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Il conflitto ermeneutico sulla valenza del difetto organizzativo nel sistema 231: il dato normativo e le letture alternative

IL PARADIGMA PUNITIVO DELL’ENTE NEL SISTEMA 231 ALLA LUCE DEL DIBATTITO DOTTRINALE

3. Qualificazione dogmatica del paradigma ascrittivo di cui agli artt 5-6-7 del d.lgs n 231/

3.3. Il conflitto ermeneutico sulla valenza del difetto organizzativo nel sistema 231: il dato normativo e le letture alternative

A prescindere dalla suddetta considerazione meramente classificatoria, per il momento l’attenzione va polarizzata sulla circostanza che una siffatta configurazione sincretistica del paradigma acrittivo in oggetto ha innescato un acceso conflitto ermeneutico anzitutto con riferimento alla valenza sistematica del difetto organizzativo nell’economia complessiva del decreto.

Per entrare con consapevolezza nel merito delle letture alternative che di tale questione si danno, con riferimento al dato normativo occorre muovere dall’assunto secondo cui tale inedita forma di responsabilità colposa viene modulata in maniera radicalmente diversa a seconda del ruolo ricoperto nell’organizzazione complessa dalla persona fisica: mentre a norma dell’art. 6 l’ente può sottrarsi al rimprovero penale se prova, a certe condizioni, di avere adottato prima della commissione del fatto modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, nell’ipotesi di cui all’art. 7 la persona giuridica è chiamata a rispondere del fatto se la pubblica accusa dimostra la sussistenza di un deficit organizzativo ad essa rimproverabile.

Dal dato di diritto positivo si desume quindi che la questione della rilevanza sistematica dei modelli organizzativi insorge non tanto con riferimento alla commissione del fatto da parte di un soggetto sottoposto quanto nell’ipotesi di reato di un soggetto in posizione apicale.

Nell’ipotesi di cui all’art. 7, infatti, è pacifico che la mancata o inefficace attuazione dei modelli organizzativi rilevi come vero e proprio criterio ascrittivo della responsabilità dell’ente; in merito all’art. 6, invece, insorge il quesito se il difetto organizzativo possa configurarsi come criterio ascrittivo e quindi come elemento costitutivo della fattispecie, oppure se si possa derubricarne la valenza qualificando l’adempimento del dovere di organizzazione come mera causa di esclusione della colpevolezza o addirittura come causa di esclusione della punibilità.

Sul punto si osserva che l’estensione del criterio ascrittivo della colpa di organizzazione all’ipotesi della commissione del reato-presupposto da parte di un soggetto in posizione apicale presenta anzitutto un profilo di eccesso di delega.

Atteso infatti che l’inciso della legge delega, di cui all’art. 11, comma 1, lett. e) l. 300, «laddove si segnala l’eventualità che la commissione del reato sia stata resa possibile

82 Così G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 404 (richiamando A.

Haeusermann, Der Verband als Straftäter und Strafprozeßsubjekt, Freiburg i. Br., 2003, p. 17), il quale nel merito puntualizza (ibidem): «Così vengono detti i modelli che collegano sostanzialmente gli elementi della struttura del reato alla condotta di persone individuali, ma in più tengono conto anche di elementi riferibili all’agire collettivo. È possibile che singoli elementi, non riferibili ad alcun individuo determinato, vengano rimpiazzati da elementi collettivi, oppure che un determinato elemento collettivo sia richiesto in aggiunta, per imputare il reato al Verband, o ancora che questi due diversi moduli ascrittivi s’intreccino e si combinino tra di loro».

dalla inosservanza degli obblighi connessi alle funzioni di direzione o vigilanza», dovrebbe essere interpretato con riferimento esclusivo al reato commesso dai soggetti sottoposti, si sarebbe dovuta escludere la possibilità di fare rientrare nell’orbita della colpevolezza di organizzazione anche i soggetti apicali, prevedendo con riferimento a questi ultimi l’operatività solo del criterio organicistico ex art. 583.

