Se il fenomeno della Corea si manifesta come fenomeno limitato e particolare del meccanismo d’insediamento e del suo rapporto con la città, la stabilizzazione dei nuovi che restano nella città si verifica in maniera differente con fenomeni altrettanto differenti. John Foot propone un’interessante lettura delle suddette dinamiche comprendendone e esemplificando le questioni attraverso il racconto di quattro dinamiche inerenti a quattro diversi quartieri: Baggio, Barona, Bovisa e Comasina. Questi quartieri si differenziano per un diverso grado di appartenenza politico e cultura, per l’influenza che ha avuto il boom del consumismo sulla collettività e, più semplicemente, se l’espansione edilizia del quartiere parte da una presenza di comunità precostituita o se la sua fondazione risulta ex- novo. I quartieri esemplificano quattro modi diversi in cui il rapporto tra nuova e vecchia popolazione si intrecciano, sviluppando in maniera differente il concetto di integrazione, se e quando è avvenuta.
La Bovisa, quartiere a nord di Milano e delimitato della ferrovia, si determina come luogo ideale per l’insediamento dell’industria pesante che, già dalla prima rivoluzione industriale italiana del 1880, quel che era un paese ha iniziato a configurarsi come quartiere di periferia. Per la presenza dell’industria manufatturiera e un’importante cultura ed etica del lavoro, la Bovisa prende la nomea di zona “rossa” e rappresentate dell’operosità milanese. Durante il boom, la zona industriale della Bovisa crebbe in maniera consistente, affermandosi nel settore della chimica e degli elettrodomestici e diventando luogo di destinazione di consistenti flussi pendolari. Nonostante il cambiamento e la crescita consistente91, il quartiere è riuscito a mantenere un isolamento, favorito dai suoi chiari limiti ferroviari, che in qualche modo ha favorito il preservarsi di una certa atmosfera di paese e delle tradizioni culturali. Determinati aspetti inerenti la Bovisa si ritrovano nel quartieri di Baggio e Barona, dove si ritrova la classica impronta del quartiere operaio e dei modelli di socializzazione comunitaria nella rappresentanza partitica e dei movimenti cattolici. La Comasina, diversamente, è un insediamento di architettura modernista, localizzato nella periferia nord della città e considerato uno dei primi quartieri autosufficienti d’Italia. La sua costruzione, avvenuta ex-novo, iniziata nel 1953 e termina tra il 1958 e il 1960, e si caratterizza per la presenza di sottopassaggi di comunicazione con l’esterno, lunghe balconate che accompagnano l’edificio e la centralità di una chiesa, anch’essa modernista, nel centro del quartiere. L’intendo dei proponenti, nell’agevolare l’autosufficienza del quartiere, la costruzione di chiese, centri sociali e negozi e bar avrebbe dovuto costituire un insieme di elementi che avrebbero permesso la costituzione e lo svilupparsi di una comunità al suo interno92.
Bovisa, Barona, Baggio e Comasina non solo si caratterizza per quattro diversi modi di interagire, nel caso della Comasina di costituire, una diversa comunità, ma anche per diversi modi attraverso la quale, appunto, l’integrazione
91 J. Foot dichiara che nel 1967 la popolazione residente nella zona raggiungeva i 44.000 abitanti circa. 92 J. Foot in Milano dopo il miracolo. Biografia di una città, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 62
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è giunta ad una sua conclusione e che tipo di comunità effettivamente si sia costituita. In quest’ambito, la Comasina si manifesta come il tentativo di costituire una comunità dall’alto, nel quale, in breve tempo, si mostrano in maniera più evidente i limiti e le difficoltà inerenti al risultato. Nonostante la propensione per la costituzione di una comunità, nel quartiere era presente una netta separazione per isolati e per i diversi tipi e gruppi da cui sono stati abitati93. In tale commistione emerse ben presto screzi tra le famiglie considerabili meglio agiate e quelle, invece, di ceto più basso in cui, problematiche apparentemente banali, divennero catalizzatori di più serie divisioni interne e alla presenza di distinzioni all’interno degli stessi immigrati volte a distinguersi dai ceti più poveri94. Una chiara separazione e stigmatizzazione dei diversi abitanti, in considerazione delle diverse zone abitate, sembra affermarsi. Il senso del quartiere comunitario sembra non essersi costituita come nell’intento dei progettisti. La Comasina risulta più un luogo in cui la domanda abitativa di una classe fragile si è mischiata ai nuovi arrivati e ad una parte della popolazione locale che ha colto l’occasione di una nuova residenza. La costruzione ex-novo non ha reso possibile, ovviamente, l’appoggio verso una comunità già presente e, quindi, l’assenza di una dinamica già consolidata determina la difficoltà della creazione di una comunità tra persone e prospettive e punti di contatto apparentemente lontani.
