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Il contingent fee lobbying come modalità vietata di lobbying in quan to minaccia all’interesse generale

La giurisprudenza americana in materia di lobbying (e finanziamento elettorale)

4. La giurisprudenza rilevante in materia di Primo Emendamento e dintorn

4.4. Il contingent fee lobbying come modalità vietata di lobbying in quan to minaccia all’interesse generale

In effetti, nelle prime pronunce in cui storicamente si è occupata di lobbying, la Corte Suprema americana era stata molto severa nei confronti di questa pratica. In particolare, però, essa si era occupata in quelle occasioni di una specifica modalità 27 275 U.S. 199 (1927).

di conclusione dei contratti di lobbying, la cui liceità in via generale verrà affrontata come si è visto solo in seguito: si tratta dei contratti che prevedono l’inclusione di una clausola di contingent fee.

Tale clausola, inclusa in un contratto di lobbying, consiste nella parametrazione del compenso di un lobbista al beneficio che è stato in grado di procurare al proprio cliente. In altri termini, in virtù di tale previsione, lobbista e cliente si accordano perché la remunerazione avvenga in funzione del risultato utile conseguito dal primo nell’interesse del secondo: potremmo definirlo “patto di quota lobbying”, in analogia al “patto di quota lite” che il cliente può concludere con il proprio avvocato.

Non vi era nella legislazione federale un divieto generale di ricorrere a questa pratica, ma nonostante l’assenza di un divieto espresso, ci si interrogò sull’aziona- bilità di contratti che prevedano compensi di questo tipo per attività di lobbying, e sulla questione si pronunciò per l’appunto in tempo risalente anche la Corte Suprema federale (ancora lontana, all’epoca, dal riconoscere al lobbying protezione costituzionale nel Primo Emendamento, disposizione che quindi non viene consi- derata in queste pronunce).

Il primo caso da ricordare è Marshall v. Baltimore and Ohio Railroad Co.28, in

cui la Corte affermò espressamente che «tutti i contratti che prevedono un com- penso condizionato all’ottenimento dell’approvazione di una legge, o l’utilizzo di un’influenza personale, segreta o minacciosa sul legislatore, sono annullabili per legge».

In realtà, s’impongono alcune precisazioni. Nel caso di specie, l’attore, Marshall, sosteneva di aver procurato l’approvazione, da parte dello Stato della Virginia, di una legge favorevole a Railroad Company, e di aver quindi diritto, sulla base di un apposito contratto stipulato con la società, a che questa gli riconoscesse un com- penso di 50 mila dollari.

La Corte respinse la domanda di Marshall, ma anche e prima di tutto per via del fatto che aveva accertato che il contenuto dell’atto approvato non era lo stesso dedotto nel contratto con la Railroad Company, ma era diverso (anche se era infine risultato comunque favorevole alla società).

Inoltre, un’altra caratteristica del contratto che pesò molto nel giudizio della Corte fu il fatto che esso era segreto, dunque il legislatore della Virginia non ne era a conoscenza. Questo fatto preoccupò molto la Corte, e la indusse a pronunciarsi molto duramente contro la pratica del lobbying in quanto tale. L’opinion di mag- gioranza riconosce che «tutte le persone i cui interessi possano in qualsiasi modo essere influenzati da un atto pubblico o privato del legislatore, hanno un inconte- stato diritto a presentare le proprie pretese e le proprie ragioni, sia personalmente sia tramite un rappresentante professionale che agisca in loro vece, di fronte alle commissioni legislative, così come nelle corti di giustizia», purché ciò avvenga in modo non segreto.

