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Il lobbying (e il finanziamento elettorale) come diritto individuale, nel quadro della First Amendment jurisprudence e della storia di questa

Il lobbying negli Usa come espressione di libertà individuale

1. Il lobbying (e il finanziamento elettorale) come diritto individuale, nel quadro della First Amendment jurisprudence e della storia di questa

disposizione

L’analisi svolta nel corso dei Capitoli precedenti consente di trarre alcune con- clusioni sul modo in cui il lobbying viene inteso nel diritto costituzionale ame- ricano, e su quali siano di conseguenza i confini entro i quali si può muovere la disciplina di questa attività.

Iniziando dal primo punto, la caratteristica essenziale del lobbying in terra ame- ricana è che esso è stato ricostruito concettualmente dalla giurisprudenza costitu- zionale come una forma di manifestazione del pensiero, nella fattispecie una forma di espressione volta a convincere un decisore pubblico. Come si è visto, infatti, il diritto di rivolgere petizioni al governo, presente in svariate altre Costituzioni, negli Stati Uniti è stato ricompreso nell’alveo del Primo Emendamento, che protegge in via generale la libertà di espressione o free speech, ed è stato interpretato come comprensivo di quella specifica attività che definiamo lobbying.

Questo percorso argomentativo fa sì che la protezione accordata al lobbying, tra- mite la clausola costituzionale sul diritto di petizione, sia quella che viene garantita alle altre libertà del Primo Emendamento, e in particolare alla freedom of speech. Come evidenziato dalla stessa collocazione in apertura del Bill of Rights, la libertà di parola gode infatti negli Stati Uniti di una protezione estremamente forte, che la porta a prevalere nel bilanciamento con altri principi costituzionali.

Ciò è dovuto in massimo grado a una serie di ragioni storiche, che hanno a che fare con le origini costituzionali dell’ordinamento americano e con il modo in cui si arrivò al Bill of Rights. Al riguardo, merita ricordare il pensiero di uno dei maggiori costituzionalisti americani viventi, grande studioso del Primo Emendamento e del- la sua storia, ovvero Akhil Reed Amar. In un suo scritto1, presentato per la prima

volta nel corso di un’importante lezione da lui tenuta nel 20092, Amar espone la

sua tesi secondo cui la costituzione americana proteggeva la libertà di espressione anche prima del Primo Emendamento. Vale la pena ripercorrere passo passo la sua argomentazione.

Amar prende le mosse dall’analisi degli argomenti tradizionali elaborati nel pensiero filosofico-giuridico statunitense per fondare un’amplissima tutela della li- bertà di parola. Tali argomenti sono in particolare: l’analisi della giurisprudenza; la struttura del testo costituzionale; la sua storia; il dato testuale.

Quanto ai precedenti giurisprudenziali, essi forniscono certamente una forte 1 A.R. Amar, How America’s Constitution Affirmed Freedom of Speech Even Before the

First Amendment, 38 Cap. U. L. Rev. 503 (2010).

2 Di cui diedi conto nel mio La libertà di espressione negli Stati Uniti d’America, Riv.

base alla libertà di parola, in particolare in materia politica, cioè con riferimento al diritto costituzionale di criticare il governo, anche quando ciò si traduca in vee- menti invettive o in discorsi non accurati nell’aderenza ai fatti: questo principio fu affermato nel modo più deciso nel celeberrimo caso New York Times v. Sullivan3,

in cui la Corte Suprema sostenne l’esistenza di un «profondo impegno nazionale al principio che il dibattito su questioni pubbliche debba essere privo di inibizioni, ro- busto, e completamente aperto e che può ben includere veementi, caustici e talvolta spiacevolmente taglienti attacchi al governo e ai pubblici funzionari»: addirittura, tale principio può valere in caso di affermazioni false frutto di colpevole negligen- za, tanta è l’importanza di consentire ai cittadini la più ampia critica possibile del governo. In un altro caso, Brandenburg v. Ohio4, la Corte giunse a considerare

protetta dal Primo Emendamento perfino la pubblica difesa di un atto di violenza illegale, non considerandola punibile salvo soltanto il caso in cui «tale difesa fosse diretta a incitare o produrre imminenti azioni illegali e fosse probabile che incitasse o producesse tali azioni».

