“Com’è bella la città. Com’è grande la città. Com’è viva la città. Com’è allegra la città. Piena di strade, e di negozi e di vetrine. Piena di luce. Con tanta gente che lavora, con tanta gente che produce. Con i reclames sempre più grandi, con i magazzini e le scale mobili. Coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più.”79
Giorgio Gaber descrive così, nel 1969, lo sviluppo intrapreso da Milano a partire dagli anni ’50 e di come la stessa società ha modificato i suoi meccanismi in conseguenza al nuovo modo di vivere in città. La forza attrattiva rappresentata nella prima parte del testo, si ripropone con maggior forza nella strofa che apre la canzone e che si ritrova successivamente nel testo:
“Vieni, vieni in città. Che stai a fare in campagna? Se tu vuoi farti una vita, devi venire in città!”
La forza della canzone risiede nella sua capacità di proporre un immaginario evolutivo del vivere la città. Le strofe si riproducono con ritmo e sensazioni diverse, rafforzate dalla stessa mimica e teatralità di Gaber, in cui si passa da un tono ammirevole nei confronti della città, convinto della sua “bontà”, ad uno autosuggestivo delle affermazioni dette, fino a concludersi con tono catatonico che si trasforma, in quello conclusivo, in una parlata frenetica e sovrapposta agli stimoli che la stessa città produce. Immagine simile viene proposta dal film Rocco e i Suoi Fratelli80 in cui, in una
79 Parte del testo della canzone Com’è bella la città, incisa da Giorgio Gaber nel 1969.
80 Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti del 1960, ispirato ai racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori. Il titolo richiama l’opera di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, e le poesie di Rocco Scotellaro dedicate ai contadini emigrati in città. Il film racconta la storia di una famiglia Lucana
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delle scene iniziali, il viaggio in tram dalla Stazione Centrale al quartiere Lambrate diventa occasione di ammirazione per le vetrine e le luci che, agli occhi della famiglia meridionale appena arrivata in città, “sembra giorno”.
Il contesto dinamico della Milano del boom diviene terreno fertile per leggere e interpretare i mutamenti, in particolare sulle questioni retrostanti il lato positivo dello sviluppo, delle vicende e delle storie che, in qualche modo, disorientano sia il nuovo arrivato che lo stesso abitante della città. Un altro esempio dello stravolgimento in atto è Il ragazzo della via Gluck, incisa da Celentano nel 1966, e La risposta al ragazzo di via Gluck, di Gaber, canzone meno nota rispetto la precedente, ma incisa nel medesimo anno. I testi, entrambi trattano lo sviluppo della città durante il boom, ma in un’ottica e umore contrastante: Gaber apre la canzone affermando che “questa è la storia di un ragazzo che abitava in una strada di periferia, e in fondo, in fondo un po’ assomiglia al ragazzo di via Gluck, anche se i suoi problemi sono un po’ diversi”. Celentano narra la vicenda attraverso la storia di un suo amico di infanzia, anche se può essere definita la sua di storia, e della sua casa, in quella che un tempo era una periferia staccata dalla città, immersa nel verde della campagna, in cui l’unico suono riconducibile all’urbano era il fischio del treno. La canzone prende un tono drammatico e malinconico nel momento in cui la vicenda della persona narrata si trova sul punto di trasferirsi in città. Ne risulta un dialogo tra la malinconia di dover lasciare il posto dove si è nato e “del giocare nell’erba a piedi nudi” che, dal punto di vista della visione contrapposta, risultano questioni minime rispetto le grandi opportunità offerte dalla città, come non avere il bagno in cortile e “trovare tutte le cose che non hai avuto qui”. La contrapposizione è simbolicamente rappresentata tra il respirare il cemento e avere più comodità e il giocare a piedi scalzi nell’erba e restare nel luogo in cui si è nato e legato. Il desiderio della persona narrata risulta quello di ritornare in quella casa immersa nel verde, ma una volta arricchito abbastanza per permettersi di comprarla, otto anni dopo la sua partenza, la città e il cemento hanno inglobato quella casa ed emerge la consapevolezza che quei ricordi non sono più presenti.