Tuttavia, essa non risparmia i propri strali nei confronti di quelli che ritiene dei potenziali attentati all’interesse generale, al punto che sembra quasi voglia bandire qualunque contratto avente per oggetto l’ottenimento di decisioni favorevoli da par- te del governo. Riporto qui alcuni passaggi piuttosto significativi della decisione: I legislatori dovrebbero agire con un’alta considerazione del pubblico dovere. Le politiche pubbliche e una forte moralità richiedono pertanto imperativamente che le corti debbano apporre il sigillo della loro disapprovazione su qualsiasi atto, e dichiarare nullo ogni con- tratto, il cui fine ultimo o tendenza è macchiare la purezza o confondere il giudizio di coloro nei quali è posta la fiducia nella legislazione. […] I legislatori dovrebbero agire con un solo occhio rivolto al vero interesse di tutto il popolo, e le corti non possono tollerare l’uso di mezzi che possano fuorviarli tramite comportamenti ripetuti ed inopportuni e l’indiretta influenza di avvocati o rappresentanti interessati e poco scrupolosi. Le influenze segreta- mente avanzate sotto pretese false e nascoste operano necessariamente in maniera dannosa sull’attività legislativa, che sia utilizzata per ottenere l’approvazione di atti pubblici o pri- vati. La corruzione, nella forma di alte compensazioni, conduce necessariamente all’uso di mezzi scorretti e all’esercizio di indebite influenze. La conseguenza necessaria è la demora- lizzazione dell’agente che si impegna per essi; egli è presto portato a credere che qualsiasi mezzo che produca un risultato così vantaggioso per sé sia un “mezzo corretto”; e che una parte di questi profitti possa avere lo stesso effetto di velocizzare la percezione e scaldare l’entusiasmo dei membri influenti o “disattenti” in favore della sua proposta di legge. L’uso di tali mezzi e tali agenti avrà l’effetto di sottomettere i governi statali ai capitali delle ricche

corporation, e produrrà una corruzione universale, iniziando dai rappresentanti e termi-

nando con gli elettori. Gli speculatori della legislazione, pubblica e privata, una compatta compagine di avidi avvocati, vendendo la loro influenza segreta, infesteranno la capitale dell’Unione e di ogni Stato, sino a che la corruzione diventerà la normale condizione del corpo politico, e si dirà di noi come di Roma, che “tutto a Roma ha un prezzo”.

Il contingent fee è dunque assimilato qui addirittura alla bribery, la corruzione, e non si può fare a meno di notare che la vis polemica è incredibilmente simile a quel- la che ancora oggi anima tanti dei discorsi dei c.d. reformers, cioè dei sostenitori della necessità di riformare in senso restrittivo la regolamentazione del lobbying e del finanziamento elettorale: le parole della Corte in Marshall sembrano in effetti anch’esse tratte da una delle tante voci che, più di un secolo e mezzo dopo, tuttora sembrano ritenere quasi inevitabile il rischio che la rappresentanza organizzata di interessi degeneri in fenomeni affini alla corruzione e al malaffare, e ritengono ne- cessario un intervento normativo per prevenire tale scenario.

La seconda sentenza è simile; si tratta del caso Providence Tool Co. v. Norris29.

Anche in questa occasione la controversia era tra un lobbista, Norris, e la società cui aveva procurato un ricco contratto con il governo, per il pagamento del contin-

gent fee pattuito, che Norris quantificava in 75 mila dollari, e che la società rifiutava

invece di pagare.

In Providence Tool, la Corte negò espressamente la legittimità del contingent

fee lobbying, affermando che «gli accordi che prevedono un compenso in ragione

del successo suggeriscono l’uso di mezzi corrotti e minacciosi per raggiungere il fine desiderato. La legge viene incontro a tale suggerimento maligno e rende nullo il contratto sin dall’origine. ».

Anche in questo caso, però, la Corte colse l’occasione per pronunciarsi in ge- nerale sul lobbying, nuovamente con toni molto critici. Dopo aver curiosamente descritto Norris come una sorta di trafficone che, dopo una «vita in qualche modo variegata, in Europa e America», si era trovato a Washington senza uno scopo pre- ciso, ma con l’idea di farvi affari, la Corte si chiede se sia in generale azionabile un accordo di compenso per la stipulazione di un contratto di fornitura con il governo, e risponde “senza esitazione” di no. Tali contratti sono nulli perché è illecita la loro

consideration (quella nozione del common law che ha il proprio corrispettivo più

affine in diritto italiano nella nozione di causa del contratto). E tale consideration è illecita perché è contraria alla public policy, altro concetto tipico del common

law con cui si fa riferimento in generale a quei «principi e standard considerati dal

legislatore o dalle corti come di fondamentale interesse dello Stato e dell’intera società»30.

