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Il problema della compatibilità tra i criteri di imputazione oggettiva all’ente e i reati colpos

LA TENSIONE EVOLUTIVA DEL PARADIGMA PUNITIVO DELL’ENTE ALLA LUCE DELLA RESPONSABILITÀ COLLETTIVA DA DELITTO COLPOSO D’EVENTO

2. Il contributo della scienza giuridica

2.2. Il problema della compatibilità tra i criteri di imputazione oggettiva all’ente e i reati colpos

Procedendo adesso ad una sintetica rassegna degli orientamenti dottrinali maturati con riferimento alla problematica compatibilità dei criteri dell’interesse e del vantaggio con il paradigma dell’illecito colposo e, in particolare, con il modello di delitto colposo di evento, occorre segnalare la presenza di un articolato ventaglio di posizioni che solo con un’evidente forzatura appaiono riconducibili schematicamente a tre modelli interpretativi: la tesi dell’«ontologica inapplicabilità»; la tesi «orientata sull’evento»; la tesi «orientata sulla condotta»35.

In realtà il confronto di idee in argomento è quanto mai sfumato e ricco di spunti inerenti alle singole posizioni che come tali non sembrano suscettibili di essere ingabbiate in rigidi schemi classificatori.

Infatti, il pendolo ermeneutico oscilla tra due tesi specularmente contrapposte, che fanno capo rispettivamente: da un canto a chi sostiene l’impossibilità ontologica di applicare il criterio dell’interesse alle fattispecie colpose, facendosi latore di un’interpretatio abrogans dell’art. 5 in relazione a questi reato-presupposto36; dall’altro a chi viceversa tematizza la loro sostanziale compatibilità, negando l’esistenza del problema37.

34 Cfr. G. Amarelli, ivi, p. 9.

35 Cfr. sul punto C.E. Paliero, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, cit., pp. 19-20.

36 Cfr. in tal senso C. Mancini, L’introduzione dell’art. 25-septies. Criticità e prospettive, in Resp. amm. soc. ed enti, 2008, p. 53 ss.

37 Cfr. in tal senso E.T. Epidendio, G. Piffer, La responsabilità degli enti per i reati colposi, in Av.Vv., D.lgs. 231: dieci anni di esperienze nella legislazione e nella prassi, cit., p. 42, i quali al riguardo fanno

rilevare che successivamente all’introduzione dell’art. 25 septies, «a fronte degli appelli, formulati da una parte della dottrina, di modificare i criteri generali di imputazione del reato all’ente previsti dall’art. 5, D.Lgs.n. 231/2001, per renderli compatibili con la responsabilità dell’ente per i reati colposi, il legislatore non solo non ha modificato tali criteri, ma ha ribadito la compatibilità dei reati colposi, sia, implicitamente, in occasione della modifica dell’art. 25 septies ad opera dell’ art. 30 t.u.s.l., sia, esplicitamente, estendendo, con l’introduzione dell’art. 25 undecies, la responsabilità degli enti ai reati ambientali, i quali […] presentano anche fattispecie punite a titolo di colpa».

Nel merito detti Autori (Criteri d’imputazione del reato all’ente: nuove prospettive interpretative, in Resp.

amm. soc. ed enti, 2008, n. 3, pp. 18-19) si fanno latori della tesi secondo cui dalla lettura dell’intera

disposizione di cui all’art. 5 è desumibile «un criterio negativo di accertamento dell’interesse dell’ente», nel senso che l’interesse dell’ente sussiste «quando la persona fisica non ha commesso il reato a titolo personale»; in particolare, con riferimento ai reati colposi «caratterizzati dalla violazione di una norma cautelare e riconducibili ad attività svolte in veste qualificata all’interno dell’ente, l’agente non viola la norma cautelare a titolo personale, ma nella sua veste qualificata: in questi casi risulta configurabile l’interesse dell’ente […] e il reato intero, non la sua condotta, può ritenersi commesso nell’interesse dell’ente». Ad una siffatta tesi però G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p.

A sua volta tra questi due poli estremi si dispiega una variegata gamma di posizioni protese ad affermare interpretazioni adeguatrici che appaiono difficilmente riconducibili ad una prospettiva di sintesi38.

