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La questione della natura della responsabilità amministrativa da reato dell’ente nella giurisprudenza di legittimità

LA TENSIONE EVOLUTIVA DEL PARADIGMA PUNITIVO DELL’ENTE ALLA LUCE DELLA RESPONSABILITÀ COLLETTIVA DA DELITTO COLPOSO D’EVENTO

3. Il contributo del formante giurisprudenziale

3.2. La rilevanza della sentenza delle S.U sul caso Thyssenkrupp

3.2.1. La questione della natura della responsabilità amministrativa da reato dell’ente nella giurisprudenza di legittimità

La Suprema Corte preliminarmente si sofferma sul problema della natura della responsabilità degli enti, rievocando, sia pure per linee essenziali, i termini del dibattito dottrinale facente capo ai tre indirizzi che si contendono il campo (ossia la tesi amministrativistica, la tesi penalistica e la tesi del tertium genus); a tale riguardo, proprio a volere sottolineare le implicazioni sistematiche e costituzionali che discendono dall’adesione all’una piuttosto che all’altra tesi, si preoccupa di precisare nell’incipit che «Il primo e più lungamente dibattuto tema riguarda la natura del nuovo sistema sanzionatorio», rispetto al quale «non vi è accordo in dottrina»90.

88 Cfr. C.E. Paliero, Soggettivo e oggettivo nella colpa dell’ente: verso la creazione di una “gabella

delicti‖, cit., p. 1290.

89 Cfr. R. Borgogno, I recenti sviluppi giurisprudenziali sulla responsabilità da reato degli enti, in A.

Fiorella, R. Borgogno, A.S. Valenzano, a cura di, Prospettive di riforma del sistema italiano della

rewsponsabilità dell’ente da reato anche alla luce della comparazione tra ordinamenti, Jovene, Napoli,

2015, pp. 57-58, il quale sul punto, dopo avere sottolineato che «molto più numerose sono le pronunce relative ad aspetti sanzionatori della responsabilità dell’ente, fra i quali spiccano in particolare quelli collegati alla confisca del profitto derivante da reato», osserva: «Solo con la recente sentenza delle Sezioni Unite, emessa in relazione al caso Tyssenkrupp […], sembra emergere la tendenza ad affrontare, su un piano più ampio e sistematico, alcune problematiche generali relative alla responsabilità degli enti, anche sotto il profilo della compatibilità della disciplina introdotta dal d.lgv. 231/2001, con i principi costituzionali che governano la materia».

Successivamente, dopo avere richiamato i diversi indirizzi della pregressa giurisprudenza di legittimità in proposito91, il Collegio si attesta sulla linea dei precedenti che sostengono la tesi del tertium genus92, premurandosi di precisare di essere in sintonia in questa sua scelta con l’intendimento del legislatore delegato professato nella Relazione al decreto93 ed assumendo quale esplicito modello di riferimento94 una «condivisa pronunzia»95 (ossia la sentenza ―Brill Rover del 2010), alla quale ispirarsi per interpretare non solo la natura ma la valenza medesima del paradigma punitivo in esame.

Ebbene, come si avrà modo di verificare, proprio questo collegamento che la Corte instaura con la sentenza Brill Rover del 2010 offre lo spunto per inserire la sentenza Thyssenkrupp del 2014 nella trama delle contrapposte esegesi che dalla riflessione giurisprudenziale emergono non solo in merito alla questione della natura della responsabilità da reato ma altresì sul tema della definizione dello stesso paradigma punitivo dell’ente.

Volendo ora prendere in considerazione il profilo della vexata quaestio della natura di questa forma di responsabilità, che costituisce una problematica condizionata sin dalle sue origini dal formante dottrinario96, si ricorda che in precedenza, a completamento

91 Cfr. Cass. S.U., 18.09.2014, n. 38343, cit., n. 61 della motivazione, laddove vengono richiamate le

sentenze che esprimono rispettivamente: l’orientamento in senso amministrativo (S.U., n. 34476 del 23.01.2011, Deloitte & Touche, Rv. 250347; Sez. U, n. 10561 del 30.01.2014, Gubert, Rv. 258647; Sez. 6, n. 21192, del 25.01.2013, Barla, Rv. 255369; Sez. 4, 42503 del 25.06.2013, Ciacci, Rv. 257126); l’orientamento in senso penalistico (Sez. U, n. 26654 del 27.03.2008, Fisia Italimpianti, Rv. 239922-923- 924-925-926-927; Sez. 2, n. 3615 del 20.12.2005, D’Azzo, Rv. 232957) ; l’interpretazione come tertium

genus (Sez. 6, n. 27735 del 18.02.2010, Scarafia, Rv. 247665-666; Sez. 6, n. 36083 del 09.07.2009,

Mussoni, Rv. 244256).

