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La difficile coesistenza nel d.lgs n 231/2001 dei due paradigmi ascrittivi individualistico ed olistico

IL PARADIGMA PUNITIVO DELL’ENTE NEL SISTEMA 231 ALLA LUCE DEL DIBATTITO DOTTRINALE

3. Qualificazione dogmatica del paradigma ascrittivo di cui agli artt 5-6-7 del d.lgs n 231/

3.2. La difficile coesistenza nel d.lgs n 231/2001 dei due paradigmi ascrittivi individualistico ed olistico

Il modello di responsabilità amministrativa da reato configurato dal legislatore del 2001 si sostanzia di una fattispecie ascrittiva a struttura complessa i cui pilastri (secondo quanto si puntualizza nella Relazione di accompagnamento al decreto)64 sono codificati nelle seguenti norme: l’art. 5 in cui sono individuati «i criteri di imputazione sul piano oggettivo»; gli artt. 6 e 7 in cui si disegnano «i criteri di imputazione sul piano soggettivo», con riferimento sia al «caso di reato commesso dagli apici» sia al «caso di reato commesso dai sottoposti». A dette norme si accompagna, poi, l’art. 8 in cui si prevede altresì «l’autonomia della responsabilità dell’ente».

Accantonando per il momento la questione ermeneutica65 che si pone in relazione alla valenza dell’art. 8, l’attenzione va polarizzata anzitutto sul combinato disposto degli artt. 5, 6 e 7, al fine di fare luce sul peculiare assemblaggio dei paradigmi eterogenei che in esso vengono richiamati.

Da un canto l’art. 5 recepisce il criterio dell’immedesimazione organica nella misura in cui attribuisce rilievo centrale nell’economia della fattispecie ascrittiva in oggetto al

62 De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit, p. 63. 63 De Vero, ivi, p. 60, nt. 71.

64 Cfr. Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., pp. 16-24. 65 Cfr. infra nel presente Cap. II, § 4 .

―fatto di connessione‖, rappresentato dalla commissione di un reato presupposto nell’interesse o a vantaggio della persona giuridica da parte di un soggetto qualificato66.

Dall’altro negli artt. 6 e 7 risultano tipizzati i criteri soggettivi di imputazione che, seppure diversificati radicalmente con riferimento rispettivamente ai soggetti apicali e a quelli subordinati quali autori del fatto di connessione, sono entrambi latori del modello di colpevolezza di organizzazione.

Al riguardo va precisato che nel tessuto normativo del decreto non emerge alcun esplicito riferimento alla possibile colpevolezza o rimproverabilità dell’ente; purtuttavia in dottrina si ritiene che le due disposizioni appena menzionate abbiano predisposto una vera e propria Organisationsverschulden, configurando una forma di colpevolezza degli enti che viene sostanziata di contenuti attraverso il richiamo all’adozione e all’efficace attuazione di modelli organizzativi idonei alla prevenzione del rischio-reato67.

Nel combinato disposto delle norme anzidette, dunque, risultano richiamati due diversi modelli ascrittivi facenti capo rispettivamente al paradigma della responsabilità derivata e a quello della responsabilità originaria, i quali vengono declinati ratione functionis, ossia in rapporto al ruolo ricoperto dal soggetto responsabile del fatto di connessione, per cui essi assumono una configurazione profondamente diversa a seconda che la persona fisica rientri nel novero degli apicali o dei sottoposti.

In particolare nel primo modello ibrido di responsabilità, ossia quello declinato in relazione ai soggetti apicali, in capo alla persona giuridica si sovrappongono due diverse forme di colpevolezza: quella derivante dalla persona fisica qualificata che ha agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente sulla base del rapporto di immedesimazione organica; nonché quella che è imputabile direttamente all’ente come colpa di deficit organizzativo.