Ora, nella lettura delle diverse posizioni che costellano il panorama dottrinale sul tema, bisogna muovere dal fatto che, nella misura in cui il criterio ascrittivo in esame deve essere rapportato al reato-presupposto nella sua interezza, la conclusione in merito alla configurabilità della responsabilità dell’ente sul versante dei reati colposi muta a seconda che la fattispecie di reato-presupposto di volta in volta rilevante sia di mera condotta o di evento: in presenza di un reato-presupposto di mera condotta (quali sono le fattispecie di cui all’art. 25 undecies) la responsabilità amministrativa da reato dell’ente è configurabile in quanto è ben possibile che la condotta, di cui si sostanzia ed in cui si esaurisce il profilo oggettivo di questi reati, sia posta in essere nell’interesse o a vantaggio dell’ente; viceversa, in relazione ai reati-presupposto strutturati come fattispecie di evento (quali sono quelli di cui all’art. 25 septies) si dovrebbe concludere per l’esclusione della responsabilità dell’ente, non essendo concepibile che l’evento lesivo – che insieme alla condotta concorre a costituire il livello oggettivo di questi reati – si sia prodotto nell’interesse o a vantaggio dell’ente.

Relativamente alle interpretazioni orientate sull’evento si riscontra allora che esse, nella misura in cui assumono come valore di riferimento per il criterio ascrittivo dell’interesse o del vantaggio il risultato finale del reato-presupposto, finiscono per «neutralizzare la funzionalità del modello in relazione ai reati colposi d’evento»: rispetto alle fattispecie contemplate dall’art. 25 septies, quali l’omicidio o le lesioni in materia di sicurezza sul lavoro, si evidenzia infatti l’«incompatibilità logica […] con la finalizzazione dell’evento stesso al profitto dell’ente»39.

Non sorprende quindi che tutti coloro che fanno propria questa logica, costretti a prendere atto dell’insufficienza delle diverse ipotesi ermeneutiche adeguatrici, entrano in rotta di collisione con i sostenitori della tesi orientata sulla condotta e finiscono con l’invocare, sia pure con modulazioni diverse, l’intervento risolutore del legislatore40.

388, obietta che per tal via si finisce «col fare ricorso a un altro criterio d’imputazione, che non ha più nulla a che vedere con il criterio oggettivo normativamente tipizzato».

38 Per una rassegna puntuale delle diverse interpretazioni adeguatrici cfr. A. Gargani, Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?, in Studi in onore di Mario Romano, vol. III, cit., p. 1939 ss.

39 C.E. Paliero, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, cit., pp. 19-20.

40 Ex multis, cfr. in tal senso S. Dovere, Osservazioni in tema di attribuzione all’ente collettivo dei reati previsti dall’art. 25 septies del d.lgs. n. 231/2001, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 1-2, p. 334, il quale in

polemica con la tesi orientata sulla condotta sottolinea che per tal via l’evento lesivo finisce per essere degradato «a sorta di condizione di punibilità», sicché in tal caso «si tratterebe di un’interpretazione analogica (in malam partem) e non di un’interpretazione estensiva»; T. Vitarelli, Infortuni sul lavoro e

responsabilità degli enti: un difficile equilibrio normativo, cit., p. 707, la quale denuncia il fatto che «dalla

interpretazione dell’interesse in senso oggettivo emerge un’insanabile frizione coi principi di legalità e di colpevoleza», considerato che l’ente, sulla base della violazione di una norma cautelare che ha dato origine all’evento lesivo, viene punito per la condotta antidoverosa, «a dispetto del diverso contenuto dell’art. 25-

septies, che contempla delitti colposi di evento»; P. Aldrovandi, La responsabilità amministrativa degli enti per i reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro alla luce del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81,

A sua volta vi è pure chi propone di rapportare il criterio ascrittivo dell’interesse o vantaggio all’attività d’impresa, nel cui ambito l’azione colposa si realizza, piuttosto che alla condotta in quanto tale, nel senso che detto criterio postulerebbe «semplicemente che il fatto, anche colposo, sia stato commesso dal soggetto qualificato nell’espletamento delle attività istituzionali , proprie dell’ente di appartenenza»41, senza la necessità di indagare né la sussistenza di particolari finalità in capo all’agente individuale, né il conseguimento da parte dell’ente di concreti vantaggi a seguito dell’evento.

Altra dottrina ritiene, poi, che la questione della compatibilità sia da porre sul piano logico-sistematico per cui si teorizza che, invece di piegare il criterio ascrittivo oggettivo di cui all’art. 5 alla peculiare configurazione della fattispecie colposa di evento di cui all’art. 25 septies, semmai quest’ultima disposizione dovrebbe essere armonizzata con la disciplina di parte generale.