Nei quartieri operai e industriali, le dinamiche integrative risultano più complesse e comprendono il legame tra immigrazione e lavoro. Nella lettura proposta da Foot, emergono due tendenze contrapposte che intendo individuare la leva attraverso la quale l’integrazione attraverso il lavoro è stata possibile. Torna utile una chiarificazione in merito in quanto entrambe le teorie mostrano aspetti interessanti. All’interno di una prima posizione, si sostiene che l’integrazione sia stata resa possibile dal fatto che l’immigrato lavoratore si integra nella vita di fabbrica tramite l’accettazione dei valori culturali della società industriale e, quindi, attraverso la condivisione di un obiettivo comune rappresentato dal lavoro duro per raggiungere progresso e benessere. Una seconda teoria, invece, si focalizza sul raggiungimento di un grado di integrazione attraverso le esperienze comuni della vita quotidiana, della fabbrica e delle condizioni di lavoro. L’integrazione non è avvenuta, secondo questa tesi, principalmente attraverso la condivisione di un progetto comune, ma vi è stata una comunanza di situazioni, come le lotte sindacali e la stessa condizione alienante della classe di lavoratori manuali e dell’allontanarsi della prospettiva di benessere generalizzato nelle condizioni di vita delle periferie urbane95. Il tema dell’alloggio, suggerisce Foot, diviene un aspetto determinante, a mio avviso riconducile ad entrambe le teorie, in quanto, da una parte, divenne la prima preoccupazione del migrante giunto in
93 Foot si riferisce alla concentrazione in diverse aree di sfrattati, senzatetto ed ex baraccati a cui è stato fornito alloggio fa presente come nel 1962, le 220 famiglie e 10.000 persone abitanti, un terzo dei capifamiglia provenisse dal Meridione e come circa l’80% vivesse in città da più di un decennio. 94 Foot identifica la creazione di vere e proprie caste.
95 Foot sottolinea come questi due modelli di integrazione accentuino determinati aspetti e come venga sostanzialmente trascurata l’infrangersi di una aspettativa positiva immaginata dal migrante una volta constata la vita nel settentrione. Per quanto concerne il proseguimento del lavoro, non si intenderà entrare ulteriormente nel merito della distinzione.
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città e, dall’altro, obiettivo e risultato del benessere raggiunto tramite lo sforzo del lavoro. Con la tendenza progressiva espulsione verso l’esterno e la periferia della classe lavoratrice, il lavoratore si trova a dover scegliere tra una scarsa qualità dell’alloggio della periferia storica ma in vicinanza del posto di lavoro o spingersi più lontano con un consegue aumento dei tempi per raggiungere il posto di lavoro. L’assenza di case popolari rimanda questa ricerca attraverso gli annunci disponibili, ma soprattutto attraverso un passaparola all’interno dei rapporti personali sviluppatisi nell’ambito lavorativo o attraverso il sostengo di enti privati o tentativi effettuati tramite una ricerca porta a porta. Questo fenomeno ha determinato anche la naturale conseguenza che determinate strade venissero riconosciute come quelle in cui gli abitanti abitano96. Se negli anni ’50 la disponibilità di alloggi era abbondante, negli anni ’70 la ridotta disponibilità ha portato a proteste ed occupazioni. Finché la speculazione è rimasta sotto controllo, gli immigrati restavano in grado di trovare una sistemazione, se pur di bassa qualità, a costo contenuto e per periodi brevi. Fino ai movimenti degli anni ’70 inerenti all’affitto, le tensioni effettive nel quartiere erano limitate, ma chi abitava, immigrato o non, nella Bosiva poteva condividere un sentimento di mancanza di servizi97. L’integrazione, in accordo con questa tendenza, sarebbe avvenuta quindi anche grazie alla presenza di determinate rivendicazioni comuni ponendo sullo stesso piano popolazioni apparentemente diverse, ma con una domanda comune derivante dalla condivisione di difficoltà e problemi sovrapponibili.