Sentimento diverso ruota intorno alla figura del ragazzo di periferia di Gaber, che, come già affermato, è simile ma con problemi diversi rispetto a quello di Celentano. Se il ragazzo di Celentano vive con rammarico l’allontanarsi dalla sua abitazione per ragioni sentimentali e ne è devastato dal processo di inurbamento che lascia spazio solo ricordo, quello di Gaber vive immerso nella periferia e nella problematicità stesse della periferia. Il ragazzo di Gaber, che ipoteticamente risponde al malcontento del ragazzo di Celentano, si caratterizza come “un ragazzo come tanti, che lavorava e tirava avanti aspettando senza pretese lo stipendio a fine mese” e che viveva con “la madre a carico in due locali, mobili usati presi a cambiali in un palazzo po’ malandato, servizi in corte e fitto bloccato”. La vera contrapposizione tra le due esperienze raccontante si configura nel ruolo del prato. Se in Celentano il prato qualifica un motivo di voglia di ritorno a casa ed in un senso di malinconia per qualcosa che non c’è più, in Gaber la questione
emigrata a Milano, dopo la morte del capofamiglia, per raggiungere Vincenzo, il fratello maggiore già emigrato nella città in passato, che avrebbe dovuto prendersi cura della famiglia essendo lui diventato il capofamiglia. Il film si sviluppa attraverso storie interne, intitolate con i nomi dei quattro fratelli, che seguono storie e vicende personali diverse e, conseguentemente, modi contrastanti di sentire e vivere l’ambiente della nuova città.
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del verde si trasforma in evento che trasforma un percorso di vita semplice, lineare e quasi codificato, in un dramma esistenziale. Se Celentano si chiede dove sarà finita quella casa che era in mezzo al verde dove ora ci sono “case su case e cemento su cemento”, in Gaber la casa vien buttata giù in ottemperanza al piano verde. L’epilogo drammatico del ragazzo raccontato da Gaber sta che lo sfratto dalla casa che “guardava tutto contento ed aspirava l’odore cemento” arriva in concomitanza con la morte della madre e la possibilità, rimasto solo, di pensare alle nozze avendo una casa a disposizione. Ma per fare spazio ad un prato, “persa la casa fitto bloccato, la sua morosa lo ha abbandonato. L’amore è bello ma non è tutto e per sposarsi occorre un tetto. Ora quel prato è frequentato da qualche cane e qualche coppietta e lui ripensa con gran rimpianto a quella casa che amava tanto”. Con la solita capacità narrativa, e talvolta paradossale e caricaturale, Gaber si lascia ad un ultimo commento personale: “E’ ora di finirla di buttar giù le case per fare i prati, cosa ci interessano a noi i prati? Guarda quello lì, doveva sposarsi, gli han buttato giù la casa non può più sposarsi. Roba da matti. Io non capisco perché non buttano giù i palazzoni del centro, quelli lì si che disturbano, mica le case di periferia, mah i soliti problemi, qui non si capisce più niente.”. Il parallelismo e la contrapposizione tra i due brani si riassume, sintetizzando estremamente, nel “perché non lasciano l’erba” di Celentano e nel dove rimettono l’erba, identificabile nella conclusione del testo di Gaber.