Al di là comunque di questa considerazione, ciò che rende problematica l’estensione della colpa organizzativa al vertice aziendale è la peculiare soluzione tecnica adottata dal legislatore, il quale ha previsto all’art. 6 una complessa fattispecie di esonero, sostanziata da un quadruplice requisito condizionante84, che si caratterizza per l’inversione dell’onere probatorio a carico dell’ente85.

Secondo quanto si afferma nella Relazione al decreto, l’inversione dell’onere della prova posto a carico dell’ente trae origine dalla «presunzione (empiricamente fondata) che, nel caso di reato commesso dal vertice, il requisito ―soggettivo‖ di responsabilità dell’ente sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell’ente»86.

In sostanza si muove dal presupposto secondo cui sulla base del criterio organicistico il reato dell’apicale automaticamente viene traslato in capo all’ente con il quale egli si identifica.

83 Al riguardo cfr. G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., pp. 167-169; nonché

la Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., pp. 18-19, in cui il legislatore delegato, consapevole della forzatura operata in questa circostanza, si preoccupa di giustificare l’opzione adottata per «sciogliere eventuali dubbi di conformità alla delega».

84 Ex art. 6, d.lgs. 231/2001, comma 1, si statuisce che l’ente, nell’ipotesi di reato commesso da soggetti in

posizione apicale, non risponde se prova che: «a) l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli [e] di curare il loro aggiornamento è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli organizzativi e di gestione; d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b».

85 Il regime dell’onus probandi di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001 alla luce del tenore letterale della

disposizione configura propriamente un’inversione dell’onere, che, ove si riconosca la natura sostanzialmente penale del paradigma punitivo dell’ente, comporta l’insorgenza di un evidente profilo di illegittimità costituzionale per contrasto con la presunzione di non colpevolezza di cui all’art. 27 comma 1 Cost. Nel dibattito dottrinale tendenzialmente si riconosce che si tratta di una anomalia di sistema (peraltro confermata dal diverso regime previsto con riferimento al reato dei soggetti sottoposti di cui all’art. 7 del decreto) che andrebbe superata in una prospettiva di riforma. Nondimeno va segnalato che in una logica conservativa della razionalità della norma in oggetto viene altresì prospettata una diversa lettura secondo la quale nell’art. 6 il legislatore avrebbe configurato non una vera e propria inversione dell’onere probatorio bensì un mero onere di allegazione. Cfr. in tal senso G. Fidelbo, L’accertamento dell’idoneità del modello

organizzativo in sede giudiziale, in A.M. Stile, V. Mongillo, G. Stile, a cura di, La responsabilità da reato degli enti collettivi: a dieci anni dal d.lgs. n. 231/2001, cit., p. 188, il quale sul punto sottolinea: «le prassi

sviluppatesi in questi anni di applicazione del decreto hanno prodotto un tendenziale ridimensionamento della deroga in materia di prova, quanto meno in relazione alla dimostrazione dell’adozione del modello organizzativo. Infatti, l’onere probatorio si è trasformato in un semplice ―onere di allegazione‖, nel senso che l’ente si limita a sottoporre il compliance alla valutazione del giudice, producendo la necessaria documentazione».

Tuttavia nella realtà può insorgere l’evenienza del cd. amministratore infedele, ossia del soggetto di vertice che agisce fraudolentemente eludendo i controlli della persona giuridica nonostante essa si sia attivata correttamente al fine di prevenire il rischio-reato. Quest’ipotesi si prospetta come verosimile proprio con riferimento alla configurazione operativa delle organizzazioni complesse investite (come altrove si è detto) dalla deverticalizzazione del processo decisionale: da ciò la scelta di introdurre nella fattispecie di esonero in oggetto la controversa clausola dell’elusione fraudolenta nel tentativo di scindere la responsabiltà dell’ente da quella del suo rappresentante infedele87.