In ogni caso, la motivazione è estremamente simile a quella di Marshall, e fa leva sul timore che accordi di questo genere sacrifichino in modo irrimediabile l’interesse generale a favore di quelli particolari, manifestando un’inaccettabile “corrupting tendency”:

Tutti i contratti di forniture dovrebbero essere fatti solo con coloro che li eseguiranno in buona fede e con la minor spesa per il Governo. Considerazioni riguardo il modo più eco- nomico ed efficiente di soddisfare la volontà del pubblico dovrebbero da sole orientare, a questo riguardo, l’azione di ogni dipartimento del Governo. Nessun’altra considerazione può essere legittimamente tenuta in conto durante la transazione per quello che riguarda il governo. Questo è il ruolo della public policy; e qualsiasi cosa tenda ad introdurre altri ele- menti nella transazione è contro la public policy. È evidente che quei contratti, come quelli in considerazione, hanno questa tendenza. Essi tendono a introdurre la sollecitazione perso- nale e l’influenza personale come elementi nel procurarsi i contratti; e pertanto conducono direttamente all’inefficienza nel sistema e a spese non necessarie dei fondi pubblici. […] La legislazione dovrebbe essere mossa solamente dalla considerazione del bene pubblico, e del miglior modo di farlo progredire. Qualsiasi cosa tenda a spostare l’attenzione dei legislatori dai loro più alti doveri, a confondere le loro menti, o a sostituire altri fini per la loro condotta rispetto all’avanzamento del pubblico interesse, tende necessariamente e di- rettamente a compromettere l’integrità delle nostre istituzioni politiche. […] Non c’è alcuna 30 Black’s Law Dictionary, 20048, voce public policy. In particolare, questa nozione viene

impiegata proprio nel diritto dei contratti, per dichiarare un accordo invalido e quindi non azionabile, in maniera in parte analoga alla nostra nozione (civilistica) di “ordine pubblico”.

reale differenza di principio tra accordi per procurarsi favori dai corpi legislativi e accordi per procurarsi favori nella forma di contratti dai capi di dipartimento. L’introduzione di ele- menti inadatti per controllare l’azione di entrambi è il risultato diretto ed inevitabile di tali accordi. Pertanto, […] tutti gli accordi con corrispettivi economici per controllare le opera- zioni economiche del Governo, o la regolare amministrazione della giustizia, o la nomina di pubblici ufficiali, o l’ordinario corso della legislazione, sono nulli in quanto contrari alla

public policy, senza riguardo alla questione del se siano stati o meno contemplati o utilizzati

metodi inappropriati per la loro esecuzione. La legge guarda alla tendenza generale di tali accordi; e chiude la porta alla tentazione, impedendo che vengano riconosciuti in qualsiasi corte del Paese.

Ma la sentenza più importante e più citata della Corte Suprema nella materia che stiamo esaminando è indubbiamente Trist v. Child31. In realtà, anche in questo

caso la Corte si pronunciò sul lobbying in generale, con gli stessi toni negativi di

Marshall e Providence Tool, limitandosi ad aggiungere che, ove l’accordo tra clien-

te e lobbista prevedesse una contingent fee, i rischi di corruzione del procedimento democratico erano ancora maggiori: «dove l’avidità dell’agente è infiammata dalla speranza di un premio basato sul successo, e graduato su una percentuale dell’am- montare percepito, il pericolo di manomissione nella sua peggior forma è grande- mente aumentato».

Anche Trist era relativo a una controversia tra un lobbista, L.M. Child (che era subentrato nell’incarico al padre, Linus Child) e un suo cliente, Trist, che in questo caso aveva affidato a Child padre e poi, dopo la sua morte, a Child figlio, l’incarico di cercare di ottenere dal Congresso il pagamento di una somma di denaro di cui quest’ultimo gli era debitore, con l’accordo che il lobbista avrebbe ricevuto come compenso il 25% di quanto sarebbe riuscito a far conseguire a Trist, e non avrebbe ricevuto compenso se la sua opera di lobbying non fosse andata a buon fine.