92 Al riguardo cfr. R. Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso Thyssenkrupp, in Giur.it., 2014, p. 2569 ss., laddove l’Autore, escludendo che la formula tertium genus possa alludere

all’esistenza di «un sistema diverso da quello punitivo» oppure ad una natura dell’ente collocata «a metà strada tra il penale e il punitivo amministrativo», sul punto chiosa: «Se invece con tale espressione si vuole affermare che il sistema degli enti è un sistema punitivo, ma con caratteri propri rispetto al sistema punitivo ―umano‖ in quanto ha come destinatario un soggetto del tutto peculiare qual è l’ente, allora questa espressione non può che essere condivisa, dovendosi però chiarire che poi si porrà comunque il problema se si tratti di responsabilità dell’ente penale oppure amministrativa».

93 Cfr. sul punto Cass. S.U., 18.09.2014, n. 38343, cit., n. 62 della motivazione, laddove al riguardo si

afferma: «Il Collegio considera che, senza dubbio, il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole. Colgono nel segno, del resto, le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia».

94 Il modello di riferimento in questione è costituito da: Cass. pen., Sez. VI, 18.02.2010-16.06.2010, n.

27735, Brill Rover (in Soc., 2010, p. 1241 ss., con nota di V. Salafia, Costituzionalità del d.lgs. n.

231/2001 e il disegno di legge per la sua parziale riforma, cit.), nella quale si dichiara manifestamente

infondata, in relazione agli artt. 3, 24 e 27 Cost., la questione relativa alla responsabilità amministrativa degli enti con riferimento ai reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio dai soggetti di cui all’art. 5 del d.lgs. 231/2001 indicati come apicali, atteso che, sulla base del rapporto di immedesimazione organica che sussiste tra detti soggetti e la persona giuridica, «il reato da loro commesso è sicuramente qualificabile come ―proprio‖ dalla persona giuridica».

95 Cass. S.U., 18.09.2014, n. 38343, cit., n. 62 della motivazione.

96 Cfr. C.E. Paliero, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, cit., p. 15.

della rievocazione del dibattito dottrinale su tale profilo, si è segnalato che anche in giurisprudenza sono state espresse, così come in dottrina, interpretazioni divergenti facenti capo rispettivamente alla tesi amministrativistica, a quella penalistica e a quella del tertium genus97.

In quella sede però i diversi orientamenti giurisprudenziali sono stati rievocati in termini meramente descrittivi del paradigma punitivo in esame, cioè sul piano della sua rappresentazione statico-formale.

Adesso nella prospettiva diacronica in cui ci siamo posti, finalizzata a cogliere la tensione evolutiva del meccanismo ascrittivo in parola, va puntualizzato che nel corso del primo decennio di vigenza del sistema 231 a contendersi il campo si sono contrapposte da un canto la tesi ―panpenalistica‖, fatta propria dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità, dall’altro la tesi ―amministrativistica pura‖, che ha raccolto adesioni nella giurisprudenza di merito formalisticamente ancorata al dato normativo.

Tutto ciò fino a quando non si fa strada anche la tesi del tertium genus, a seguito dell’intervento della Cassazione che con la sentenza sul caso Mussoni del luglio 2009 «―spariglia‖ e propone con decisione la via dell’eclettismo»98, affermando testualmente che «In forza del rapporto di immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l’ente risponde per fatto proprio senza involgere minimamente il divieto di responsabilità per fatto altrui posto dall’art. 27 Cost.»99.

L’adozione dell’«ibridismo categoriale» messa in campo dalle Sezioni Unite nel caso di specie scaturisce, infatti, dall’esigenza di superare le difficoltà derivanti dalla c.d. esimente dell’art. 6 con riferimento all’ipotesi del reato commesso dai soggetti apicali e trova il suo fondamento nel presupposto che «il carattere terzo di questa forma di responsabilità» da un canto rende praticabile il criterio di «imputazione per immedesimazione persona fisica rappresentante/ente rappresentato» e dall’altro fa sì che sia rispettato per tal via il principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost. nella misura in cui in virtù del criterio dell’immedesimazione «il fatto dell’autore risulta proprio (e non altrui ) anche per l’ente»100.

Ora, è evidente che questa soluzione fatta propria dalla Corte, polarizzata sulla valorizzazione del criterio organicistico, se da un canto si lascia apprezzare per la sua efficacia sul piano della funzionalità pratica, dall’altro desta perplessità nella misura in cui crea più problemi di quanti ne possa risolvere; per tal via infatti si opera «un vero e proprio cambio di paradigma» per cui si passa da un sistema di responsabilità originariamente concepito «come strutturalmente colposo e accessorio» ad un sistema

97 Cfr. supra Cap. II, § 2.

98 C.E. Paliero, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, cit., p. 16.

99 Cfr. Cass. pen., sez. VI, 17.07.2009, n. 36083, Mussoni, in Cass. pen., 2010, p. 1939, laddove,

proseguendo ulteriormente, si puntualizza: «La sussistenza dell’interesse (considerato dal punto di vista soggettivo) o del vantaggio (considerato dal punto di vista oggettivo) è sufficiente all’integrazione della responsabilità fino a quando sussiste l’immedesimazione organica tra dirigente apicale ed ente».

100 C.E. Paliero, Dieci anni di “corporate liability” nel sistema italiano: il paradigma imputativo nell’evoluzione della legislazione e della prassi, cit., p. 16.

che punta «su di una forma e un titolo di responsabilità sostanzialmente dolosa e principale»101.

