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Da “hippie” a sperimentatore: Kafka e la poesia anglofona del

Sulle spalle del gigante: i “kafkiani” dopo Kafka

3.2. La “lunga ombra” di Franz Kafka

3.2.7. Da “hippie” a sperimentatore: Kafka e la poesia anglofona del

Dopoguerra. Nel cercare di condensare le conseguenze planetarie dell’«effetto

Kafka», merita sicuramente una menzione la ricostruzione effettuata dallo storico della cultura Sander L. Gilman della ricezione di Kafka da parte dei poeti statunitensi e britannici intitolata Kafkas after Kafka: Anglophone Poetry and the Image of

Kafka.48

Gilman fa notare fin dal titolo la presenza di “più” Kafka, dando subito l’idea di quanto sia stata articolata e profonda la ricezione del praghese nel mondo anglofono. Il 9 agosto 1946, Hannah Arendt arriva addirittura a scrivere all’editore Salman

Schocken, parlando di Kafka: «Though during his lifetime he could not make a

decent living, he will now keep generations of intellectuals both gainfully employed and well-fed».49

48 SANDER L.GILMAN, Kafkas after Kafka: Anglophone Poetry and the Image of Kafka, in: BRUCE IRIS,MARK H.GELBER

(a cura di) Kafka after Kafka, Camden House, Rochester/New York 2015, pp. 199-218.

49 Hannah Arendt a Salman Schocken, 9 agosto 1946, Schocken Books Archive, New York, citato in: SANDER L.

GILMAN, Franz Kafka, Critical Lives, Reaktion Books, London 2005, p. 134. “Anche se in vita non riusciva a guadagnarsi da vivere [scrivendo], ora darà un lavoro ben remunerato e un abbondante sostentamento a generazioni di intellettuali”(mia traduzione).

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La “kafkamania” travolge i poeti di lingua inglese soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, prima in Gran Bretagna e subito dopo negli Stati Uniti. L’autore boemo viene subito percepito come l’impiegato profeta del crollo della civiltà e dell’avvento della moderna banalità. Un’immagine condivisa anche da grandi intellettuali

dell’epoca, tra cui Ezra Pound. Il caso vuole inoltre che, proprio negli anni in cui Kafka muore, negli Stati Uniti vi sia un poeta molto amato, anche lui dirigente di una società di assicurazione: nel 1921 Wallace Stevens (1879-1955) pubblica poesie in cui tematizza l’intreccio tra realtà e fantasia, e molto presto gli americani imparano a “intrecciare” Kafka a Stevens. Anche i mondi di Stevens, infatti, sono sinistri,

opprimenti e claustrofobici.

Ad ogni modo, il contributo di Stevens non è decisivo per l’affermazione di una “letteratura kafkiana” anglofona: l’evento determinante è in realtà costituito dalla traduzione delle opere di Kafka da parte dei coniugi Edwin e Willa Muir. Nel 1921 i due si trasferiscono a Praga. Dopo la Prima guerra mondiale, il tedesco è visto dagli inglesi come una lingua “non più pericolosa”, ricca di possibilità innovative e contesto di una nuova avanguardia. I due coniugi cominciano a tradurre dal tedesco,

divenendo tra i primi traduttori letterari professionisti: negli anni successivi

volgeranno in inglese opere di Gerhart Hauptmann, Heinrich Mann, Scholem Asch e Hermann Broch. I Muir devono però la loro fama internazionale di traduttori proprio alle versioni delle opere di Franz Kafka. Nel 1930 viene pubblicato Das Schloß (The

Castle), nel 1933 la raccolta Beim Bau der Chinesischen Mauer (The Great Wall of China), nel 1937 Der Proceß (The Trial), nel 1938 Der Verschollene (Amerika) e nel

1948 In der Strafkolonie (In the Penal Colony).

Un fatto rilevante, che fa comprendere meglio l’importanza di Edwin Muir nel campo letterario britannico (subito dopo la guerra sarà anche presidente del British Council di Praga), sta non tanto nella sua attività di traduttore, quanto in quella di poeta scozzese di lingua inglese, una posizione che ricorda un po’ quella del Kafka

scrittore boemo di lingua tedesca e di origini ebraiche. Nella storia della ricezione di Kafka, le traduzioni “simboliste” dei Muir costituiscono il punto di partenza per una lunga e curiosa storia.