Così il legislatore del 2001, pur muovendo dalla consapevolezza che possa apparire «artificioso immaginare l’esistenza di un diaframma»88 funzionale a separare la volontà della societas da quella del suo vertice, opta per l’adozione di una tecnica legislativa certamente anomala rispetto ai principi che reggono il processo penale, prevedendo l’inversione dell’onere probatorio a carico dell’ente-imputato89; tutto ciò nella convinzione di dovere garantire l’autonomia dell’ente rispetto al suo vertice alla luce della situazione societaria attuale, la quale risulta costellata da realtà organizzativamente complesse in cui il management si articola non più secondo un paradigma verticistico bensì su una base orizzontale, con conseguente parcellizzazione dei poteri decisionali dell’ente90.

Sulla base di tali presupposti viene così ideata la c.d. esimente che unanimemente viene riconosciuta ab initio come il nodo più intricato del paradigma punitivo del sitema 231 «quanto a rispetto delle garanzie costituzionali in materia penale (vuoi sul fronte processuale dell’inversione dell’onus probandi, vuoi sul fronte sostanziale della esigibilità da parte dell’ente di un modello precauzionale così onnicomprensivo da esorbitare di fatto le umane capacità organizzative)»91.

87 Sulla valenza della clausola dell’elusione fraudolenta cfr. infra Cap. IV, § 4.4 avente ad oggetto: “Oggettivo” e “soggettivo” nella fattispecie di responsabilità da reato dell’ente. Il ruolo soggettivizzante della clausola dell’elusione fraudolenta.

88 Relazione al Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 20.

89 In merito ai divergenti orientamenti emersi su tale questione in seno alla Commissione incaricata di

elaborare il decreto cfr. A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un

primo sguardo d’assieme, cit., p. 509, il quale rievoca il dibattito intercorso nei seguenti termini: «Su

questo punto si sono sviluppate due distinte posizioni: quella di Pulitanò, che era per un’integrale applicazione della delega, perché sosteneva – non del tutto a torto – che anche in questo caso, se l’amministratore agisce ―in nome e per conto‖, è chiaro che rappresenta la volontà dell’ente; ad essa si contrapponeva quella di chi, come Paliero, Piergallini e il sottoscritto, obiettava che l’integrale applicazione della delega avrebbe comportato un vulnus al principio di colpevolezza e, quindi, una non integrale applicazione del principio costituzionale della personalità della responsabilità penale. Stretti, dunque, tra l’ossequio alla delega e l’integrale applicazione del principio di colpevolezza, è prevalsa una soluzione intermedia; nel senso che di regola il reato commesso dall’apice coinvolge anche l’ente, perché ne rappresenta, come suol dirsi, la volontà, avendo agito ―in nome e per conto‖. Si è, però, al contempo consentito, con un meccanismo di inversione dell’onus probandi, alla società di provare che ha fatto tutto quanto era in suo potere, pur non riuscendovi, per controllare il vertice ―infedele‖».

90 Cfr. Relazione al Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 20.

91 C.E. Paliero, Soggettivo e oggettivo nella colpa dell’ente: verso la creazione di una ―gabella delicti‖?, in Soc., 2015, p. 1288.

Ebbene, in merito alla peculiare configurazione che la categoria della colpa di organizzazione assume nel dettato dell’art. 6 in oggetto si possono distinguere, schematizzando, due contrapposti orientamenti ermeneutici.

Un primo orientamento, ancorato al postulato dell’autosufficienza del criterio dell’immedesimazione organica, tende a marginalizzare la valenza dei compliance programs nell’economia complessiva del sistema; l’altro invece, muovendo dal dato normativo quale precipitato della coesistenza sincretistica dei due modelli ascrittivi individualistico e olistico, tende a sua volta ad esaltare la centralità dei modelli organizzativi nel paradigma punitivo positivizzato.