In questa prospettiva ermeneutica non solo si incorre nel rischio dell’iper-effettività, con tutte le conseguenze problematiche che ne derivano con riferimento al rispetto del principio di personalità della responsabilità penale, ma si determina altresì una forte tensione con il sistema di responsabilità configurato nel decreto 231, che – è opportuno ribadirlo – dal punto di vista strutturale risulta «sicuramente riconducibile al tipo colposo (nella particolare forma della cd. ―colpa di organizzazione‖), all’interno della quale l’onere di dotarsi di un modello organizzativo idoneo a ―prevenire reati della specie di quello verificatosi‖, funge da statuto cautelare autoimpostosi ( autonormato ) dall’ente, rispetto al quale l’ente stesso e la sua organizzazione fungono da garante e controllore»102.

Detto ciò a proposito della sentenza Mussoni del 2009, adesso si intende instaurare un confronto con la sentenza Brill Rover del 2010, considerato che proprio quest’ultima pronuncia è stata assunta dalle Sezioni Unite nella sentenza Thyssenkrupp quale proprio modello di riferimento, al fine di evidenziare il peculiare contributo che per tal via è derivato al processo dinamico di tensione evolutiva del paradigma punitivo di cui si discute.

Nello specifico, quale elemento che accomuna le due sentenze va segnalata l’adesione alla tesi del tertium genus, il cui ibridismo categoriale viene utilizzato anche nella ―Brill Rover‖ per affermare che in forza del criterio dell’immedesimazione organica non vi è incompatibilità tra la disciplina di cui al d.lgs 231 e il riferimento all’art. 27 Cost., in quanto «il fatto-reato commesso dal soggetto inserito nella compagine della societas, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questa, è sicuramente qualificabile come ―proprio‖ anche della persona giuridica»103.

Nondimeno la Corte in questa nuova pronuncia, a differenza di quanto si riscontra nella sentenza ―Mussoni‖, assume un’esplicita posizione con riferimento al criterio soggettivo di responsabilità, affermando che il sistema 231, onde escludere «un’ipotesi di responsabilità oggettiva», prevede la necessità della sussistenza della c.d. colpa di organizzazione, la quale consiste nel non avere predisposto «un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commisione di reati del tipo di quello realizzato», sicché

101 C.E.Paliero, ivi, p. 17. 102 C.E. Paliero, ivi, p. 11.

103 Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 18.02.2010-16.06.2010, n. 27735 , Brill Rover, cit., p. 1241, laddove la Corte,

proseguendo ulteriormente, puntualizza: «Il D.lgs. n. 231 del 2001 ha introdotto un tertium genus di responsabilità rispetto ai sistemi tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un’autonoma responsabilità amministrativa dell’ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati espressamente elencati nella sezione III da parte di un soggetto che riveste una posizione apicale, sul presupposto che il fatto-reato ―è fatto della società, di cui essa deve rispondere‖. Conclusivamente in forza del rapporto di immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l’ente risponde per fatto proprio senza coinvolgere il principio costituzionale del divieto di responsabilità penale per fatto altrui (art. 27 Cost.)».

«il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo»104.

Si prospetta quindi una colpevolezza di organizzazione, concepita in senso meramente normativo, con il compito di assolvere la funzione di garantire il rispetto del principio di colpevolezza.

A tale riguardo occorre sottolineare però che questa interpretazione della colpa di organizzazione come colpa per inosservanza, come mero inadempimento del dovere organizzativo, rischia di tradursi in un espediente per evitare l’accertamento effettivo dell’elemento soggettivo in capo all’ente; tale rischio viene confermato dal fatto che la Corte alla luce della suddetta semplicazione della nozione di colpa prospetta altresì una riconfigurazione della distribuzione dell’onere probatorio tale per cui: non si ravvisa nel dettato normativo «nessuna inversione dell’onere della prova»; spetta all’accusa «l’onere di dimostrare la commissione del reato» da parte del soggetto qualificato e «la carente organizzazione interna dell’ente»; quest’ultimo dispone di «ampia facoltà di fornire prova liberatoria»105.

Ora, risulta evidente che anche in questo caso si è costretti a prendere atto di un’operazione ermeneutica che si traduce, se non in un cambio di paradigma come nel caso della sentenza Mussoni, certamente in una manipolazione del modello punitivo originario; la qualcosa non è affatto irrilevante se è vero che la pronuncia in parola, come si è detto, è stata assunta a proprio modello di riferimento dalle Sezioni Unite nella sentenza Thyssenkrupp del 2014.

Nondimeno, riservandoci di entrare in seguito nel merito della valenza di questa operazione manipolativa, sul punto si ritiene opportuno concludere provvisoriamente ricordando che nella prassi applicativa si registra un riequilibrio dell’onere probatorio a favore degli enti, i quali nella sostanza vengono gravati solo della mera allegazione del modello organizzativo adottato, e parallelamente un diffuso ricorso da parte del giudice a valutazioni peritali in sede di accertamento dell’efficacia dei modelli organizzativi106.

3.2.2. Il paradigma di imputazione soggettiva all’ente del fatto-reato dell’apicale

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