Nel 1946, lo scrittore mulatto Anatole Broyard, nato a New Orleans, si trasferisce a New York, dove comincia a scrivere romanzi e articoli di critica letteraria: sono gli

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anni in cui è popolarissimo Thomas Stearns Eliot, e Broyard cerca di identificare così la cultura alternativa:

a time when Kafka was the rage, as were the Abstract Expressionists and revisionism in psychoanalysis. […] we read all kinds of books, there were only a handful of writer who were our uncles, our family. For me, it was Kafka, Wallace Stevens, D.H. Lawrence, and Céline. These were the books I liked, the books I read […] Seeing how young I was, everyone gave me advice […] But above all, at any cost, I must get Kafka. Kafka was as popular in the Village at that time as Dickens had been in Victorian London. But his books were very difficult to find – they must have been printed in very small editions – and people would rush in wild-eyed, almost foaming at the mouth, willing to pay anything for Kafka.

un’epoca in cui Kafka era lo sballo, così come gli espressionisti astratti e il revisionismo in psicanalisi […] leggevamo qualsiasi genere di libri, c’erano solo una manciata di scrittori che erano nostri zii, la nostra famiglia. Per me c’era Kafka, Wallace Stevens, D.H. Lawrence e Céline. Erano questi i libri che mi piacevano, i libri che leggevo […] Vedendomi così giovane, tutti mi davano consigli […] ma soprattutto, a ogni costo, io dovevo avere Kafka. All’epoca Kafka era popolare a Greenwich Village come lo era stato Dickens nella Londra

vittoriana. Però i suoi libri erano difficilissimi da trovare – dovevano essere stati stampati in edizioni molto limitate – e la gente si accalcava, con lo sguardo assatanato, quasi con la bava alla bocca, disposta a pagare qualsiasi prezzo, per Kafka. 50

Nel 1941 Alfred Knopf, il più grande editore di letteratura dell’epoca, pubblica la traduzione di Das Schloß dei Muir, e Kafka diventa un autore della controcultura: la traduzione inglese risente un po’ dell’esistenzialismo francese e anche delle

ispirazioni junghiane di Edwin Muir. A proposito di esistenzialismo, l’immagine di Kafka viene molto influenzata anche dall’immagine che ne dà Camus, che ne

50 ANATOLE BROYARD, Kafka was the Rage: A Greenwich Village Memoir, Vintage Books, New York 1997, p. 3, 30-

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sottolinea l’assoluta assenza di speranza e perfetto “illustratore” dell’assurdità dell’esistenza.

Quello che spopola nei movimenti di controcultura newyorkese del Dopoguerra è quindi un Kafka “anglo-franco-scozzese”. Un Kafka che, negli Stati Uniti del periodo, deve dividere la fama di autore della controcultura con Hermann Hesse, che rimarrà sempre l’esponente più “commerciale”, mentre Kafka verrà sempre visto come il profeta poetico, seppure più difficile, tanto che Das Schloß manterrà sempre il suo grandissimo valore per gli esponenti letterari più illustri del movimento, come William Burroughs e Allen Ginsberg. È sulla West Coast che Kafka diventa un’importante figura anche per i poeti, tanto che Lawrence Ferlinghetti scrive nella raccolta A

Coney Island of the Mind, del 1958:

Kafka’s Castle stands above the world like a last bastille

of the Mystery of Existence Its blind approaches baffle us Steep paths

plunge nowhere from it Roads radiate into air like the labyrinth wires of a telephone central thru which all calls are infinitely untraceable Up there

it is heavenly weather Souls dance undressed together

and like loiterers on the fringes of a fair we ogle the unobtainable imagined mystery