In tale prospettiva si attribuisce rilievo centrale all’accertamento del nesso causale tra la colpa di organizzazione dell’ente e l’evento lesivo realizzatosi, distinguendo due ipotesi a seconda degli esiti di una siffatta verifica: se a monte dell’evento si pone un’inefficienza emersa in un determinato settore aziendale, ci si troverà in presenza della mera violazione di regole cautelari di dettaglio (correlata ad esempio all’attuazione delle direttive dei vertici) che non sarà sufficiente a fondare in capo all’ente il coefficiente di colpa organizzativa; viceversa se il delitto risulta conseguenza di una deficienza organizzativa di tipo sistemico potrà affermarsi la sussistenza di una vera e propria colpa di organizzazione, con la precisazione che in quest’eventualità l’affermazione della responsabilità dell’ente dovrà comunque essere ulteriormente subordinata sul piano della colpevolezza all’accertamento della rimproverabilità del difetto organizzativo42.

in Ind. pen., 2009, p. 503, il quale afferma: «Posto che l’art. 5 richiede che ad essere commesso nell’interesse dell’ente o a vantaggio dello stesso sia proprio il reato, e non la mera condotta trasgressiva […] degli obblighi cautelari, attribuendo rilevanza solo a quest’ultima si rischia di sconfinare dalla mera interpretazione estensiva […] a quella analogica»; G. Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato

all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro, cit., pp. 15-16, il quale è dell’opinione che

la lettura in combinato disposto dell’art. 5 con l’art. 25 septies «dovrebbe condurre ad agganciare la valutazione dell’interesse o vantaggio dell’ente alla commissione del reato, piuttosto che alla condotta negligente, imprudente o imperita dalla cui violazione questo è derivato, direttamente ad uno dei reati di evento di cui agli artt. 589 e 590 c.p. richiamati da detto articolo», e ciò nella convinzione che «questa interpretazione mediata dell’art 5, d.lgs. n. 231/2001 sembra profilarsi come difficilmente compatibile con la nostra Carta fondamentale»; G. De Simone, Persone giuridiche e responssabilità da reato, cit., p. 389, il quale, dopo avere preso atto del fatto che tutte le interpretazioni adeguatrici prospettate non sono in grado di «risolvere convenientemente il problema per via ermeneutica», afferma che «L’unica cosa che resta da fare è auspicare un intervento risolutivo del legislatore, che provveda ad una riformulazione del criterio oggettivo d’imputazione, tenendo conto della natura della colpa e delle peculiarità delle fattispecie colpose, in modo tale da diversificarlo rispetto a quello previsto per i reati dolosi».

41 G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 280. Rispetto a tale ipotesi

ermeneutica cfr. G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 387, il quale rileva che in tal caso il rapporto con l’interesse dell’ente sarebbe «soltanto mediato, nel senso che l’illecito (colposo) è commesso in occasione dello svolgimento di un’attività in contesto lecito, a sua volta finalizzata a perseguire quell’interesse. Il problema è che sarebbe un criterio d’imputazione diverso da quello previsto dall’art. 5, che non è possibile introdurre per via interpretativa senza correre il rischio di scivolare sul versante scosceso dell’analogia in malam partem».

42 A. Gargani, Delitti colposi commessi con violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro: responsabile “per definizione” la persona giuridica?, cit., pp. 1956-1958. In merito a questa interpretazione adeguatrice

Con riferimento infine alla tesi ermeneutica orientata sulla condotta occorre precisare che si tratta in effetti di una posizione che nel dibattito dottrinale è ancora ben lontana dal potere prevalere; nondimeno essa è stata fatta propria dalla giurisprudenza, la quale, lungi dal farsi condizionare dalle ―ragioni forti‖ agitate dalla dottrina, da subito si è impegnata pragmaticamente in uno sforzo di adattamento del dispositivo dell’art. 5 alla diversità strutturale dei reati colposi43.

Secondo questa tesi valutare il possibile interesse o vantaggio dell’ente in relazione alla condotta colposa significa accertare in concreto tale elemento costitutivo della responsabilità dell’ente con esclusivo riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività di impresa e alle relative strategie economico-produttive, indipendentemente quindi da ogni connessione con l’evento tipico.