Amar osserva però che, se oggi certamente la giurisprudenza è consolidata nel senso descritto (e la sequenza di casi in materia di finanziamento elettorale di cui ho dato conto al Capitolo III è estremamente significativa in tal senso), in realtà risale solo al 1925 il primo caso in cui la Corte affermò che le garanzie del Primo Emendamento si applicavano non solo a livello federale, ma anche a livello dei singoli stati, per il tramite della clausola del “due process” nel Quattordicesimo Emendamento (il riferimento è a Gitlow v. People of State of New York5). Nei

primi decenni del XX secolo, inoltre, la Corte aveva considerato legittime alcune forme di penetrante censura da parte del governo e di soppressione della liberà di parola dei cittadini. Occorre quindi considerare anche gli altri argomenti.

Quello relativo alla struttura del sistema costituzionale statunitense è che le ele- zioni non sarebbero più libere, e il popolo non sarebbe più sovrano, se gli eletti avessero la possibilità di mettersi al riparo dalle critiche degli sfidanti, approvando leggi che ne limitino la libertà di critica. Perciò gli eletti non hanno alcun potere di imporre ai cittadini cosa (non) dire o cosa (non) pensare in materia politica.

Quanto all’argomento storico, esso fa riferimento al dibattito sulla ratifica della Costituzione federale, in cui molti fautori della ratifica del nuovo testo da parte delle tredici colonie (i cd. federalisti) tentarono di rassicurare gli oppositori (gli anti-fede- ralisti) insistendo sul fatto che il nuovo governo federale non avrebbe avuto alcun potere espresso, applicabile in via generale, di censurare o fornire autorizzazioni alla stampa. E pochi anni dopo, quando era ormai stato approvato il Bill of Rights, con- tenente appunto come prima disposizione il Primo Emendamento a garanzia della 3 376 U.S. 254 (1964).

4 395 U.S. 444 (1969). 5 268 U.S. 652 (1925).

libertà di parola e di stampa, James Madison, padre della patria americano e coautore del Federalist con Hamilton e Jay, ne spiegò il principio sottostante in questi termini: nella forma di governo degli Stati Uniti, fondata sulla sovranità popolare, «il potere censorio è del popolo sul governo, e non del governo sul popolo».

Infine, anche la lettera del testo costituzionale è particolarmente significativa, dal momento che esso fornisce espressa protezione alla libertà di “parola” (speech). Amar osserva che l’uso del termine “speech” è particolarmente significativo, dal momento che esso figurava già nel testo originario della Costituzione, all’Articolo I, Sezione 6, nella clausola che tutela «any Speech or Debate in either House». In questa prospettiva, prosegue il ragionamento di Amar, si nota come la “libertà di parola” del Primo Emendamento abbia anch’essa al centro il discorso politico: è uno strumento per ricordare che negli Stati Uniti il sovrano è il popolo, non il Congresso. Il più alto Parlamento degli Usa – il più autorevole luogo di discussione – si estende oltre i muri del Campidoglio. In base alla clausola dello “Speech and

Debate”, i membri del Congresso possono criticare i propri avversari politici rima-

nendo liberi da censure provenienti dall’esterno; simmetricamente, in base all’altra clausola della Costituzione sulla libertà di espressione (il Primo Emendamento), i loro avversari possono criticare gli attuali Congressmen liberi da censura prove- niente da dentro il Congresso. Questa ampia simmetria è la profonda intuizione del celebre caso, già ricordato, New York Times v. Sullivan.

Completata questa analisi, Amar considera però un possibile argomento ag- giuntivo rispetto a quelli tradizionali, che ha ad oggetto il processo storico in cui la Costituzione fu approvata e stabilita (enacted) dal popolo degli Stati Uniti alla fine del diciottesimo secolo: Amar lo definisce “The Argument from Enactment”. Il punto di partenza è stata la considerazione di un’“affascinante” parola del Primo Emendamento, che pure non viene quasi mai notata: l’articolo “the” (la libertà di parola). Similmente a quanto si osserva a proposito del verbo “riconosce” nell’art. 2 della Costituzione italiana, che starebbe ad indicare che i diritti fondamentali, in quanto riconosciuti dalla Costituzione, sono ad essa logicamente e storicamente preesistenti, allo stesso modo il Primo Emendamento non pretende di creare un nuovo diritto, ma piuttosto di “riconoscere” (recognize) qualcosa di preesisten- te: apparentemente, quindi, “la” libertà di espressione precede perfino il Primo Emendamento.