Rispetto a questo modello insorge, quindi, la difficoltà di dover coniugare la responsabilità dell’ente ex art 5 per «un fatto proprio e colpevole», materialmente posto in essere dal soggetto apicale, con quella derivante per esso dall’art. 6 «che attribuisce rilevanza – sia pure con l’onere della prova invertito– alla colpa di organizzazione sub specie di omessa adozione ed efficace attuazione di un modello idoneo»; una colpevolezza, si badi bene, che è «diversa da quella che fonda in positivo la responsabilità da reato della societas, che è la colpevolezza del soggetto apicale che lo ha commesso, imputata alla stessa societas per il tramite dell’immedesimazione organica, sul presupposto che questi esprima e rappresenti la politica dell’ente»68.

Relativamente poi al secondo modello ascrittivo, ossia quello declinato in rapporto ai soggetti sottoposti, si osserva che, venendo meno la possibilità di ricorrere al criterio dell’immedesimazione organica dato il ruolo subalterno ricoperto nell’ente dall’autore del fatto di connessione, il legislatore introduce il criterio di collegamento di cui all’art.

66 Ex multis, cfr. sul punto: C. de Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 308 ss; G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 40 ss.; G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 149 ss.

67 Cfr. G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 391. 68 G. De Simone, ivi, p. 405.

7, comma 1, con cui rispetto al reato commesso da detti soggetti si statuisce che «l’ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza».

In questo caso la persona giuridica sarebbe punibile per avere agevolato il compimento del reato o, secondo una diversa lettura, per avere concorso mediante omissione nel reato del sottoposto69.

Anche in tale ipotesi di responsabilità dell’ente viene in rilievo un modello ascrittivo connotato da una fisionomia ibrida per cui si pone il problema di decifrare il difficile rapporto intercorrente tra l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza – che parrebbe riferirsi ai soggetti in posizione apicale che sono titolari di tali obblighi – e l’eventuale adozione ed efficace attuazione del modello organizzativo da parte dell’ente che, ai sensi dell’art. 7, comma 2, dovrebbe escludere detta violazione in ogni caso70.

Ebbene, questa peculiare problematicità che connota nel complesso la struttura del paradigma punitivo, in prima battuta si potrebbe leggere con riferimento a quella faticosa mediazione politica che ha condizionato l’iter legislativo della riforma71 tanto da indurre ad affermare che «la novella può essere ascritta al genus delle c.d. ―leggi compromesso‖»72.

In realtà però questo aspetto ai fini della valutazione del paradigma imputativo di cui si discute ha un’incidenza del tutto marginale, considerato che il decreto, nonostante abbia subito al momento della sua nascita una pesante mutilazione del suo ambito applicativo, ha conservato inalterata la cd. ―parte generale‖ e, quindi, anzitutto i criteri di imputazione73.

L'attenzione allora va rivolta alle ragioni per cui sotto il profilo strettamente teoretico il legislatore del 2001 ab initio, nell’ideare questo inedito paradigma punitivo dell’ente, è stato indotto a ricorrere all’anzidetta soluzione intermedia consistente nell’assemblaggio di eterogenei canoni ascrittivi.

Nel merito è la stessa Relazione governativa a mettere sull’avviso l’interprete, laddove si afferma che: «Il cuore della parte generale del nuovo sistema è rappresentato dagli artt.

69 Cfr. sul punto infra nel presente Cap. II, § 5 avente ad oggetto l’inquadramento sistematico della

fattispecie di responsabilità amministrativa da reato dell’ente.

70 Cfr. G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 406.

71 Cfr. sul punto A. Manna, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’assieme, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2002, p. 515, il quale, rievocando le resistenze politiche

che furono all’origine della mutilazione del campo applicativo subita dal decreto in sede di approvazione, ci ricorda che: «all’epoca s’è corso il rischio che il decreto non venisse addirittura approvato affatto, quindi, il fatto che sia stato varato, seppure in parte, è stato importante perché con esso è stato quantomeno introdotto il principio: ―societas delinquere (et puniri) potest”».

72 Così G. Amarelli, Il catalogo dei reati presupposto del d.lgs. n. 231/2001 quindici anni dopo. Tracce di una razionalità inesistente, in www.lalegislazionepenale.eu, 23.05.2016, p. 5, nt. 10.

