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La riforma in appello delle sentenze dei probivir

10. Il contratto collettivo: l’autonomia privata entro l’ordine costituito

10.3 La riforma in appello delle sentenze dei probivir

La posizione del collegio genovese era in realtà in linea con quella della magistratura togata, restia a riconoscere nuove forme di rappresentanza degli interessi544.

Adita in secondo grado per impugnazione di un provvedimento probivirale, la magistratura ordinaria ribaltava gli arresti dei collegi, pur non potendo effettuare un sindacato sul merito, sul presupposto che la loro competenza fosse limitata alle questioni intercorrenti fra operai e imprenditori legati da un contratto di lavoro effettivamente esistente (“pattuito e in corso”)545. Pertanto, in presenza di accordi

collettivi, le giurie non potevano giudicare tra parti che non fossero state firmatarie dell’accordo medesimo. Il vizio di incompetenza, insomma, permetteva di cancellare in un baleno le evolutive morfologie consacrate dalla giurisprudenza probivirale. Si trattava, infatti, di una “incompetenza ratione materiae d’ordine pubblico”, che poteva “essere dichiarata in qualunque stadio del giudizio”546.

L’Ascoli, nel commentare la superiore vicenda, riteneva che avessero errato sia la giuria sia il pretore. La prima infatti non avrebbe dovuto autorizzare una violazione dell’articolo 1130 del codice civile per l’asserita tutela della pace pubblica547. In ogni

542 Giuria dei collegi di probiviri Milano, Industrie poligrafiche, 19 novembre 1914, Frassini c. Semenza, in

Monitore dei tribunali”, 1915, p. 117.

543 Giuria dei collegi di probiviri Genova, Arte bianca, 15 gennaio 1925, De Marco c. Burlando, in “Monitore

dei tribunali”, 1925, pp. 355-356 e Id., 29 novembre 1923, Fortunelli c. Carpi, in “Monitore dei tribunali”, 1925, pp. 356-357.

544 Cfr. C. Vano, Riflessione giuridica e relazioni industriali fra Ottocento e Novecento: alle origini del

contratto collettivo di lavoro, in A. Mazzacane (a cura di), I Giuristi e la crisi dello stato liberale tra Otto e Novecento, Liguori Editore, Napoli, 1986, p. 143; B. Veneziani, I conflitti collettivi e la loro composizione nel periodo precorporativo, p. 226 e ss. e M. Cappelletto, Per una storia del diritto del lavoro: il contratto collettivo e i probiviri, cit., p. 1209 e ss..

545 In termini Pretura di Milano, VII Mandamento, 15 dicembre 1902, Guelfi c. Carnevali, in “Monitore dei

tribunali”, 1903, pp. 114-115.

546 Ivi, p. 115. Sull’appellabilità delle decisioni probivirali e sul significato dei vizi di incompetenza ed

eccesso di potere, si rimanda al cap. I § 5.1.

547 “I contratti non hanno effetto che fra le parti contraenti: essi non pregiudicano né giovano a terzi,

caso poi, l’articolo 9 della legge istitutiva dei collegi “non dice né presuppone” la sua competenza in materia di controversie collettive. Quanto al pretore, egli non avrebbe dovuto giudicare sul motivo di incompetenza, bensì sull’eccesso di potere, e valutare la conformità della decisione ai principi del diritto contrattuale. L’azione esperita dal terzo era, infatti, un’azione di danni e non contrattuale.

Affinché quel concordato avesse potuto esplicare i suoi effetti sulle parti non stipulanti si sarebbero dovute verificare due ipotetiche situazioni: o l’esistenza di un vincolo di rappresentanza più o meno piena tra chi dichiarava di obbligarsi e l’eventuale obbligato, oppure l’estensione degli obblighi e dei diritti derivanti dai contratti collettivi a soggetti terzi non dissenzienti, in forza dell’articolo 1128 del codice. Restava salva, pertanto la possibilità individuale di ogni stipulante di revocare quanto concordato anche nei riguardi di un singolo. L’Autore era infatti un fermo credente nel principio dell’autonomia dei contraenti, per cui l’operaio che avesse dovuto sottostare alle decisioni prese dalla maggioranza della sua classe sarebbe stato privato della libertà di locare la propria opera548.