Amar si domanda come ciò sia possibile, osservando che in effetti il common

law inglese del 1700 non riconosceva un ampio diritto per le persone comuni di

rimproverare i propri signori sovrani in Parlamento, né le tredici colonie, o perfino i tredici stati nel pieno della Guerra di Rivoluzione, riconoscevano ufficialmente o garantivano di fatto una libertà di espressione così vasta come sarebbe stata ricono- sciuta in casi successivi, come Sullivan e Brandenburg.

Amar ricorda che la Costituzione degli Usa venne alla luce attraverso una serie di approvazioni successive. Nel decisivo anno che seguì la rivelazione del testo

di Costituzione proposto dalla Convenzione di Filadelfia, i cittadini su e giù per il continente americano approvarono quella proposta facendola diventare legge, esat- tamente come i legislatori potrebbero approvare una legge. Proprio come le parole che si trovano nella Costituzione, così le procedure di approvazione che diedero vita al documento sono ricche di significato, e si prestano all’interpretazione. Gli americani nel biennio 1787-88 esercitarono una libertà di espressione «rimarche- volmente robusta, completamente aperta, virtualmente priva di inibizioni» nel va- lutare il testo di Costituzione proposto da coloro che lo avevano redatto a Filadelfia. La storia del procedimento di approvazione, dunque, rafforza fortemente gli argomenti logici e strutturali a sostegno della libertà costituzionale di manifesta- zione del pensiero. Di fatto, la Costituzione nacque in una terra inondata di di- scussioni (“awash with speech”), attraverso un processo che abbondava di dialoghi caratterizzati dalla massima libertà, compresi molti discorsi fortemente critici dei governanti e delle istituzioni esistenti, nel contesto di una straordinaria fioritura di «discorsi, indirizzi, sermoni, preghiere, brindisi, encomi, argomenti, contro-argo- menti, invettive, insulti, esagerazioni, errori, accuse, smentite, reclami, invettive, diatribe, dibattiti, suppliche, profezie, allegorie, analisi, opinioni, petizioni, appelli, assemblee, deliberazioni, disquisizioni, saggi, opuscoli, libri, trattati, lettere, pezzi satirici, battute, giochi di parole, poesie, canzoni, cartoni animati». Inoltre, anche se gran parte dei dibattiti si svolsero prima delle convenzioni statali di ratifica, le convenzioni stesse furono luoghi di discussione per eccellenza.

Gli americani, prosegue Amar, compresero la portata di ciò che stavano realiz- zando mentre la stavano realizzando, «gioendo della rigogliosa libertà di espres-

sione» che si manifestava davanti ai loro occhi e orecchie per opera della loro

bocche e mani. Ne sono prova alcune significative parole pronunciate dal futuro giudice della Corte Suprema James Wilson: in particolare, all’inizio della conven- zione di Filadelfia, Wilson osservò che il potere supremo, assoluto e incontrollabile risiede nel popolo, che possiede il controllo sulle costituzioni, e queste non erano solo regole teoriche: «noi, in questo momento, parliamo e deliberiamo sotto la loro immediata e benigna influenza».

In questo modo, il costituzionalismo americano, sia nella teoria sia nella prati- ca, ruppe bruscamente col costituzionalismo inglese “à la Blackstone”. Infatti, in Inghilterra, era il Parlamento, non i cittadini, ad essere sovrano, e i cittadini non godevano in fatto o in diritto di un’ampia libertà di criticare i titolari delle cariche o il governo nel suo complesso. Come spiegò Blackstone, la libertà di stampa in Inghilterra significava solo che l’attività della stampa era libera da forme di licenza statale e altre forme di restrizioni preventive o di censura precedente alla pubbli- cazione. Ma nell’Inghilterra della fine del decennio 1780, se uno criticava a mezzo stampa potenti uomini o istituzioni, era esposto – sia in teoria sia in pratica – a sanzioni penali successive alla pubblicazione e ad un obbligo di risarcimento dei danni da responsabilità civile.