Con riferimento al primo orientamento va segnalato che la dottrina che se ne fa portavoce attribuisce alla disciplina ex art. 6 solo una rilevanza ―scusante‖92; in questa prospettiva, dunque, la c.d. esimente si dovrebbe interpretare come una mera causa di esclusione della colpevolezza dell’ente.

Con questa disposizione, si rileva altresì, viene introdotto «un primo paradigma di ―colpevolezza di organizzazione‖ costruito negativamente (come ―scusante‖), con inversione dell’onere della prova a carico della societas»93.

Ma vi è pure chi, sempre su tale versante, non solo sostiene che i modelli organizzativi in ragione dell’inversione dell’onere probatorio sono estranei al novero dei presupposti positivi dell’ascrizione di responsabilità per il reato dei soggetti apicali, essendo il criterio organicistico come tale di per sé sufficiente a fondare il rimprovero dell’ente, ma si spinge altresì ad affermare, muovendo dal presupposto che la fattispecie di esonero in oggetto si riflette non sul piano della responsabilità ma su quello della sanzione, che detti modelli sono da relegare in un ruolo ancora più marginale, nel senso che la loro valenza si risolve «non nella sfera delle scusanti soggettive, ma in quella ―residuale‖ della punibilità»94.

92 G. De Vero, Struttura e natura giuridica dell’illecito di ente collettivo dipendente da reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 1135; cfr. anche Id., La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit. p. 180,

laddove l’Autore, dopo avere ribadito la sua interpretazione della fattispecie di esonero come «una vera e propria scusante», in merito alla peculiare opzione recepita dal d.lgs. n. 231/2001 puntualizza: «Stretto dunque tra il risalente riconoscimento della sufficienza dell’―immedesimazione organica‖ a fondare la responsabilità della persona giuridica e i nuovi dubbi emergenti dalla moderna dimensione aziendale e societaria, il legislatore delegato ha costruito la colpevolezza di organizzazione non già come requisito positivo della responsabilità dell’ente, ma al contrario come fondamento di particolari casi di esclusione della responsabilità».

93 Così G. De Simone, Profili sostanziali della responsabilità c.d. amministrativa degli enti: la «parte generale» e la «parte speciale» del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, cit., p. 107, il quale sul punto sottolinea

che tal caso viene in rilievo: «una ―colpevolezza‖ essenzialmente colposa, che ricorda molto da vicino la c.d. misura oggettiva della colpa, la quale, com’è noto, con la colpevolezza in senso proprio ha in realtà ben poco a che vedere». Sul punto cfr. anche F. Giunta, Attività bancaria e responsabilità ex crimine degli

enti collettivi, cit., p. 10, il quale in merito alla valenza complessiva di questa «sorta di scusante» conclude

con l’affermare: «La logica sottesa a questa disciplina è chiara: rimettere di fatto alla società la scelta tra la rinuncia all’autoregolazione, con conseguente esposizione ai rigori del principio di identificazione, e l’adozione di specifiche regole organizzative finalizzate ad evitare gli illeciti dei vertici».

94 Così D. Pulitanò, La responsabilità da reato degli enti: i criteri d’imputazione, cit., p. 430, il quale sul

punto a conferma della sua interpretazione adduce la cosiderazione che l’operatività della fattispecie di esonero «non è totale, non essendo esclusa la confisca»; detto Autore inoltre, con riferimento alle forzature attuate dal legislatore rispetto a quanto previsto dalla legge delega, si premura di precisare uteriormente

A loro volta coloro che si adoperano nella logica della valorizzazione della categoria della colpa di organizzazione si fanno latori della tesi secondo cui la fattispecie di esonero in parola trova la sua giustificazione nella necessità di valorizzare in chiave esimente l’osservanza di adeguate regole di diligenza che la società si auto-impone in funzione della prevenzione del rischio reato95.