I sintomi che in qualche modo emergono dalle due narrazioni, erano già stati ripresi da Giancarlo De Carlo all’interno della Triennale di Milano X del 1954 e nella trilogia di cortometraggi intitolati Cronache dell’urbanistica italiana, La città degli uomini e Una lezione di urbanistica. Nel primo cortometraggio, Cronache dell’urbanistica italiana, ci si interroga sullo sviluppo moderno intrapreso mettendo in luce una ricostruzione “iniziata su ritmi febbrili per tentare di risolvere problemi più grandi, più vasti e più antichi” in cui “per la prima volta alcuni enti si posero il problema della casa popolare, nei suoi giusti termini umani e sociali, rivolgendosi alle forze tecniche più qualificate dell’architettura moderna” ma “per l’urgenza di fare e di costruire non sempre si è proceduto seguendo una vera pianificazione urbanistica. A volte si sono trascurati gli aspetti umani e sociali delle opere da costruire. Così è accaduto che accanto al mostruoso edificio costruito in epoca fascista ne è sorto un altro delle stesse dimensioni. Che si siano costruiti quartieri monotoni e tristi, che sembrano disabitati. Che si siano cintati nuovi quartieri, come se case e abitanti dovessero essere isolati dalla città” e “senza creare un ambiente per la vita comunitaria”. Il discorso prosegue nella La città degli uomini, in cui l’atmosfera sottostante passa da un suono lento e riflessivo ad uno frenetico ed imitante dei suoi che la città produce. Vengono riprese riflessioni sulla città in via di sviluppo in cui “sembra che la città ci sommerga, ma siamo noi che l’abbiamo fatta” perché “non potevamo vivere soli e costruimmo le città per vivere insieme” in cui “tutte (le città) hanno la stessa storia di bisogno e di lavoro per il bisogno […] in cui ognuna di essa ne porta il segno”. De Carlo prosegue affermando che “oggi la città ha questa faccia, un ritmo che attrae e disorienta, ma sotto è gonfia della sua vita contradditoria […], per cui nutrirsi nella ripetizione di ogni giorno non è più una festa in comune. Per cui possiamo non far più caso a chi ci passa accanto disperato” e, in conseguenza, “la città che l’uomo ha creato si è rivolta
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contro di lui. Dovremmo dunque distruggerla?”. De Carlo risponde al quesito considerando che “la città è anche questo: soddisfazione di lavorare insieme per arricchirla e farla più grande. Contatto immediato con tutto il mondo. Dinamismo culturale, spettacolo e festa. Liberazione dal controllo degli altri e ancora lotta per accrescere le libertà. Possibilità inesauribile di comunicazione. La città è alloggio cattivo, lavoro senza gioia, mortificazione, miseria e affanno. Ma la città è anche speranza, apertura, spinta alla comunicazione e alla libertà. Nella città si sviluppa tutto il buono del mondo: la scienza, la tecnica, la produzione e l’arte. Noi non possiamo distruggerla per il suo male, perché distruggeremmo anche il suo bene irriproducibile, unica forza viva del mondo contemporaneo. Solo nella città si può lavorare per permettere agli uomini di vivere meglio.”. L’ultima parte della trilogia, Una lezione di urbanistica, si sofferma e orienta il suo sguardo, in modo quasi ironico, su come l’uomo vive la sia vita quotidiana “regolata con ingegnosità rara […] circondato da invenzioni talvolta utili, talaltra dilettevoli” e che vive “in condizioni che attestano eloquentemente l’altro grado di razionalità raggiunto dalla società contemporanea: in ogni suo atto l’uomo è accompagnato e sorretto da un’alleata potente, la tecnica. […] Unito dai conforti della prodigiosa tecnica moderna, l’uomo in casa sua è un Re”. La voce narrante è accompagna dai movimenti e le azioni di un attore alle prese con le ordinarie faccende mattutine, dalla sveglia al prepararsi per uscire, e della difficoltà quasi comica di dover compiere semplici azioni in uno spazio razionalmente minimo, ma pieno di insidie non calcolate. Attraverso il medesimo approccio riscontrato nell’ideologia della costruzione dell’alloggio minimo, lo sguardo si sposta su come la città è stata concepita. La riflessione, rappresentata attraverso una planimetria un pezzo di città di notevole dimensione sulla quale tre archetipi di pianificatori si cimentano nello spiegare le loro ragioni. La voce narrante introduce la questione, mentre i tre “modelli” entrano lentamente in scena, affermando che “tale è la città moderna: un problema. L’uomo non riesce più a controllarne lo sviluppo […], che fare? La parola agli urbanisti. Ecco gli urbanisti al capezzale della città sofferente. È possibile salvarla?”. Lo sceneggiato prosegue con la presentazione dei tre modelli risolutivi dei mali della città. Il primo, un architetto, indentifica il problema della città come un “problema plastico, di proporzioni, di rapporti. È un problema di armonia” risolvibile con il fare “città eleganti ed avete cittadini civili ed eleganti.”