73 Cfr. C. Piergallini, Societas delinquere et puniri non potest: la fine tardiva di un dogma, cit., p. 587, il

quale nel merito puntualizza: «La fenditura recata al decreto, che innegabilmente proietta la sensazione di avere dinnanzi un cannone per sparare a qualche passero, non ne ha tuttavia alterato l’architettura con riferimento ai criteri di imputazione e all’arsenale sanzionatorio: salvo smentite della prassi, la ―parte generale‖ dell’impianto sembra atteggiarsi come un ―codice della responsabilità degli enti‖ suscettibile di operare, con qualche intervento di mero adattamento, anche in vista di un ampliamento dell’orbita dei reati».

5 e 6 dello schema»74 e si esplicita a chiare lettere che: «Ai fini della responsabilità dell’ente occorrerà […] non soltanto che il reato sia ad esso ricollegabile sul piano oggettivo […]; di più, il reato dovrà costituire anche espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpa di organizzazione»75.

In altri termini, il legislatore, sulla scorta del «convincimento che il rapporto di immedesimazione organica valga a collegare all’ente il reato commesso dall’individuo solo sul piano oggettivo e che non siano altrettanto trasferibili in capo al primo i coefficienti psicologici della responsabilità penale», non si è limitato a recepire il criterio organicistico all’art. 5, nella misura in cui esso vale a garantire solo il rispetto dell’accezione cd. minima del principio costituzionale di responsabilità penale, ossia il divieto di responsabilità per fatto altrui; attraverso la redazione degli artt. 6 e 7 si è altresì persuaso a radicare la ―personalità‖ di tale responsabilità in una forma di colpevolezza di tipo normativo così da garantire il rispetto dell’art. 27 comma 1 Cost.76.

Così, attraverso la codificazione degli anzidetti criteri soggettivi di imputazione l’intero sistema dell’inedita responsabilità dell’ente viene proiettato sul piano di una Schuld «ipernormativa e oggettivizzata, contraddistinta da una spiccata vocazione preventiva ed essenzialmente colposa»77.

Emerge in tal modo la duplice valenza di tipo garantistico e prevenzionale che il richiamo ai modelli organizzativi è chiamato ad assolvere: sul punto si afferma eloquentemente nella Relazione al decreto che «È peraltro opportuno notare come i criteri di imputazione non svolgano soltanto un ruolo di ―filtro‖ della responsabilità: non rispondano, cioè, esclusivamente ad una – sia pure importante – logica di garanzia. Essi, per come sono (puntualmente) descritti nello schema del decreto adempiono innanzitutto ad una insostituibile funzione preventiva»78.

Al riguardo, nel commentare tale adesione alla filosofia dei compliance programs si è osservato in dottrina che il legislatore del 2001, «nella consapevolezza che il reato d’impresa affonda stabilmente le sue radici in una struttura organizzata, che partorisce una propria cultura, ha puntato direttamente al cuore delle organizzazioni complesse, con l’obiettivo di implementare l’adozione di regole di comportamento che orientino l’agire

74 Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 16. 75 Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, ivi, p. 19.

76 Cfr. G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., p. 164, il quale nel merito

puntualizza (ibidem): «Viene per questa via operato […] un immediato collegamento con la tematica d’ordine generale della colpevolezza d’impresa e si apre la strada alla recezione nel nostro ordinamento di quei protocolli organizzativi in funzione di prevenzione del corporate crime già noti all’esperienza comparatistica». Cfr. sul punto anche C. de Maglie, L’etica e il mercato. La responsabilità penale delle

società, cit., p. 102 ss.

77 G. De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, cit., p. 391. Sul punto cfr. infra Cap. IV, §

4.1 avente ad oggetto ―La colpa di organizzazione come espressione della concezione normativa della colpevolezza‖.

verso la prevenzione ragionevole del rischio-reato e, dunque, in direzione della legalità»79.

La scelta, quindi, di ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione dei modelli organizzativi ovvero al mancato rispetto di standard doverosi di diligenza trova la sua peculiare giustificazione nell’esigenza di coinvolgere l’ente in un ruolo protagonistico nella cultura della legalità al fine di prevenire la commissione di reati da parte delle persone fisiche che lo costituiscono.