Diverso il parere del Lessona, il quale si propose di dimostrare la tesi della piena legalità della decisione emessa dalla giuria. Il collegio aveva ritenuto obbligatorio il contratto anche nei confronti dei terzi non in quanto legge contrattuale, ma perché i criteri di detto accordo apparivano ispirati a giustizia ed equità. La tutela dell’ordine pubblico era una giusta esigenza alla quale il diritto privato avrebbe dovuto sottomettersi. Il legislatore aveva inoltre riconosciuto ai collegi una vera e propria

potestas edicendi e le aveva, quindi, concesso di decidere non secondo lo stretto diritto

ma in base a criteri di equità. Date queste premesse, la decisione della giuria era incensurabile sotto il profilo della violazione di legge, violazione del resto impossibile per l’assenza di una legge in tale materia. Il Lessona passava allora all’argomento analogico: sebbene non si parlasse mai esplicitamente di funzione creativa per il rapporto di pubblico impiego, le decisioni della quarta sezione del Consiglio di Stato venivano estese anche a soggetti terzi rispetto al giudicato. In tale maniera, risultava dimostrata la legittimità del nuovo diritto proclamato dalla giuria dei probiviri, in quanto estrinsecamente promanante da un organo autorizzato a formulare diritto e rispondente, intrinsecamente, alle necessità sociali del lavoro industriale549.

Curioso – ma non più di tanto – che l’articolo fosse accompagnato da una nota della direzione del seguente tenore: “La Rivista di diritto commerciale è un campo aperto a tutte le idee con la naturale conseguenza che ciascuno dei collaboratori assume intera la responsabilità di ciò che si stampa sotto il nome”.

548 A. Ascoli, Il contratto collettivo di lavoro (a proposito di recenti sentenze), in “Rivista di diritto commerciale”,

1903, I, pp. 95-107.

549 C. Lessona, La giurisdizione dei probiviri rispetto al contratto collettivo di lavoro, in “Rivista di diritto

commerciale”, 1903, I, pp. 224-237. Il Lessona riferisce anche in relazione alla decisione del V mandamento di cui si dirà appresso.

Un altro caso merita di essere ricordato ed è quello intervenuto fra i signori Luraschi e Beretta550. La controversia traeva origine da una situazione di “denegato turno” a

seguito del concordato 31 ottobre 1901, giustificata, secondo il proprietario di forno Luraschi, dall’aver egli stipulato coi propri dipendenti una contrattazione speciale che regolava il riposo. Secondo la giuria, tali pattuizioni non potevano avere forza obbligatoria, poiché si ponevano in contrasto con quel concordato al quale riconoscevano natura inderogabile; concordato dal quale sorgeva altresì un diritto quesito rispetto all’operaio stabile in capo all’operaio surrogante. Condannato dal collegio, il Luraschi proponeva appello per incompetenza – assumendo che tra il medesimo e il sostituente Beretta non sussisteva alcun contratto di lavoro né tale poteva considerarsi il concordato 31 ottobre – ed eccesso di potere, avendo la giuria esteso l’obbligatorietà del concordato contro la regola res inter alios acta551. Muovendo

dai lavori preparatori e dalla preminenza data alla funzione conciliatrice, nonché dalla lettera dell’articolo 1 della legge 295/1893, la pretura affermava che “la potestà di giudicare conferita alla Giuria deriva dal concorso di due condizioni: che le parti in causa si trovino tra di loro nei rapporti di principale a dipendente o di operaio ad operaio; che la controversia da risolvere riguardi il contratto di lavoro la cui esecuzione sia in corso tra le parti medesime”552. La pretura – in ossequio

