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La logica precauzionale nel paradigma punitivo dell’ente: interferenze ex art 25-

LA RESPONSABILITÀ DA REATO DELLE ORGANIZZAZIONI COMPLESSE NELLA LOGICA PRECAUZIONALE

4. La logica precauzionale nel paradigma punitivo dell’ente: interferenze ex art 25-

septies tra sistema 231 e Tusl

Inquadrato nei termini anzidetti il ruolo del rischio e del principio di precauzione nel contesto della transizione dallo Stato di diritto allo Stato di prevenzione, si rende a questo punto necessario focalizzare l’incidenza che la logica precauzionale registra nel paradigma punitivo delle persone giuridiche.

Un siffatto profilo verrà trattato sia in generale che con riferimento allo specifico settore della salute e della sicurezza sul lavoro, considerando le interferenze che si sono determinate tra il Tusl ed il d.lgs. n. 231/2001 in seguito all’introduzione dell’art. 25 septies.

Com’è noto, la necessità della prevenzione del rischio-reato si pone a fondamento dell’imposizione in capo all’ente di un dovere di auto-organizzazione, il quale si concretizza nella predisposizione di una rete capillare di garanti destinati a sovrintendere alle diverse fasi del processo decisionale e produttivo nonché nella predisposizione dei compliance programms, che costituiscono il supporto materiale del dovere organizzativo.

In merito alla configurazione che tali modelli dovrebbero assumere occorre tenere presente che dalla disciplina dettata al riguardo dal legislatore del 2001 negli artt. 6 e 7

110 D. Castronuovo, ivi, p. 167. 111 Cfr. D. Castronuovo, ivi, p. 168. 112 D. Castronuovo, ibidem.

del decreto 231 si possono desumere solo indicazioni generali che si riferiscono rispettivamente: ai requisiti costitutivi di cui lo strumento di prevenzione deve constare (ossia la mappatura delle attività a rischio-reato, la procedimentalizzazione delle decisioni, l’istituzione dell’organismo di vigilanza); all’individuazione del livello di rischio accettabile, rispetto al quale in forza della cd. clausola dell’elusione fraudolenta di cui all’art. 6, co. 1, lett. c) il modello deve possedere una capacità di prevenzione tale da potere essere neutralizzato solo attraverso il ricorso a condotte fraudolenti.

Né si poteva dare altra soluzione, atteso che si muove dal presupposto che spetta al singolo ente il compito di progettare e riempire di contenuti il proprio modello organizzativo attraverso un processo di auto-normazione, tenendo conto della specifica realtà aziendale nonché del vaglio del giudice cui compete il potere di valutarne l’idoneità113.

Secondo quanto si registra nella concreta esperienza operativa114 il modello organizzativo consta: di una Parte Generale nella quale viene individuata la fisionomia istituzionale del modello attraverso la definizione di istituti, funzioni, principi di generale applicazione (la struttura organizzativa aziendale, il sistema delle procure e delle deleghe, il Codice etico, l’attività di informazione e di formazione, le modalità di rilevamento delle violazioni del modello, il sistema disciplinare); nonché di una Parte Speciale, destinata all’analisi e alla regolazione delle attività esposte al rischio-reato, nella quale sono richiamati i singoli protocolli operativi che contemplano le cautele adottate per ridurre il rischio.

Ebbene, per cogliere l’effettiva incidenza della logica precauzionale sul paradigma punitivo dell’ente configurato nel sistema 231 l’attenzione va polarizzata sulla Parte Speciale del modello in questione e sui protocolli operativi, nei quali risultano formalizzati rispettivamente la mappatura delle attività a rischio-reato e i protocolli di gestione del rischio-reato nonché viene definito il contenuto delle cautele.

Con riferimento alla mappatura dei rischi-reato, che costituisce l’adempimento strumentale alla predisposizione del modello «idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi», si rileva che essa, lungi dal risolversi in una mera ricognizione dei fattori di rischio presenti nell’impresa, assurge a perno del sistema prevenzionale nel senso che rappresenta una fase cruciale in sede di elaborazione dei modelli organizzativi115.

113 Cfr. sul punto F. Giunta, Il reato come rischio d’impresa e la colpevolezza dell’ente collettivo, in N.

Abriani, G. Meo, G. Presti, a cura di, ―Società e modello «231»: ma che colpa abbiamo noi?”, in A.G.E., 2, 2009, p. 252, laddove l’Autore afferma che, nell’elaborazione del modello, «è necessario trovare un ottimale bilanciamento tra esigenze di personalizzazione del sistema preventivo e istanze di certezza della sua efficacia esimente; la prima esigenza fa leva sulle peculiarità dell’attività e dell’organizzazione della singola azienda; la seconda trova dei parametri di riferimento – […] puramente orientativi – nelle linee- guida elaborate dalle associazioni di categoria».