. Il secondo approccio, il punto di vista di un tecnico di grande esperienza, “il problema della città è uno solo, la circolazione” e per risolverlo “non c’è altro da fare: sistemare la rete stradale in modo che il traffico possa scorrere senza inceppi”. Alle spalle dalle movenze del tecnico, l’architetto si mostra indispettito dalla sovrapposizione della sua opera proporzionalmente perfetta scomposta dal un rullo che traccia una riga bianca. Il tecnico si interroga su cosa fare di un vecchio monumento, tra il distruggerlo e spostarlo, decide di traforarlo. La visione del tecnico, che identifica l’approccio si riassume nella concezione che “un piano, se si applica, deve essere applicato nella sua integralità. Bisogna avere il coraggio in certi casi di sfidare l’impopolarità. Abbattuti pochi quartieri, la nuova arteria è pronta […]”. La terza persona, un professore “in cuor suo disgustato” e “con un profondo disprezzo sia per l’intuizione che per l’esperienza […], residui di una mentalità antiquata”, sale su una scala per osservare la città dall’alto da cui sfoglia un testo: “al giorno d’oggi
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prima di fare un piano occorrono i dati. Occorre un’analisi scientificamente condotta sul corpo della città. Aggredire i problemi e tradurli in cifre. Fate parlare la statistica e la statistica parlerà per voi.”. Durante la narrazione, il professore, armato di stetoscopio e taccuino, ascolta la città mentre una stampante produce una serie di case e automobili. Per il professore, essendo “l’analisi statistica della città è la sua sintesi scientifica, danno come risultato lo spazio commisurato all’uomo medio dedotto statisticamente. Risultato scientifico, quindi obiettivo, automatico. Quindi, sicuro. La scienza ha trovato lo spazio ideale per l’uomo. Manca soltanto lui, l’uomo.”. La prova delle analisi svolta dal professore si esprime in un percorso a ostacoli che l’uomo deve, più che superare, seguire. Il percorso, avente le sembianze di un labirinto di cartelli stradali e indicazioni, termina in una silhouette in cui lo stesso uomo deve passare, il tutto sempre osservato dall’alto dal professore. Una volta arrivato al traguardo, la silhouette, e le difficoltà di far passare l’uomo al suo interno, il pensiero del professore si rivolge ai suoi calcoli: “Possibile? No, i calcoli non sono sbagliati. Caso mai, sbagliato sarà l’uomo”. L’uomo, dopo una notevole spinta da parte dello studioso per farlo passare, ne esce con gestualità robotizzate sotto lo sguardo compiacente del professore. La trilogia termina con una nota positiva in riferimento all’uomo uscito esausto dal percorso: “No uomo della città, non sei ancora morto. E neanche la tua città, la riconosci? C’è caos nella città […], ma l’errore non sta in lei, sta nel volerla modificare astrattamente, senza capirla. Va nella tua città uomo e collabora con chi vuole renderla umana, più simile a te”.
La frustrazione di De Carlo, già chiaramente sottotraccia nelle riflessioni riportate, emerge chiaramente nel suo interrogativo su chi “il pubblico dell’architettura81 in cui l’attenzione di De Carlo si concentra sull’ambiguità del ruolo dell’architetto nel quale risulterebbe una contraddizione tra il settore dell’architettura e la realtà dei fatti. Tale ambiguità risale ad un cambio di concezione del loro compito nelle diverse epoche storiche, che, pur essendo sempre stato soggetto alla visione del mondo di coloro al potere e definendosi con esso, è passato da appendice operativa del potere ad applicatore delle conoscenze, diventando rappresentativo della classe dominante. De Carlo sostiene che: “fin a quando l’esecuzione dei suoi doveri trovano la sua dignità e nel pagamento, non si preoccuperanno delle motivazioni e delle conseguenze: questo sarà fino a quando non riferirà la sua attività verso una più generale questione politica”. Il pensiero di De Carlo rispecchia la necessità di una tensione che deve emergere tra ciò per cui si è preso l’impegno, il volere del committente, e impegni per cui non si sono presi impegni diretti. È su questo punto che De Carlo si interroga su chi è il vero pubblico dell’architettura: le persone.
Le riflessioni poste in questo capitolo aiutano ad introdurre una prima interpretazione degli effetti che il dinamismo della città ha avuto sulla percezione delle persone estremizzati attraverso la lettura di due noti cantautori milanesi. Dall’altra parte, le riflessioni di De Carlo hanno messo in evidenza il problema, e il modo attraverso il quale, la questione
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della città in espansione è stato trattato, soffermandosi sul fatto che, nonostante tutto, la città è resta il contenitore del “bene” e del “male”.