I Child riuscirono ad ottenere lo stanziamento, da parte del Congresso, della somma dovuta a Trist, e chiesero quindi a quest’ultimo il 25% concordato, ma Trist rifiutò di pagare. Chiamata ad occuparsi del caso, nuovamente la Corte Suprema di- chiarò nullo il contratto sottostante, perché contrario a public policy. Queste le sue conclusioni: a) di per sé, è valido l’incarico a un avvocato (i Child avevano entram- bi ricevuto l’incarico da Trist in tale veste) di recuperare un credito dal Congresso con accordo di contingent fee; b) è nullo, però (per l’intero, dunque anche per le prestazioni di per sé lecite), se l’incarico non si limita alle prestazioni normalmente consentite ad un avvocato32, ma include il compito di «ottenere, tramite “servizi di

lobby”, vale a dire tramite sollecitazione personale da parte dell’agente, e di altri

31 88 U.S. 441 (1874).

32 Tipicamente, i «servizi solamente professionali» che sono sicuramente ammessi con- sistono in «redigere una petizione che avanzi la richiesta, presenziare ad un’audizione al Congresso, raccogliere fatti, preparare discussioni e presentarli oralmente o per iscritto ad una commissione o altra apposita autorità».

che si suppone abbiano una personale influenza in qualsiasi modo sui membri del Congresso, l’approvazione di un disegno di legge, prevedendo il pagamento della richiesta’’»: infatti in questo caso è contrario alla public policy; c) simili ‘lobby

services’ sono leciti se svolti gratuitamente: ciò che li rende illegittimi è il fatto di

essere svolti dietro compenso; ove sia previsto un compenso, lobbisti e avvocati devono limitarsi alle attività strettamente professionali, astenendosi da qualunque “personal solicitation” del funzionario interessato (il compenso può anche essere senza clausola di contingent fee, che per la Corte rende semplicemente ancor più censurabile la condotta in questione).

Infine, anche in Trist la Corte dedica un certo spazio alla giustificazione teori- ca della propria conclusione, richiamandosi al pericolo di inquinamento della vita pubblica che essa ritiene che il lobbying comporti. Ancora una volta, merita ripor- tare ampi stralci del suo ragionamento:

La fondazione della repubblica è la virtù dei suoi cittadini. […] La teoria del nostro Gover- no è che tutti i ruoli pubblici siano istituzioni fiduciarie e che quelli incaricati di tali ruoli debbano essere animati nello svolgimento dei loro doveri solamente dalla considerazione del giusto e del pubblico bene. Essi non devono mai scendere ad un livello sottostante. Ma c’è un dovere correlato riposto nel cittadino. Nel suo rapporto con coloro che rivestono un’autorità pubblica, che sia esecutiva o legislativa, quando viene in contatto con lo svol- gimento delle loro funzioni, è costretto a esibire verità, franchezza, e integrità. Qualsiasi scostamento dalla linea della rettitudine in questi casi è non solo eticamente scorretto ma comporta un errore pubblico. Nessun popolo può avere un più alto pubblico interesse, se si eccettua la preservazione delle libertà, che l’integrità nell’amministrazione del suo governo in tutti i suoi dipartimenti. L’accordo nel presente caso era per la vendita dell’influenza e degli sforzi del lobbista per far passare una legge per il pagamento di una richiesta privata, senza riferimento al suo merito, tramite mezzi che, se non corrotti, erano illegittimi, e con- siderati in connessione con l’interesse pecuniario del lobbista stesso, contrari ai più basilari principi di politica pubblica. Nessuno ha un diritto, in tali circostanze, di mettersi in una posizione di tentazione a fare ciò che è considerato così nocivo nel suo carattere. La legge proibisce l’avvio di una simile condotta e appone il sigillo della propria riprovazione su questa intrapresa. Se qualcuna delle grandi corporation del Paese dovesse assumere avven- turieri che vendono sé stessi in questo modo, per procurare l’approvazione di una legge ge- nerale con il fine di promuovere i suoi privati interessi, il senso morale di ogni persona sana di mente denuncerebbe l’impiegato e il datore di lavoro come corrotti, e il loro lavoro come infame. Se gli esempi fossero numerosi, aperti e tollerati, verrebbero considerati come la misura del decadimento della morale pubblica e della degenerazione dei tempi. Nessuna dote profetica sarebbe richiesta per prevedere le conseguenze che potrebbero essere toccate con mano. […] Non infrequentemente, i fatti vengono spifferati a quelli il cui dovere è investigare, garantiti da loro, e l’approvazione delle misure è così assicurata. Se l’agente è sincero e non nasconde nulla, tutto va bene. Se usa mezzi nefasti con successo, la fonte e il flusso della legislazione sono inquinati. Legalizzare il traffico di un tale servizio aprirebbe una porta nella quale frodi e falsità non mancherebbero di entrare e si farebbero sentire ad ogni punto di accesso. Inviterebbe la loro presenza e offrirebbe loro un premio.