114 Cfr. al riguardo le Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ex d.lgs. n. 231/2001, redatte da Confindustria il 7 marzo 2002 e successivamente aggiornate fino alla

versione del 31 luglio 2014.

Si tratta in sostanza della fase della valutazione dei rischi (risk assessment), rispetto alla quale in dottrina si evidenzia la valenza «cognitivo-rappresentativa, funzionale alla percezione del rischio e alla valutazione della sua intensità»116, che come tale si configura strumentalmente connessa alla fase successiva in cui vengono formalizzati i protocolli di gestione del rischio-reato (risk management), finalizzati alla gestione delle situazioni di rischio.

Proprio attraverso i protocolli, il cui obiettivo strategico è quello di predisporre misure idonee a contenere ragionevolmente il rischio-reato, «la decisione dell’ente» si attua «come processo», nel senso che «il protocollo di gestione del rischio reato deve riprodurre la procedimentalizzazione del sistema decisionale, contraddistinta da una frammentazione delle competenze e dalla polverizzazione dei centri decisionali»117.

Tale processo si articola in più fasi in cui ciascuna operazione «deve rispondere al requisito della tracciabilità, sì da risultare individuabile, verificabile, trasparente e non alterabile»118 e si concretizza in un sistema operativo «che coinvolge una pluralità di soggetti e di funzioni»119.

Alla luce di questi dati si evidenzia allora che, collocandosi in una logica precauzionale, la regola che pone in capo all’ente il dovere di auto-organizzarsi si configura come una «norma a struttura ―pianificatoria‖»120, finalizzata cioè alla progettazione delle posizioni individuali di garanzia e delle modalità di gestione del rischio-reato; sicché il dovere di organizzazione non rappresenta una regola cautelare bensì, data la sua natura progettuale, funge da condizione di pre-esistenza delle vere e proprie regole cautelari, con la conseguenza che la sua trasgressione non può essere ascritta a titolo di colpa.

A tale riguardo va altresì precisato che l’operatività della logica precauzionale nel paradigma punitivo dell’ente si evidenzia in particolare con riferimento al contenuto

116 Cfr. C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo” ex d.lgs. 231/2001), cit., p. 2079, laddove l’Autore, proseguendo ulteriormente,

puntualizza: «Così come, nel diritto penale individuale, tanto il dolo quanto la colpa presuppongono che l’agente si rappresenti, o debba comunque rappresentarsi, il pericolo innescato, tramite la combinazione delle conoscenze nomologiche (disponibili) con il contesto situazionale (l’Anlass) idoneo a mettere sull’avviso circa la pericolosità della condotta, allo stesso modo l’ente collettivo è chiamato ad effettuare una ricognizione a tappeto dei fattori di rischio e degli elementi di criticità del suo agire. Solo che nelle

organizzazioni complesse, a causa della frammentazione delle competenze e della polverizzazione dei centri decisionali, il potere decisionale fuoriesce dal dominio del singolo individuo e piega nel senso della

―procedimentalizzazione‖, scandita da una molteplicità di fasi, accomunate dalla circostanza che ciascuna di esse prevede, quasi sempre, il coinvolgimento di più soggetti».

117 C. Piergallini, ivi, p. 2082.

118 C. Piergallini, ibidem. In particolare questa scansione in fasi della procedimentalizzione contempla: «1)

Fase dell’iniziativa: individuazione della funzione proponente – articolazione documentata della proposta – approvazione del superiore gerarchico – 2) Fase del consiglio: parere sulla compatibilità legale,

amministrativa e contabile della proposta, da richiedere alle competenti aree – 3) Fase dell’approvazione: decisione (positiva o negativa) sulla proposta da parte del direttore della funzione o del vertice societario

– 4) Fase dell’esecuzione: esecuzione della decisione – controllo sull’effettività dell’esecuzione –

archivizione formalizzata del procedimento». 119 C. Piergallini, ivi, p. 2083.

delle cautele, la cui mancata predisposizione o eventuale trasgressione costituisce il fondamento della tipicità oggettiva della colpa di organizzazione.

In generale, sotto il profilo tipologico e teleologico si distinguono tre categorie di cautele: procedimentali, sostanziali e di controllo. Nello specifico la dimensione precauzionale emerge in relazione alle cautele procedimentali le quali, nel disciplinare la scansione del procedimento decisionale dell’ente, si ispirano al principio di segregazione delle funzioni, inteso a garantire una distribuzione democratica dei poteri decisionali tra i vari soggetti designati a intervenire nelle diverse attività esposte a rischio-reato.

