giudizio secondo buona fede svolge una valutazione del contratto alla stregua di tipi normali di comportamento riconosciuti come norme sociali, dai quali il giudice trae un criterio di interpretazione del regolamento negoziale oppure un criterio di esplicitazione di modalità esecutive”318. Ed allora la clausola di buona fede non avrebbe potuto

condurre ad una evoluzione del sistema del diritto. I collegi hanno dovuto necessariamente legare inestricabilmente buona fede ed equità per potere esercitare un ruolo innovativo. Il giudizio sull’esatta esecuzione del contratto passa per l’integrazione del suo contenuto attraverso la ricognizione di quegli usi che fossero idealmente condivisibili e attraverso la verifica della diligenza che in quella serie di fattispecie ipotizzate – e non solo nel caso singolo – doveva pretendersi. Il nesso tra equità e diligenza era stato intuitivamente compreso dal Redenti: “A determinare la natura e la legge delle prestazioni concorre infine larghissimamente l’equità, sia in quanto dalla natura del rapporto e della pratica dei galantuomini può dipendere, nella stessa maniera che dalla consuetudine, l’esistenza o il modo di certe obbligazioni, sì perché l’interpretazione stessa e il modo di esecuzione di tutte le obbligazioni nascenti dal rapporto derivano da questa fonte”. Notava, in proposito, il Giurista che il maggior numero di massime “non riguarda l’esistenza o meno di certe obbligazioni, sì bene il modo di eseguirle, che è in sostanza il loro modo di essere: la diligenza”319.

Appaiono inoltre quanto mai pertinenti le considerazioni di Umberto Breccia sulla relazione tra buona fede, diligenza e contenuto dell’obbligo contrattuale, sebbene riferite all’odierno ordinamento positivo ed in particolare alle disposizioni del codice civile del 1942. Secondo l’Autore bisognerebbe individuare un nesso teleologico tra la natura della prestazione e la difesa dell’integrità dell’altrui sfera giuridica. Non si tratta di integrare il contratto, e tanto meno il rapporto obbligatorio, ma di interpretare la volontà delle parti rendendo esplicito quanto doveva ritenersi in esse oggettivamente implicito. La protezione non riguarda qui eventuali obblighi accessori, ma il nucleo

317 S. Rodotà, Conclusione: il tempo delle clausole generali, in Il principio di buona fede. Giornata di studio – Pisa,

14 Giugno 1985, cit., p. 267.

318 L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Il principio di buona fede. Giornata di studio – Pisa,

14 Giugno 1985, cit., p. 12.

319 E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, cit., pp.173-174. Per un’analisi dottrinale sulla

convergenza tra il canone della buona fede e il criterio del buon padre di famiglia, v. D. Corradini, Il criterio

centrale dell’obbligo320. Parallelamente, come affermato dal Corradini, “i canoni

equitativi a cui i lodi dei probiviri porgono in genere lo sguardo, impongono ai soggetti del sinallagma di comportarsi ut inter agier bonos oportet, senza inganni e senza ingegnarsi a sorprendere l’altrui debolezza. ...quei lodi si richiamano con sollecitudine a parametri analoghi alla bona fides, desumendo dalla prassi e dalle consuetudini del commercio massime non previste dal legislatore: e ciò amplia notevolmente i poteri dell’interprete e lo spinge a compiere una funzione creatrice, in quanto queste sentenze laiche si basano su motivi etici o ideologici sul senso comune, e costituiscono in forma spontanea una casistica che si affianca ai pochi articoli del codice”321.

Strettamente connesso al tema della buona fede oggettiva e di una rilettura, ispirata ai nuovi bisogni sociali, della disciplina codicistica è l’abuso del diritto, sia nelle teorizzazioni della dottrina, sia dei giudici. Nel rinviare alle bellissime pagine del prof. Cazzetta322, è sufficiente accennare al fatto, come si vedrà nel prosieguo, che anche i

collegi furono sensibili a questo modo di argomentare.

4. La stabilità del rapporto di lavoro. a) Il preavviso di licenziamento ed il

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