Yet away around on the far side like the stage door of a circus tent

130 is a wide wide vent in the battlements

where even elephants waltz thru

Il castello di Kafka si erge sopra il mondo come un’ultima bastiglia

del Mistero dell’Esistenza

I suoi ciechi accessi ci ingannano ripidi sentieri

si tuffano da lì nel nulla Strade si irradiano nell’aria come i fili labirinto

di una centrale telefonica

attraverso cui tutte le chiamate sono infinitamente irrintracciabili

Lassù

c’è un tempo paradisiaco Anime danzano svestite insieme

e come fannulloni ai margini di una fiera occhieggiamo l’inottenibile immaginato mistero

Eppure lontano attorno al lato opposto

come la porta di servizio di un tendone da circo c’è uno spiraglio tra le merlature

dove anche gli elefanti passano ballano il valzer.51

Kafka si ritrova nel cuore del canone hippie: il poeta tedesco-americano Charles Bukowski (1920-1994), ispirato ma estraneo al movimento beat, scrive nel 1972 la

51 LAWRENCE FERLINGHETTI, A Coney Island of the Mind, New Directions, New York 1958, pp. 30-31. Traduzione di

Andrea Peverelli in http://noxinfecta.wixsite.com/kerberos/single-post/2015/05/20/For-Poets-with-love- Lawrence-Ferlinghetti-e-il-nucleo-della-Beat-Generation-di-Andrea-Peverelli, ultimo accesso 13 agosto 2019.

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poesia Born to Lose, in cui viene menzionato Kafka, che ora appare come il ribelle, l’angelo beat.

A questo fenomeno si aggiunge anche la controcultura “ebraica”, rappresentata in primo luogo dal poeta ebreo, originario di New Orleans e trapiantato a New York, Delmore Schwartz (1913-1966), che si era costruito una fama come cantore delle sensibilità del ceto medio di origine ebraica, ma faceva parte comunque della cultura hippie “elevata”: l’opera più significativa e più “kafkiana” di Schwartz è il racconto In

Dreams Begin Responsibilities,52 nel quale un giovane assiste a un film che si rivela

essere il racconto del matrimonio fallito dei propri genitori.

In inglese, e nello specifico negli Stati Uniti, l’aggettivo “kafkaesque” compare per la prima volta nel 1947 sulle pagine della rivista “The New Yorker”, la pubblicazione più seguita dagli intellettuali, allorché Edmund Wilson, nel recensire la traduzione

dell’autobiografia dell’artista tedesco George Grosz, scriveva: «a Kafkaesque

nightmare of blind alleys, covert persecution, and a plague of stinking fish».53 È

curioso come Kafka verrà preso, un po’ più tardi, come punto di riferimento anche dalle fasce della controcultura di tendenze antisemite, rappresentate per esempio dal poeta e scrittore Everett LeRoi Jones noto, dopo la morte di Malcolm X e la propria conversione all’Islam, con lo pseudonimo di Amiri Baraka (1934-2014).

In Gran Bretagna le cose vanno diversamente: se nelle città statunitensi Kafka era “hippie”, a Londra la cantante pop Marianne Faithfull, parlando degli anni Sessanta, scrive:

[…] the names of Sartre, and Simone de Beauvoir, Céline, Camus and Kafka were in the air. I repeated their ineffable names like a catechism. I devoured papers for every scrap of hipness and outrage I could find […] I tried to understand Sartre and Camus and Kafka, but I liked Céline and Simone de Beauvoir.

52 Del racconto esiste una traduzione italiana: DELMORE SCHWARTZ, Nei sogni cominciano le responsabilità e altri

racconti, Serra e Riva, Milano 1990.

53 EDMUND WILSON, BOOKS: Stephen Spender and George Grosz on Germany, “The New Yorker”, 4 gennaio 1947.

132 I nomi di Sartre, e quelli di Simone de Beauvoir, Céline, Camus e Kafka erano

nell’aria. Ripetevo quei loro nomi ineffabili come un catechismo. Divoravo scritti in cerca di qualsiasi briciola di cultura alternativa e di scandalo […] cercavo di capire Sartre e Camus e Kafka, ma a me piacevano Céline e Simone de Beauvoir.54

È già evidente che la figura di Kafka, al di qua dell’oceano, abbia assunto tratti leggermente diversi: lo scrittore praghese compare anche nel poema di Ted Hughes (1930-1998) intitolato Kafka Writes e contenuto nella raccolta Wodwo, del 1967:

And he is an owl […]

He is a man in hopeless feathers.