In un celebre pamphlet composto in Virginia durante l’amministrazione Adams, in cui si contestava duramente la costituzionalità dei famigerati Aliens and Sedition

Acts del 1798, Madison affermò che andava rispettata la prassi, diffusa probabil-

mente in ogni stato dell’Unione, per cui la stampa aveva sempre goduto della liber- tà di passare al vaglio i meriti e le decisioni degli uomini pubblici, senza che essa fosse confinata negli stretti limiti del common law inglese: «su questa posizione la libertà di stampa si è erta; su questa fondazione ancora si regge».

Madison stesso corroborava poi la propria affermazione osservando che, senza una robusta libertà di espressione, forse la Costituzione stessa non sarebbe mai venuta alla luce: se le leggi «che proibivano ogni pubblicazione che potesse ledere la reputazione dei detentori del potere, o che potesse suscitare l’odio delle persone contro gli autori di decisioni ingiuste o dannose, fossero state applicate uniforme- mente contro la stampa, gli Stati Uniti non languirebbero oggi sotto le debolezze di una Confederazione malferma?». Del resto, nota ancora Amar, non va dimenticato il Nono Emendamento, che stabilisce che non tutti i diritti del popolo necessitano di venire espressamente elencati per godere di effettività giuridica: talvolta, deter- minati diritti, che il popolo aveva riconosciuto di fatto (in practice), erano in questo modo affermati molto meglio di come sarebbe stato possibile fare con qualsivoglia parola.

Amar propone dunque di considerare il riferimento a “this Constitution” nel Preambolo come il riferimento non solo a un testo, ma a un “atto” (deed), spie- gando che questo atto di approvazione e stabilimento fu uno straordinario atto di incorporazione nel nuovo ordinamento della libertà di parola, libertà che fu indis- solubilmente legata al processo stesso che portò all’instaurazione del nuovo ordine costituzionale.

In altri termini, Amar chiarisce che la sua tesi non è che la libertà di manifesta- zione del pensiero prevalse nei fatti in via generale negli Stati Uniti dopo la fine dell’era coloniale (al contrario, Amar ha ricordato come durante la Rivoluzione americana stessa furono represse delle manifestazioni di pensiero a favore del so- vrano inglese, c.d. lealiste), ma piuttosto che l’atto stesso di instaurazione del nuo- vo ordinamento costituzionale avvenne all’interno e attraverso un regime di libertà di parola totalmente esente da freni e virtualmente immune da ogni censura.

In conclusione, Amar osserva che il nuovo approccio da lui proposto è in realtà non completamente nuovo, essendo stato già proposto dai citati James Wilson e James Madison: suo intento è soprattutto riportarlo al centro dell’attenzione come merita. Infatti molti cittadini americani associano la libertà di espressione con il Primo Emendamento, ma è utile ricordare il modo in cui quell’Emendamento giun- se ad essere approvato: l’originario progetto di Filadelfia non conteneva alcuna garanzia esplicita della libertà di parola dei cittadini, né un modello di Bill of Rights simile a quello dei vari bill of rights già in vigore in diversi stati.

sto difetto, i federalisti ascoltarono e alcuni di loro ne furono convinti, cosicché iniziò ad emergere un generale consenso attorno all’idea che un Bill of Rights do- vesse essere aggiunto alla Costituzione, una volta che essa fosse entrata in vigore. Il testo oggi chiamato Bill of Rights e la sua parte chiamata Primo Emendamento si realizzarono così proprio come risultato dell’epico dibattito nazionale che Amar ri- evoca tanto sapientemente. Emerge quindi in modo evidentissimo come la garanzia testuale della libertà di parola sorse proprio grazie al fatto che la libertà di parola veniva già praticata nei fatti nelle tredici ex colonie: la realizzazione (enactment) testuale – il testo normativo – della libertà di parola nel 1789-91 seguì la realizza- zione effettiva – la pratica concreta – della libertà di parola nel 1787-88.