In particolare, coloro che in dottrina se ne fanno sostenitori affermano che, per potere estendere la responsabilità dell’ente anche ai reati colposi di evento, è necessario procedere ad una scomposizione del reato, per cui l’operatività del criterio ascrittivo dell’interesse/vantaggio non deve essere riferita all’intera fattispecie comprensiva dell’accadimento di danno ma va più opportunamente anticipata al limitato segmento della condotta44.

cfr. G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., pp. 388-389, il quale sul punto rileva: «Il fatto, però, è che, ragionando in questo modo, a un criterio d’imputazione, ancora una volta, se ne sostituisce un altro, la cui verifica, nel contesto di una valutazione progressiva e gradualistica qual è quella che la stessa legge richiede, dovrebbe invece presupporre che già sia stata accertata la sussistenza del primo (e cioè della commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente) che qui, invece, è ridotto al rango di mera quantité négligeable, che non richiederebbe alcuna verifica autonoma pregiudiziale».

43 Cfr. sul punto infra nel presente Cap. § 3.

44 Cfr. in tal senso D. Pulitanò, La responsabilità da reato degli enti: i criteri d’imputazione, cit., p. 426, il

quale, già in sede di prima lettura del decreto, preconizzava: «Ove mai la responsabilità dell’ente venisse estesa a reati colposi, il criterio dell’interesse o vantaggio dovrebbe (o potrebbe) essere ragionevolmente interpretato come riferito non già agli eventi illeciti non voluti, bensì alla condotta che la persona fisica abbia tenuto nello svolgimento della sua attività per l’ente»; Id., Responsabilità degli enti e reati colposi, in A.M. Stile, V. Mongillo, G. Stile, La responsabilità da reato degli enti collettivi: a dieci anni dal d.lgs.

n. 231/2001, cit., p. 248, laddove l’Autore riepiloga la valenza della tesi in oggetto nei seguenti termini:

«Insomma: in quanto collegati al commesso reato, l’interesse o il vantaggio vanno riferiti alla condotta

inosservante del dovere di sicurezza, quella che in concreto è stata causale e colposa rispetto all’evento

lesivo»; G. Marra, Prevenzione mediante organizzazione e responsabilità da reato delle società. Principi

generali (d.lgs. n. 231/2001), regole speciali (d.lgs. n. 81/2008) e riflessi sistematici, in Id., Prevenzione mediante organizzazione e diritto penale, Giappichelli, Torino, 2009, p. 196, laddove l’Autore afferma che

«Utilizzando una chiave di lettura funzionalistica può dirsi che l’interesse concerne ―la finalizzazione soggettiva della condotta da valutarsi in una prospettiva ex ante; il vantaggio, per contro, assume connotati più […] oggettivi‖ la cui presenza non può che essere verificata ex post»; nonché P. Veneziani, La

responsabilità dell’ente da omicidio colposo, in F. Curi, a cura di, Nuovo statuto penale del lavoro, B.u.p.

Bologna, 2011, p. 17, il quale puntualizza che «L’unica soluzione plausibile è forse quella di rapportare il requisito dell’interesse non all’intero fatto tipico dell’omicidio colposo, ma solo alla condotta colposa. In altri termini: solo la condotta inosservante delle regole cautelari è suscettibile di essere realizzata nell’interesse dell’ente (in un’ottica ex ante), e non l’evento, la morte causata da quella condotta (che rappresenta un indubbio svantaggio per l’ente)».

Sul punto cfr. altresì D. Castronuovo, La responsabilità degli enti collettivi per omicidio e lesioni alla luce

del d.lgs. n. 81/2008, in F. Basenghi, L.E. Golzio, A. Zini, La prevenzione dei rischi e la tutela della salute in azienda. Il Testo Unico e il decreto correttivo 106/2009, Ipsoa, Milano, 2009, p. 326, il quale,

prendendo atto del fatto che il legislatore non si è preoccupato di ridefinire i criteri ascrittivi oggettivi di cui all’art. 5 ma concordando sostanzialmente in una prospettiva de lege ferenda con la tesi orientata sulla

Questo orientamento ermeneutico in effetti solleva dubbi di compatibilità con le esigenze di legalità45, atteso che i requisiti dell’interesse e vantaggio vengono rapportati non al reato nella sua interezza, secondo quanto testualmente sembra prevedere l’art. 5, bensì ad un suo elemento, ossia alla violazione della regola cautelare da cui discende l’evento lesivo; al contempo, però, si presenta come l’unica opzione interpretativa in grado di salvaguardare l’operatività del sistema 231 con riferimento alle fattispecie di natura colposa di cui all’art. 25 septies.