Ed è un gufo […]

È un uomo coperto di piume disperate55

Nella raccolta Wodwo, Hughes tematizza l’incapacità di comprensione dell’uomo di fronte all’universo, evocando un mondo fatto non solo di pennuti, ma anche di insetti troppo grandi. In Gran Bretagna Kafka diventa un canone poetico, e non c’è più un “duello” Kafka-Hesse. Il significato della “figura Kafka” è più profondo, non più il “ribelle” della beat generation americana.

Nonostante le difficoltà ovvie che derivano da un’associazione tra Kafka e la poesia, occorre dire che Ted Hughes è una delle figure più importanti della ricezione

britannica di Kafka in ambito poetico: l’esperienza più straziante del poeta è sicuramente il suicidio della moglie Sylvia Plath, poetessa che aveva subìto una canonizzazione, da parte dei movimenti femministi, non meno rilevante di quella di

54 MARIANNE FAITHFULL,DAVID DALTON, Faithfull: An Autobiography, Penguin, London 1995, p. 20. Mia traduzione. 55 TED HUGHES, Wodwo, Faber&Faber, London 1967, p. 175. Mia traduzione.

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Kafka tra gli “hippie”. Poco prima di morire, Hughes pubblica le sue Birthday Letters, una raccolta che comprende poesie scritte per il compleanno di Sylvia Plath: in uno dei componimenti, ricordando la moglie, scrive:

Your typewriter,

your alarm clock, your new sentence Tortured you, a cruelty computer Of agony niceties, daily afresh – Every letter a needle, as in Kafka La tua macchina da scrivere, la tua sveglia, la tua nuova frase

Tu torturata, un computer della crudeltà

Di sottigliezze tormentose, ogni giorno da capo – Ogni lettera uno spillo, come in Kafka.56

Kafka, in questo caso, viene ripreso come simbolo del tormento dello scrivere, e del tormento di una convivenza tra scrittori.

Un altro elemento molto sottolineato dell’opera di Kafka, nei decenni successivi, e tanto in Gran Bretagna quanto negli Stati Uniti, è quello della naturalezza della sua scrittura: all’inizio degli anni Novanta, il poeta Stephen Dunn (1939), che vincerà il Premio Pulitzer nel 2001, nella sua raccolta Landscape at the End of the Century, fa un riferimento ironico all’esposizione del 1984 sulla cultura mitteleuropea, che fece di Kafka il “nume tutelare” di un’epoca kafkiana, tuttavia quello che colpisce i poeti anglofoni è il Kafka dei Muir, il Kafka “simbolico”, e non l’autore in sé. la visione dello scrittore praghese come modello di scrittura è chiara quando Dunn spiega:

I found myself once again teaching Kafka’s “A Hunger Artist”, that wry parable about an artist who takes his art to the limit. Or is it Kafka’s elaborate pun about the starving artist? […] My favorite moment is when he has almost reached the

56 La poesia si intitola 9 Willow Street, in: PAUL HUGHES, Birthday Letters, Faber&Faber, London 1998, pp. 71-72

134 limit of his “artistry”, and is asked by the overseer, “Are you still fasting? When on earth do you mean to stop?” Kafka could have had the hunger artist say

something noble as his last words, but instead, after telling the overseer that he shouldn’t admire his fasting, and after being asked why, the hunger artist says, “Because I have to fast, I can’t help it”. And then adds, “Because I couldn’t find the food I liked. If I had found it, believe me, I should have made no fuss and stuffed myself like you or anyone else”. After his death, he’s replaced in the cage by a young, vital panther […] So, by temperament and taste, this artist, who apparently does not live in any other world, neither social nor political, acts as if his only choice is to be an Artist. In the freedom of his cage he’s safe to pursue his art because it’s his calling and nobody cares. In this case, his ambitiousness leads to his demise. There’s an obvious bitterness here, which Kafka’s sad life accounts for, but there’s a humor present too, which his life doesn’t account for, and which is his genius. I became aware, more than ever, that austerity would never be my ticket to the palace of art. And I wasn’t sure that excess would be either. The story had never seemed so personal – so confrontational, really.