La funzione delle cautele procedimentali è duplice: da un canto assolvono una finalità cautelativa nel senso che sono immediatamente finalizzate ad evitare la concentrazione dei processi decisionali, ricoprendo quindi un ruolo prodromico rispetto al rischio di commissione di tutti i possibili reati-presupposto cui si ricollega la responsabilità dell’ente; dall’altro esprimono una valenza mediatamente cautelare, nel senso che in modo sinergico si affiancano alle regole sostanziali operando come strumenti volti a garantirne il buon funzionamento121.

Si delinea così «un primo livello generale di precauzione»122 strutturalmente intrinseco al modello di organizzazione e gestione inteso nel suo complesso; detto livello si evidenzia attraverso la presenza di numerose regole cautelative, calibrate su fattori di rischio prodromici al richio-reato finale, che convivono fisiologicamente con regole di natura autenticamente cautelare, ossia orientate all’impedimento dello specifico evento.

A sua volta, con riferimento al rischio-reato che l’ente è chiamato a prevenire bisogna muovere dal presupposto che il rischio, in quanto immanente al singolo modello di tutela e sistema normativo di gestione, in una prospettiva incriminatrice si configura come una «nozione di contesto»123, i cui contenuti si specificano dunque diversamente a seconda del settore considerato.

121 Cfr. C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001), cit., p. 2084. Proseguendo nella descrizione delle altre due tipologie di

cautele l’Autore spiega poi che: le cautele di tipo sostanziale attengono alla definizione del contenuto della specifica decisione a rischio-reato che viene in rilievo e assolvono una funzione propriamente cautelare, caratterizzandosi per una chiara correlazione funzionale con il particolare tipo di rischio di reato- presupposto da prevenire; a loro volta le cautele di controllo sono finalizzate a garantire l’adeguatezza e l’effettività delle cautele di tipo sostanziale tramite la predisposizione di meccanismi di supervisione, che possono essere sia interni allo specifico processo decisionale esposto a rischio-reato sia esterni ad esso, coinvolgendo organismi estranei al processo in questione.

122 Cfr. M.N. Masullo, Colpa penale e precauzione nel segno della complessità, cit., pp. 288-289, la quale

sul punto richiama come esempio di regole cautelative o precauzionali: la regola della segregazione delle funzioni finalizzata ad evitare la concentrazione dei poteri decisionali, in quanto fattore di rischio per la commissione di quasi tutti i reati-presupposto; nonché la regola della trasparente gestione finanziaria, in quanto «cautela generalissima e di principio indirizzata al contenimento di una indistinta gamma di delitti».

123 Cfr. sul punto C. Perini, Dal diritto penale dell’evento al diritto penale del rischio: problemi e prospettive, Relazione tenuta all’Incontro di studi organizzato dal CSM sul tema «Il diritto penale del

rischio», Roma, 2-4 maggio 2011, p. 15, laddove l’Autrice, proseguendo ulteriormente, chiarisce che in tale prospettiva il rischio costituisce «il risultato del combinarsi delle specificazioni operate a tre livelli: (i) in relazione ai beni giuridici esposti al rischio e dunque potenzialmente coinvolti dalle conseguenze dannose associate all’avveramento del medesimo; (ii) in relazione alla fonte del rischio, ossia al sostrato materiale che incarna il potenziale d’offesa; (iii) in relazione al vettore del rischio, cioè all’accadimento –

Sotto questo profilo un ulteriore livello di emersione della logica precauzionale nel paradigma punitivo dell’ente su cui si deve riflettere è quello derivante dall’introduzione nel d.lgs. 231/2001 dell’art. 25 septies, che, seppure limitatamente alle fattispecie colpose d’evento di cui agli artt. 589 e 590 c.p., segna l’ingresso nel sistema 231 dei reati «che si situano nel cono d’ombra del rischio d’impresa: dunque, i reati colposi, segnatamente quelli in materia di sicurezza e salute sul lavoro»124.

A seguito di questa svolta, infatti, al primo livello generale di precauzione, di cui si è detto, se ne affianca un secondo, correlato alla necessità di inglobare all’interno del modello le regole preventive contenute nel Tusl e saldarle con le cautele procedimentali e di controllo in modo da garantirne l’osservanza125.

Il riferimento va in particolare all’interazione che si viene a determinare tra la disciplina dei modelli organizzativi in commento e il sistema di valutazione e gestione dei rischi contemplato dal Tusl126.