Sul punto bisogna muovere dal dato di fatto, già riscontrato, secondo cui, pur rispondendo al vero che il paradigma punitivo configurato nel sistema 231 sembra essere stato modellato sui reati dolosi e che il disposto normativo dell’art. 5 sembra vanificare qualsiasi ipotesi ermeneutica adeguatrice in relazione ai delitti colposi di evento, il legislatore non solo non si è preoccupato di diversificare i criteri ascrittivi con riferimento ai reati colposi al momento dell’introduzione dell’art. 25 septies; ma anche successivamente, a dispetto dei reiterati appelli provenienti dalla dottrina, non ha avvertito alcuna necessità di un intervento correttivo risolutore in occasione dell’introduzione dell’art. 25 undecies in materia di reati ambientali, testimoniando per tal via di non essere incorso in precedenza in un’eventuale svista46.

In questa prospettiva la controversa questione della presunta incompatibilità tra i criteri oggettivi di imputazione ex art. 5 e i delitti colposi di evento si potrebbe in effetti sdrammatizzare rivisitandola, come si suggerisce in dottrina, alla luce della constatazione che il sintagma «reati commessi nell’interesse o vantaggio», utilizzato dal legislatore del 2001, «sia, quanto al primo termine relazionale, da considerare ―a tipicità aperta‖, ben potendo, come è evidente, il ―reato‖ essere declinato in delitto o in contravvenzione, in reato di mera condotta o di evento, in doloso o colposo»; rispetto al termine «reati» si tratta in sostanza di prendere atto della «scelta legislativa ―elastica‖ di non graduarli sul

condotta, afferma: «Sarebbe invece stata opportuna una revisione con funzione di adattamento di tali criteri alle specificità dei delitti colposi ora inseriti nel catalogo dei reati-presupposto, riferendo l’interesse o vantaggio non al reato in quanto tale e nella sua interezza (al completo del risultato dannoso) ma esclusivamente alla condotta inosservante, quale segmento della complessiva fattispecie»; al riguardo detto Autore altrove (La colpa penale, cit., pp. 429-430) più analiticamente precisa: «È evidente che, in relazione ai delitti colposi di omicidio e lesioni, i criteri di imputazione dell’interesse o del vantaggio non possano riferirsi direttamente alle fattispecie di reato con evento naturalistico, ma soltanto alle sottostanti

inosservanze – che costituiscono il nucleo normativo della condotta colposa della persona fisica

appartenente all’ente – alle quali il risultato dannoso è eziologicamente e soggettivamente riconducibile».

45 Cfr. G. Amarelli, I criteri oggettivi di ascrizione del reato all’ente collettivo ed i reati in materia di sicurezza sul lavoro, cit., p. 16, il quale sul punto chiosa: «Anzi, se si parte dal punto di vista, a nostro

avviso condivisibile, che la nuova forma di responsabilità degli enti introdotta con il decreto n. 231/2001 abbia natura penale e non meramente amministrativa o ibrida, e si ritengono vincolanti in questa materia tutti i fondamentali principi penalistici di matrice costituzionale e, dunque, anche il principio di legalità in tutte le sue molteplici declinazioni della riserva di legge, della determinatezza e tassatività e del divieto di analogia, questa interpretazione mediata dell’art. 5, d.lgs. n. 231/2001 sembra profilarsi come difficilmente compatibile con la nostra Carta fondamentale».

46 Contra G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 383, il quale sul punto così

chiosa: «È più probabile, però, che già a monte il problema non fu visto e che la formula dell’interesse o vantaggio sia stata concepita e modellata in concreto per la criminalità del profitto, ossia per una platea di reati squisitamente dolosi».

piano astratto, né a livello di contenuto, né a livello di intensità, a seconda della tipologia del reato presupposto da imputare oggettivamente all’ente»47.

Una siffatta ipotesi ermeneutica si lascia apprezzare sul piano pratico atteso che per tal via si potrebbe legittimare la soluzione adottata dalla giurisprudenza, la quale ha reso applicabili ai delitti colposi di evento i criteri di ascrizione oggettiva di cui al decreto del 2001 estrapolando dal concetto di ―reato‖ quella parte del fatto tipico, la condotta, che è compatibile con i criteri in questione, in quanto appunto realizzabile nell’interesse o a vantaggio della societas48.

Tra l’altro, alla luce della valenza elastica della suddetta scelta legislativa, la tesi ermeneutica orientata sulla condotta appare ancor più convincente nella misura in cui, collocandosi nella logica conservativa della razionalità dell’art. 5, non solo può fare leva sul ruolo centrale ricoperto dalla condotta nel paradigma colposo sotto il profilo della tipicità ma può altresì avvalersi del sostegno di un preciso dato normativo.

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