Situazione contrastante, invece, si verifica nei quartieri della “vecchia Milano”, Baggio e Barona. Nel quartiere di Baggio la popolazione risultava relativamente stabile, circa il 60% degli abitanti era originario di Milano o della provincia e un 17% risultava nato nello stesso quartiere, mentre il 41% risultava residente da più di 10 anni98. In un contesto di relativa stabilità era presente un rapporto tra gli abitanti diretto e quotidiano, basati sulla vicinanza, con i primi arrivi migratori consistenti “incomincia anche il caos”99. Ai nuovi arrivati veniva assegnate le case popolari, edificate in epoca più recente, o le ex cascine con giardino interno, nella parte più vecchia del quartiere. La ridistribuzione spaziale della nuova popolazione riprende manifestazioni simili a quanto raccontato per la Comasina e la presenza di chiare distinzioni spaziali100. L’isolamento geografico aveva reso possibile solo un’integrazione sul piano lavorativo e nel sistema di valori della società capitalistica, ma aveva reso difficoltoso dal punto di vista residenziale e comunitario l’integrazione. Le lamentele e le accuse rivolte ai migranti tendevano a mettevano in risalto il fatto che sussisteva un
96 Foot fa specifico riferimento ad una particolare strada nel quartiere Bovisa.
97 Foot fa riferimento ad una pubblicazione comunale del 1962 in cui si affermava la necessità di farmacie, di un mercato coperto, parchi giochi, aule scolastiche e un centro civico.
98 Foot non fa riferimento ad uno specifico anno. Si presume con buona certezza che i dati si riferiscano in periodo appena antecedente il boom migratorio. 99 Foot riconduce l’affermazione ad un’intervista svolta ad un vecchio abitante di Baggio del 1964, riferendosi al 1953 circa.
100 Food sottolinea che tali distinzioni spaziali si riproducevano anche nei bar frequentati principalmente da migranti o da gente locale in cui la mescolanza risultava una rarità.
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diverso carattere e che si riteneva l’immigrato difficilmente adattabile a modi e tradizioni locali101. Barona conferma la tendenza in atto a Baggio, con la differenza che il quartiere si qualifica come un quartiere di composizione demografica meno stabile rispetto a Baggio, solo il 7% della popolazione era nativa del posto e il 35% residente da più di un decennio. Come nel caso di Baggio, la classe operaia residente risultava divisa sia spazialmente che eticamente tra popolazione lombarda e quella migrante. Via Biella viene infatti considerata una sorta di isola etnica. L’integrazione attraverso le associazioni civili e locali risultava complicata anche nel solo tentativo di coinvolgere la popolazione immigrata e, nel caso di successo, quest’ultimi venivano accusati di aderirvi per opportunismo102.
Una riflessione sulle tendenze migratorie e del rapporto con la comunità ospitante evidenzia una lacerazione progressiva delle abitudini della comunità che hanno dato luogo ad un condiviso meccanismo di allentamento e la creazione di confini e gruppi sociali ben definiti che vedono per il migrante, come punti di riferimento, il gruppo etnico e la famiglia. Foot nota anche come l’unità di classe degli anni ’40 e ’50 ha preso la forma di una lotta tra poveri all’interno del medesimo quartiere e di come le comunità proletarie tradizionali ebbero difficoltò nella gestione dei nuovi arrivati in cui il lato oscuro della migrazione ha messo in luce le dinamiche economiche e la dominazione sullo stesso quartiere. Viceversa, il quartiere Comasina, anche se il tipo di alloggio trovava un’opinione positiva, tale positività restava all’interno delle mura domestiche in quanto la mancanza di luoghi d’incontro rendeva la zona “morta, isolata e senza vita”103. La difficolta di incontro e di creare rapporti fiduciari, oltre che la difficoltà di accedere al centro città, determina il quartiere come il classico ghetto, vuoto di giorno, se non per la popolazione non lavorante, e desolante la sera. L’ascesa del consumismo, e in particolar modo la televisione, ha lacerato ulteriormente il modo in cui il tempo libero è stato dirottato da un rafforzamento dei legami sociali verso un passatempo intimo all’interno delle mura casalinghe dove l’esterno tende a perdersi.