Infine, la Corte Suprema tornò a pronunciarsi sul contingent fee un’ultima vol- ta nel 1906, nel caso Hazelton v. Sheckels33, confermando i propri precedenti. In

questo caso, il signor Hazelton aveva stipulato con il dante causa della signora Sheckels – un tale di nome Miller, nel frattempo defunto – un contratto in base al quale Miller s’impegnava a versargli un compenso qualora egli fosse riuscito a vendere un terreno entro la legislatura in corso a un determinato prezzo.

Una parte della consideration di questo contratto, però, consisteva nel fatto che, prima e dopo la sua stipulazione, Hazelton aveva e avrebbe portato il terreno all’at- tenzione delle apposite commissioni del Congresso come sito adatto per costruirvi i propri archivi.

Hazelton riuscì a far acquistare dal Congresso il terreno in questione entro il termine convenuto e per una somma anche superiore a quella pattuita, ma Miller non gli versò il compenso che avevano concordato. Hazelton agì quindi in giudizio per vedersi riconosciuto il diritto di tale compenso, ma la sua domanda fu respinta in primo grado e in appello, e infine la Corte Suprema confermò il rigetto, ritenendo anche in questo caso il contratto non azionabile perché contrario a public policy.

Infatti i servizi che costituivano una parziale consideration del contratto riguar- davano l’approvazione di atti normativi in materie di pubblico interesse, rispetto alle quali nessuna delle due parti poteva avanzare alcuna pretesa: ma un accordo basato su tale consideration fu ritenuto nullo in Providence; per di più, la previsio- ne di un compenso di fatto in forma di contingent fee, essendo esso previsto solo in caso di stipulazione della vendita al Congresso, aggravava l’inaccettabile tendenza del contratto in questione ad indurre “improprie sollecitazioni”, come stabilito dalla Corte in Marshall.

Dopo questa serie di casi, la Corte Suprema non si è più occupata specificamen- te di contingent fee lobbying. La ferma condanna del lobbying in quanto tale che emerge da questa giurisprudenza verrà, come emerge da quanto detto, completa- mente rivista, complice anche un cambiamento di fatto dell’attività di lobbying, che da pratica dal confine incerto con la corruzione diviene sempre più un mestiere altamente qualificato e una professione di tutto rispetto.

Parallelamente, anche le corti federali inferiori e le corti statali hanno modifica- to il proprio giudizio nei confronti del lobbying, seguendo la Corte Suprema nell’e- voluzione ora accennata. Tuttavia, per quanto riguarda specificamente il contingent

fee lobbying, in assenza di nuovi pronunciamenti della Corte Suprema federale,

tali corti hanno continuato a vietare questa pratica, ritenendola contraria a public

policy, citando i precedenti ora considerati limitatamente alla parte in cui dichiara-

vano illegittimo il contingent fee, e invece adeguandosi al nuovo corso della Corte Suprema federale relativamente al lobbying in quanto tale.

Tale mutamento di prospettiva è stato così macroscopico che ci si interroga addirittura sulla perdurante sostenibilità costituzionale del divieto di clausole di 33 202 U.S. 71 (1906).

contingent fee nei contratti di lobbying, sia esso stabilito su base giurisprudenzia-

le o ai sensi delle molte leggi statali che vietano espressamente il contingent fee

lobbying34.

Continua invece a non essere prevista nella legislazione federale una norma che vieti in modo generale di ricorrere a questa pratica. Nel corso degli ultimi decenni, sono stati presentati al Congresso diversi progetti di legge per introdurre un simi- le divieto generalizzato, ma nessuno è giunto sino alla conversione in legge, per cui attualmente gli unici divieti generali sono contenuti in leggi dei singoli Stati. Ciononostante, anche nella legislazione federale esistono alcune previsioni setto- riali che indirettamente incidono sulla possibilità o meno di concludere contratti di

contingent fee lobbying.

Una prima disposizione rilevante al riguardo è la Section 41 USC 254(a)35, che,

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