Come è noto, l’intervento riformatore del legislatore del 2008, con cui si procede al riordino dell’ipertrofica disciplina extra codicem in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si pone nel solco del d.lgs. n. 626 del 1994, che in attuazione delle politiche comunitarie ispirate alla sicurezza segna in questo settore del nostro ordinamento il passaggio dalla logica della tutela dai pericoli a quella della prevezione dei rischi.

Questa eredità viene assunta non solo sotto il profilo dei contenuti normativi, di cui si ricalcano le orme, ma altresì sotto il profilo dell’innovativa tecnica redazionale, di cui si era fatto latore il legislatore del 1994, la quale trova la sua cifra distintiva nella norma giuridica configurata «come disposizione a ―trama aperta‖»127, destinata dunque a modellarsi in base alla realtà sottostante.

Di tale tecnica di legiferazione reca ampia testimonianza per l’appunto l’apparato normativo del Tusl, contraddistinto dalla massiccia presenza di una struttura disciplinare sostanziata da regole procedurali funzionali all’attuazione del processo partecipato di valutazione e gestione del rischio.

anch’esso specifico in ciascun settore di tutela – che innesca il potenziale d’offesa e, al tempo stesso, ne propaga le conseguenze dannose».

124 C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001), cit., p. 2088.

125 Cfr. M.N. Masullo, Colpa penale e precauzione nel segno della complessità, cit., p. 289.

126 Cfr. infra Cap. IV, § 5. Si tratta di un profilo centrale nell’economia della presente dissertazione che

sarà in seguito ulteriormente approfondito; al riguardo si ritiene opportuno adesso anticipare nel testo alcune considerazioni attinenti alla rilevanza della logica precauzionale di cui si discute.

127 V. Torre, La valutazione del rischio e il ruolo delle fonti private, in D. Castronuovo, F. Curi, S. Tordini

Cagli, V. Torre, V. Valentini, Diritto penale della sicurezza sul lavoro, Bup., 2016, p. 37. Sul punto l’Autrice, cogliendo una sostanziale affinità tra questo nuovo modello regolativo e l’«idea del diritto

riflessivo» di G. Teubner (Il diritto come sistema autopoietico, Giuffrè, Milano, 1996), precisa

ulteriormente: «La norma giuridica, infatti, non incide sui comportamenti dei singoli, vietando o imponendo di tenere determinate condotte, ma agisce attraverso una forma di controllo indiretto, volto a creare un sistema sociale autonomo, per cui la norma opera per costituire e per formalizzare meccanismi di autodisciplina, di negoziazione, di decentralizzazione e di mediazione dei conflitti, congeniali ad una migliore valutazione del rischio inerente all’attività lavorativa svolta».

Per tal via sono posti in capo al datore di lavoro e alla filiera dei garanti della sicurezza «obblighi che raramente definiscono il contenuto di un dovere preventivo-cautelare» e che invece risultano prevalentemente «animati da una finalità di tipo precauzionale che informa tutta la procedura di valutazione e gestione del rischio», per cui «alla scarna definizione dell’obbligo di sicurezza», che viene formalizzato sotto la veste di una norma-principio funzionale ad uno scopo da perseguire, «corrisponde una dettagliata descrizione della procedura»128.

Più precisamente nel tessuto normativo del Tusl la logica precauzionale si esplicita sotto un duplice profilo: l’uno strettamente giuridico attraverso l’emersione di discipline cautelativo-precauzionali, che sono chiamate a gestire situazioni di rischio in assenza di certezze scientifiche, in contrapposizione pertanto alle discipline preventivo-cautelari che, destinate a fronteggiare i pericoli, si fondano su un sapere scientifico corroborato129; l’altro d’impronta schiettamente politica attraverso la democratizzazione delle decisioni aventi ad oggetto il processo di valutazione e gestione del rischio lavorativo, il cui obbligo, posto in capo al datore di lavoro, viene attuato attraverso l’attiva compartecipazione di tutti i soggetti interessati130.

Al riguardo si ricorda che la valutazione del rischio, che costituisce la principale misura di tutela, prevista all’art. 15, lett. a) e disciplinata agli artt. 28 (oggetto della valutazione dei rischi) e 29 (modalità di effettuazione della valutazione dei rischi), si concretizza nel cd. «documento di sicurezza» (cioè in una normativa cautelare di fonte privata), il quale «racchiude le specifiche regole cautelari e cautelative, indicative di una pretesa comportamentale conforme al dovere di diligenza»131.