In questa prospettiva, mentre nella legge-delega si era statuito in capo all’ente solo un generico dovere di vigilanza, con il rischio che la prassi ne operasse un sostanziale svuotamento indulgendo verso forme di versari in re illicita, con l’intervento riformatore del 2001, traendo spunto dalle esperienze maturate nell’orizzonte comparatistico, si è preferito riempire l’anzidetto dovere di specifici contenuti, ispirandosi al sistema dei compliance programs sperimentato già da tempo negli Stati Uniti80 .

Riepilogando, dunque, il senso delle considerazioni finora svolte, è possibile affermare che i due modelli ascrittivi ex artt. 6 e 7 in cui si articola il paradigma punitivo dell’ente implementato dal legislatore del 2001, data la commistione di cui si è detto tra la dimensione individualistica e quella olistica81, si potrebbero qualificare «misti, ibridi o sincretistici e potrebbero rientrare nel novero di quelli che taluno, nella penalistica

79 C. Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo ex d.lgs. 231/2001), cit., p. 2050.

80 Cfr. Relazione al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, cit., p. 19. Al riguardo va precisato però che il legislatore

del 2001, pur ispirandosi all’esperienza statunitense dei compliance programms, si è profondamente discostato da essa: mentre nel nostro ordinamento il richiamo ai modelli organizzativi ricopre un ruolo fondativo della responsabilità degli enti, assolvendo una funzione costitutiva della relativa colpevolezza, negli USA i compliance programms rilevano sul piano più circoscritto della definizione del trattamento sanzionatorio in funzione di limite alla discrezionalità giudiziale nella determinazione della pena da infliggere concretamente alla corporation (Cfr. C. de Maglie, L’etica e il mercato, cit., p. 64 ss.).

In particolare, si rileva che (cfr. O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, cit., p. 87 ss.), se è vero che si ravvisano ―punti di contatto‖ (l’adozione dei compliance non è obbligatoria ma si configura come mero onere perché la societas possa fruire dei benefici che ne derivano; i modelli devono essere concretamente attuati), sussistono in realtà profonde differenze tra i due sistemi di prevenzione, atteso che nel sistema statunitense «la fonte di produzione dei programmi comportamentali» risiede nella legge federale e l’adozione dei compliance programs, pur consentendo l’attenuazione dell’ammontare della pena anche in misura considerevole, non esclude la responsabilità dell’ente. Più precisamente, la distanza che separa il sistema italiano da quello statunitense si evidenzia soprattutto con riferimento al «diverso retroterra culturale» che ad essi è sotteso: mentre negli Stati Uniti «l’attuale assetto di disciplina è stato il frutto di un processo laborioso, ma anche graduale», in Italia «la fase intermedia dei codici etici e della (più o meno riuscita) autoresponsabilizzazione del mondo imprenditoriale è stata saltata a piè pari, sicchè il nuovo sistema non ha potuto avvalersi di quella base di consenso aggregante che sarebbe derivata da una maturazione naturale delle tematiche» (O. Di Giovine, ivi, pp. 88-89). Per un ulteriore riferimento al sistema di responsabilità degli enti vigente in quell’ordinamento cfr. infra Cap. VI, § 8.

81 Sul punto cfr. A. Gargani, Individuale e collettivo nella responsabilità della societas, cit., pp. 239-240, il

quale, richiamando le teorizzazioni di M. Delmas Marty (Dal codice penale ai diritti dell’uomo, cit., p. 38) circa il rapporto tra «la visione dell’individuo quale ―valore supremo‖ e l’ideologia olistica secondo cui ―il valore si trova nella società intesa nella sua globalità‖», individua nella relazione tra individualismo e

olismo «una significativa chiave di lettura attraverso cui decifrare lo scenario evolutivo del diritto penale e

i suoi elementi di (più o meno reale) innovatività»; cfr. in tal senso anche G. De Francesco, La societas e

d’Oltralpe, ha definito come limitatamente individualistici (eingeschränkt individualistische Modelle)»82.

3.3. Il conflitto ermeneutico sulla valenza del difetto organizzativo nel sistema

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