Mi son ritrovato di nuovo a fare una lezione su Der Hungerkünstler di Kafka, quella stramba parabola su un artista che porta la sua arte al limite. Oppure è un gioco di parole complicato di Kafka sull’artista che muore di fame? […] Il mio momento preferito è quando lui ha quasi raggiunto il limite della sua “artisticità” e il sorvegliante gli chiede: “Tu digiuni ancora? Quando ti deciderai a smettere?” Kafka avrebbe potuto far dire al digiunatore, nelle sue ultime parole, qualcosa di nobile, invece, dopo aver detto al sorvegliante che non doveva ammirare il suo digiuno, e dopo che questo gli ha chiesto perché, il digiunatore dice: “Perché devo digiunare, non posso farne a meno”. E poi aggiunge: “Perché non riuscivo a trovare la pietanza che mi piacesse. Se l’avessi trovata, credimi, non avrei fatto tanto chiasso e mi sarei rimpinzato come te e tutti”. Dopo la sua morte, viene rimpiazzato nella gabbia da una giovane e vivace pantera […] Quindi, per

temperamento e per gusto, questo artista, che sembra non vivere in nessun altro mondo, né sociale né politico, agisce come se la sua unica scelta fosse quella di essere Artista. Nella libertà della sua gabbia può tranquillamente praticare la sua arte perché è la sua vocazione e non importa a nessuno. In questo caso, la sua ambizione lo porta alla fine. C’è un palese elemento di amarezza, qui, che la triste vita di Kafka ci racconta, ma c’è anche dell’umorismo, che la sua vita non ci racconta, ed è questo il suo genio. Mi sono reso conto più che mai che questa

135 austerità non sarebbe mai stato il mio biglietto per entrare nel palazzo dell’arte. E non sapevo nemmeno se lo sarebbe stato questo eccesso. Il racconto non è mai sembrato così personale… così provocatorio, in realtà.57

Gilman fa notare anche che, dopo il 2000, con la pubblicazione di nuove traduzioni che hanno “oscurato” il successo delle versioni dei Muir, alcuni giovani poeti hanno ripreso l’aspetto più “tedesco” di Kafka, dapprima velato dall’inglese delle traduzioni. Un esempio è quello di Karen An-hwei Lee (1973), poetessa e traduttrice cino-

americana di religione cristiana (autrice nel 2017 di un’opera dedicata a Kafka, parte in prosa e parte in poesia, intitolata Sonata in K58), che in una poesia del 2014

intitolata Kafka Erases His Father with Moonlight, si rivolge a Max Brod in questo modo:

Dear Max –

Confession. In a dream, I exchanged Hermann for moonlight.

Nein, not exchanged or replaced. Erased […]

Vater, vater,

I am only a child, I cried out to the moonlight

Lifting me single-handedly out of the waves. Moonlight was eine maschine.

Caro Max –

Confessione. In un sogno ho scambiato Hermann per il chiaro di luna.

Nein, non scambiato o sostituito. Cancellato […]

Vater, vater

Sono solo un bambino ho gridato al chiaro di luna

che mi tirava su, con una mano sola, fuori dalle onde.

57 STEPHEN DUNN, Art & Refuge, in “The American Poetry Review” 35, no. 5 (2006), pp. 24-25. Mia traduzione. 58 KAREN AN-HWEI LEE, Sonata in K, Ellipsis Press, Jackson Heights 2017.

136 Il chiaro di luna era eine maschine.59

Quello di Karen An-hwei Lee è sicuramente il progetto più estraniante, il tentativo di “calare” Kafka nel mondo anglofono in quanto autore tedesco, e non più canone letterario “senza patria”.

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