Si sostiene nello specifico che la norma in oggetto «apre la strada, sostanzialmente, alla possibilità di individuare un diaframma tra l’ente e le persone che ne incarnano i vertici»96; sulla base di tale assunto si perviene così alla conclusione che il legislatore, consentendo all’ente di provare, sia pure a condizioni piuttosto stringenti, la propria estraneità rispetto all’illecito commesso dal vertice, ha profilato l’impossibilità di muovergli un rimprovero per colpa nell’ipotesi in cui il reato sia stato commesso al di fuori di qualsiasi possibilità di controllo.

In altri termini tramite l’esimente in commento si ha la conferma della sussistenza di una colpevolezza dell’ente distinta da quella della persona fisica autrice del reato.

In questa prospettiva ermeneutica, con riferimento al rapporto che si instaura tra la disciplina di cui all’art. 6 e quella di cui all’art. 7, si deduce che: nel caso di reato commesso dai soggetti apicali la prova dell’adempimento del dovere organizzativo da parte all’ente consente a quest’ultimo di rimuovere la presunzione di colpevolezza mutuata dal coefficiente psicologico sussistente in capo al soggetto di vertice sulla base del presupposto dell’immedesimazione organica, per cui la persona giuridica può dimostrare di non avere agevolato in alcun modo la commissione del reato97; a sua volta, con riferimento al reato commesso dai soggetti subordinati, nella misura in cui si prevede che l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, l’adempimento del dovere di organizzazione funge da elemento costitutivo, sia pure in termini negativi, della fattispecie di responsabilità dell’ente, il cui onere probatorio spetta all’accusa98.

(ibidem): «Soltanto questa lettura, che disancora l’art. 6 dai presupposti della responsabilità-colpevolezza, consente di sostenere la non incompatibilità con la legge delega. L’ipotesi che l’art. 6 disciplina è un’ipotesi di esclusione di sanzioni diverse dalla confisca, ideologicamente ritagliata secondo criteri (opinabili) di opportunità».

95 Così, in sede di prima lettura dell’inedito paradigma punitivo, C.E. Paliero, Il d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231: da ora in poi, societas delinquere et puniri potest, cit., p. 847.

96 C.E. Paliero, C. Piegallini, La colpa di organizzazione, cit., p. 175.

97 Cfr. C.E. Paliero, La società punita: del come, del perché, e del per cosa, cit., p. 1544, in cui l’Autore,

proseguendo ulteriormente, puntualizza (ibidem): «In questa evenienza, la colpa di organizzazione esplica, sul versante ascrittivo della responsabilità, un ruolo eventuale , di secondo grado : viene ritenuta, per legge, estranea al cielo della colpevolezza (dei suoi elementi costitutivi), fino al raggiungimento della prova contraria, che spetta comunque all’ente riversare nel processo».

98 Cfr. C.E. Paliero, ibidem. Cfr. anche C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale, cit., pp.

2050-2051, il quale a sua volta puntualizza: «In questo caso, disciplinato dall’art. 7 del decreto, la responsabilità dell’ente fa capo ad un difetto di vigilanza e di controllo, cioè alla violazione di standard di diligenza ―particolareggiati‖, formalizzati in altrettanti modelli di prevenzione e di controllo funzionali alla minimizzazione di uno specifico rischio-reato. Qui, la colpevolezza (rimproverabilità) dell’ente assume sembianze ben definite: cioè quella di una responsabilità da agevolazione colposa, per non avere impedito un reato commesso da soggetti ―controllati‖».

Sicché, alla luce di una siffatta lettura della rilevanza sistematica della colpa organizzativa il «passaggio dall’art. 6 all’art. 7», in relazione al diverso ruolo ricoperto dal soggetto autore del reato, si potrebbe descrivere «in termini di evoluzione della colpa organizzativa da elemento costitutivo eventuale a elemento costitutivo permanente dell’illecito della persona giuridica»99.

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