all’interpretazione restrittiva cui devono essere soggette le leggi speciali – avrebbe dovuto verificare, pertanto, la sussistenza delle condizioni annoverate per confermare o meno la competenza della giuria. Dunque, nel caso di specie, valutare se il concordato 31 ottobre potesse essere considerato valido contratto di lavoro tra il Luraschi e il Beretta. Pur apprezzando l’intento della giuria di impedire disordini sociali e il diffondersi di pratiche di concorrenza sleale fondate sul ribasso delle mercedi, per la pretura tali ragioni non potevano “soffocare il principio giuridico della sovranità e libertà convenzionale delle parti”. E del tutto destituita di fondamento era la costruzione teorica che fondava il contratto collettivo sulla fìgura giuridica del mandato tacito. Esso, infatti, “richiede la scienza e l’acquiescenza del mandante in ordine all’operato del mandatario, scienza che, portando con sé l’assentimento dell’interessato, deve essere stata la causa della immissione del gerente negli affari di lui”. Condizione comunque insufficiente, occorrendo vieppiù che il mandante avesse avuto la “possibilità di opporsi alla gestione ed avesse inoltre avuto il dovere giuridico od almeno un ragionevole interesse per opporvisi, dovere derivante dalla tutela dovuta

550 Pretura di Milano, V Mandamento, 18 gennaio 1903, Luraschi c. Beretta, in “Monitore dei tribunali”,

1903, pp. 272-275.

551 In particolare, osservava il Luraschi, l’inapplicabilità del concordato derivava: dall’avere egli, tramite

pattuizioni speciali, soddisfatto lo scopo del concordato medesimo e dall’avere pertanto diritto, sia il datore che il dipendente stabile, a scegliere il proprio sostituto al di fuori di ogni ingerenza da parte dell’ufficio di collocamento.

alla buona fede dei terzi, interesse nascente dal danno che l’atto tollerato verrebbe a recargli”. Ed allora, per risolvere la questione, occorreva risolvere il quesito se il silenzio potesse essere considerato mandato tacito alla gestione da parte del terzo di beni di nostra proprietà. La risposta negativa aveva origine nella circostanza che il silenzio di fronte all’operato delle rappresentanze delle parti, alle quali non era stato precedentemente attribuito alcun incarico di gestione, doveva piuttosto essere considerato come una riserva a regolare da sé i propri affari.

Ed ancora, premesso di non comprendere con quali mezzi il Luraschi avrebbe potuto opporsi ai negoziati fra le due commissioni concordanti la tariffa, in ogni caso essi sarebbero stati inadeguati al raggiungimento dello scopo. Il dissenziente, infatti, “si sarebbe sentito rispondere: Noi rappresentiamo la maggioranza delle classi e non i singoli individui, noi provvediamo ad un interesse generale, volendo restituire il lavoro nelle sue condizioni normali, con beneficio anche per la pubblica tranquillità. Chi avesse osato disdire a priori l’opera delle Commissioni si sarebbe assai verosimilmente offerto ad ostili dimostrazioni, che pochi hanno il coraggio civile di affrontare e che non si possono quindi ragionevolmente pretendere da nessuno. Tanto dicesi per rilevare come, nella posizione del Luraschi, la libertà del dissenso fosse per lo meno assai limitata”.

Inoltre, secondo la pretura, non poteva ravvisarsi in capo all’imprenditore alcun dovere di cooperare affinché non venisse lesa la buona fede dei terzi, dovendo avere il concordato efficacia soltanto tra le parti contraenti, con la conseguenza che mancava ogni suo interesse ad opporsi553. Non poteva nemmanco invocarsi il contratto

stipulato in favore di terzi, in quanto le rappresentanze delle associazioni non avrebbero fatto che agire nell’interesse dei singoli membri e, per questo motivo, il contratto collettivo non poteva dirsi ispirato da un interesse generale, ma era la risultante di tanti singoli contratti da ciascun datore ed i suoi dipendenti. La giuria, infine, sarebbe caduta in contraddizione nell’applicare le norme del mandato tacito al concordato di tariffa e nell’eclissarle, invece, in relazione al regolamento di fabbrica adottato dal Luraschi e contenente le speciali pattuizioni, al quale nessun operaio aveva rivolto rimostranze554.