A me pare che questa approfondita ricostruzione permetta di comprendere quan- to profonde siano le radici della libertà di espressione e della sua tutela nell’ordina- mento costituzionale degli Stati Uniti. In un tale contesto, due attvità “moderne”6

come il lobbying e il finanziamento elettorale fanno davvero tutt’uno: le regole in entrambi i campi sono sempre scritte con il pensiero al Primo Emendamento e ai limiti che esso pone ai tentativi del governo di restringere le libertà da esso protette, foss’anche per le ragioni più condivisibili.

Così, la possibilità di esercitare pressioni su un decisore pubblico e quella di finanziare le campagne elettorali degli aspiranti tali godono di un amplissimo li- vello di tutela, oltre che per le ricordate ragioni storiche, anche nel quadro di una generale convinzione radicata nella giurisprudenza costituzionale americana che la parola, finché resta tale, non possa essenzialmente nuocere a nessuno, e che quindi non possa essere limitata l’opera di tentato convincimento di altre persone, siano esse privati cittadini o membri del “governo” (da intendersi sempre in senso lato).

Non è un caso, ad esempio, che gli Stati Uniti siano uno dei pochi ordinamenti al mondo a proteggere l’hate speech7, e non è un caso che vi sia stata elaborata una

giurisprudenza estremamente protettiva di forme di espressione anche potenzial- mente pericolose per l’ordine pubblico o la sicurezza pubblici. Tra libertà di espres- sione e esigenza di proteggere l’ordine democratico, anche di fronte a discorsi con- trari all’ordine costituito, la Corte Suprema nella gran parte dei casi, e certamente

6 È vero che, come ho scritto nell’Introduzione, a mio avviso il lobbying esiste da che esiste la politica, ma la politica come la intendiamo oggi esiste da che esiste lo Stato, che è per l’appunto un fenomeno storicamente moderno: v. ampiamente al riguardo L.M. Bassani, A. Mingardi, Dalla Polis allo Stato. Introduzione alla storia del pensiero politico, Giappichelli, Torino, 2015, in particolare cap. 2 (Lo Stato: la risposta moderna al problema

dell’ordine politico), 35-48.

7 I casi di riferimento sono Brandenburg v Ohio, 395 U.S. 444 (1969); Cohen v California, 403 U.S. 15 (1971); New York Times Co. v United States [il caso cosiddetto dei Pentagon

Papers], 403 U.S. 713 (1971); Texas v Johnson, 491 U.S. 397 (1989); ma soprattutto R.A.V. v City of St. Paul, 505 U.S. 377 (1992) e Virginia v Black, 538 U.S. 343 (2003).

in quelli più importanti8, ha scelto di proteggere la libertà di parola.

Da questo punto di vista, la libertà di espressione, nel quadro di quella costitu- zione liberale descritta così sapientemente da Giovanni Bognetti nel primo dei due volumi da lui dedicati all’ordinamento americano9, è vista in potenziale tensione

con l’ordine democratico, nel senso che il secondo può rivelarsi uno strumento di repressione della prima.

È quindi fondamentale consentire alle minoranze di esprimersi, anche se ciò comporta il dover tollerare discorsi di odio, intolleranza, o contrarietà all’ordine de- mocratico, perché è troppo importante che le minoranze siano tocquevillianamente protette, e il primo modo per farlo è quello di permettere loro di proteggersi da se stesse, facendo pressioni sull’opinione pubblica e soprattutto sui pubblici decisori per difendere le proprie ragioni.

Il governo, cioè, e in senso più ampio la democrazia, rimangono concepiti dalla giurisprudenza sulla libertà di espressione, all’interno della quale rientra quella esa- minata sul lobbying e sul finanziamento elettorale, come fonte di potenziali pericoli per la libertà individuale, che va quindi protetta.

Lobbying (insieme al finanziamento della politica) e democrazia sono dunque

su due lati opposti per il pensiero costituzionale americano: al di là della questione delle minoranze, la democrazia viene considerata per sua natura come fonte di li- miti per le libertà individuali. Pertanto il lobbying, insieme alla possibilità di finan- ziare il proprio candidato preferito, in quanto attività prodromica e strumentale alla protezione di tutte le altre libertà, deve poter essere praticato a propria volta con la più ampia libertà, e dunque con il minor numero di restrizioni possibile.

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