Sotto il profilo penalistico ciò che importa sottolineare è che la disciplina di valutazione del rischio «non individua regole cautelari, ma definisce un apparato normativo cautelativo, di tipo procedurale, che non può, però, assumere rilievo nella ricostruzione dei nessi di imputazione della responsabilità penale per l’evento, in quanto è funzionale solo alla definizione delle regole cautelari e cautelative aziendali»132.

Sicché, nell’ipotesi in cui vi sia colpa nella fase di gestione in concreto del rischio, l’imputazione di un evento a titolo di colpa specifica deve essere fondata sulla violazione di una specifica misura di prevenzione, emersa attraverso la valutazione del rischio e cristallizzata nel documento di sicurezza133; correlativamente, nell’ipotesi in cui la colpa

128 Cfr. V. Torre, ivi, p. 38. 129 Cfr. V. Torre, ivi, p. 39.

130 Cfr. V. Torre, ibidem. Sul processo di democratizzazione delle regole cautelari come «metodo idoneo a

rompere il cerchio della solitudine che sovente accompagna tanto l’agente colposo, quanto il giudice penale che deve accertarne la responsabilità» cfr. F. Giunta, voce Principio di precauzione, in Id.,

Dizionario di diritto penale, Il Sole 24Ore, Milano, 2008, pp. 913-914; Id., Il diritto penale e le suggestioni del principio di precauzione, cit., pp. 241-243; nonché G. Forti, “Accesso” alle informazioni sul rischio e responsabilità: una lettura del principio di precauzione, in Criminalia, 2006, pp. 192-204. 131 Cfr. V. Torre, ivi, p. 43. L’Autrice sul punto richiama l’opinione di D. Pulitanò (Gestione del rischio da esposizione professionale, cit., p. 778), secondo cui il documento di sicurezza costituisce l’elemento

innovativo del nuovo modello della sicurezza del lavoro.

132 Cfr. V. Torre, ivi, p. 42. 133 Cfr. V. Torre, ibidem.

insorga con riferimento alla fase progettuale, ossia relativamente alla valutazione del rischio e alla redazione del documento di sicurezza, la generica omissione della valutazione del rischio può assumere rilievo solo se accompagnata dall’individuazione puntuale delle misure di prevenzione omesse, perché a ritenere diversamente si perverrebbe surrettiziamente all’affermazione di una forma di culpa in re ipsa134.

Da quanto detto si deduce che le decisioni, che si assumono in sede di valutazione del rischio e vengono formalizzate nel documento di sicurezza in veste di regole cautelari e cautelative, assurgono a criterio di imputazione della responsabilità penale, la quale per tal via viene incardinata laddove di fatto viene esercitato un potere135.

In questa prospettiva l’apparato normativo di tipo procedurale del Tusl, espressione di questa nuova tecnica di legiferazione che fa leva sull’anticipazione della tutela, ci reca testimonianza di quel «cambiamento dei requisiti di imputazione della responsabilità penale, non più legata all’azione, ma definita in base alle decisioni assunte»136, per cui nell’organizzazione complessa in una logica di superamento della distinzione tra agire ed omettere «si è di regola imputati, non per l’azione, ma per la decisione, presa o tralasciata»137.

Detto ciò, a conclusione delle suddette considerazioni in merito all’incidenza della logica precauzionale sul paradigma punitivo dell’ente del sistema 231 e sulla disciplina del Tusl, va preso atto del fatto che, a dispetto di quanto si è appena detto circa la valenza delle regole cautelari e cautelative di cui si sostanzia il documento di sicurezza, nell’ambito specifico dell’infortunistica lavorativa e delle malattie professionali sono diffuse letture oggettivizzanti della colpa con riferimento alla responsabilità sia della persona fisica sia dell’ente, le quali certamente trovano alimento nel principio di precauzione.

134 Cfr. V. Torre, ibidem. Cfr. in tal senso anche D. Micheletti, I reati propri esclusivi del datore di lavoro,

in F. Giunta, D. Micheletti, Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, Milano, 2010, p. 218, il quale sintetizza la querelle nei seguenti termini: «va comunque precisato che l’obbligo della vautazione dei rischi è primario ma pur sempre strumentale e indiretto rispetto all’obiettivo prevenzionistico. Ciò dipende dal fatto che esso risponde all’esigenza di individuare e approntare le misure cautelari volte a prevenire l’evento infausto, ma non costituisce di per sé una regola cautelare volta a

prevenire infortuni». 135 Cfr. V. Torre, ivi, p. 43.

136 Così V. Torre, ibidem, nt. n. 26, la quale sul punto richiama C.E. Paliero, La fabbrica del “Golem”.

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