Insomma, la pretura, in ossequio ai principi del diritto codificato, ha smontato la formantesi giurisprudenza probivirale, per una sorta di insito conservatorismo. Essa dimostrava infatti di comprendere le ragioni che avevano mosso il collegio a creare un nuovo istituto: il contratto collettivo inderogabile e vincolante erga omnes. Ma una tale costruzione avrebbe avuto senso soltanto se il legislatore, con la legge istitutiva dei collegi probivirali, avesse voluto delegare una parte del suo potere legislativo alle giurie. Circostanza che la pretura esclude.

553 Ivi, pp. 273-274. 554 Ivi, p. 275.

Ciononostante, la pretura mostrava di esser ben consapevole di quali sarebbero state le tappe legislative necessarie affinché la questione sociale potesse essere efficacemente risolta e le sintetizza in una sorta di manifesto programmatico. “Quando nella nostra legislazione, come ospite novello e non sgradito, entrerà il diritto degli operai e dei padroni di farsi rappresentare nella stipulazione dei contratti di lavoro dalle associazioni a cui rispettivamente appartengono; quando queste associazioni, che oggi non hanno il riconoscimento giuridico, saranno considerate come enti di ragione ed avranno i loro legittimi rappresentanti, le loro discipline di funzionamento e la loro responsabilità civile; quando si ammetterà la obbligatorietà delle deliberazioni della maggioranza anche per la minoranza dissenziente, alla stessa guisa come è ammesso per i creditori del fallimento, per i comunisti, per le società commerciali, regolandosi opportunamente le assemblee in modo che non riescano agglomerati confusi e tumultuari di persone; quando si stabiliranno garanzie per assicurare che le deliberazioni collettive sieno veramente la espressione genuina della maggioranza degli interessati, e l’adempimento di tali deliberazioni verrà raccomandato, non soltanto al patrimonio della classe padronale, ma ad una garanzia concreta da parte eziandio della massa lavoratrice; quando tutto ciò, – ripetesi – entrerà a far parte del nuovo diritto sociale, allora potrà affrontarsi la questione della inderogabilità dei patti collettivamente approvati, ma fino a che tutto ciò sia de lege ferenda e si presenti appena adombrato persino nel progetto sul contratto di lavoro che venne recentemente presentato alla Camera (art. 9 e 10), allora il dichiarare, come ha fatto la Giuria, la nullità dei patti coi quali si stabiliscono singolarmente condizioni di lavoro diverse da quelle fissate nel concordato è sovrapporsi al legislatore”555.

Certamente di fronte a tanta lucidità, appare evidente come la magistratura ordinaria si fosse censurata dietro il più rigido garantismo e il più nobile ossequio al sistema di diritto per riaffermare, biecamente, gli interessi del ceto borghese. Non solo per la propria estrazione borghese556, ma anche perché abituata ad operare con uno

strumento, il codice civile, nel quale ogni norma poteva agevolmente “essere interpretata in senso classista, come strumento di difesa economica e sociale del ceto abbiente nei confronti degli strati inferiori della popolazione”557.

555 Ivi, p. 274.

556 Il Neppi Modona ha parlato di una “autonoma vocazione conservatrice” della magistratura italiana in

tema di sciopero, anche verso quelli legalitari mossi da rivendicazioni economiche, “tenacemente difesa , al di sopra e contro gli indirizzi politici generali del paese”. Politica giudiziaria che dipendeva dalla matrice sociale dei magistrati. D’altra parte l’astensionismo dell’esecutivo nei riguardi della magistratura, il mancato invito ad accogliere soluzioni più progressiste si spiegherebbe con il non avere, esso, “né la convenienza né la forza politica di suscitare ed affrontare la reazione dell’opinione pubblica conservatrice che, trovando fecondi spunti nell’ambiente piuttosto retrivo della magistratura, avrebbe certamente denunciato le indebite ingerenze dell’esecutivo nell’amministrazione della giustizia, facendo appello al comodo feticcio dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario”; così G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e

magistratura 1870/1922, cit., pp. 92-93.

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