• Non ci sono risultati.

Il Dibattito sull’Impresa Sociale

Quando si parla di impresa sociale ci si rifà ad un vasto ed eterogeno range di definizioni. È frequente, infatti, all’interno del dibattito scientifico sul tema, ritenere il concetto di impresa sociale come un qualcosa di controverso e inafferrabile per una serie di motivi; innanzitutto, per le numerose forme organizzative che assume nei diversi contesti; in secundis, a causa della variabilità di contenuti e settori che attraversa con le proprie attività; infine, per la varietà di obiettivi che essa intende perseguire. Per la prima volta il concetto di impresa sociale venne utilizzato all’interno del dibattito italiano sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, per descrivere l’insieme di alcune nuove iniziative del privato sociale caratterizzate dall’assenza di finalità lucrative gestite da volontari, ma che per la prima volta si avvalsero di nuove modalità di azione. Infatti, una delle novità principali risiedeva nel fatto che queste iniziative del privato sociale oltre che essere rivolte all’erogazione diretta di servizi sociali furono orientate al coinvolgimento all’interno delle proprie attività produttive persone svantaggiate. Le forme giuridiche che queste organizzazioni assunsero coincidevano, comunque, in via principale con la forma cooperativa. Per l’introduzione di una norma dedicata a questo nuovo modo di produrre servizi sociali bisognerà attendere il 1991 con la Legge n. 381, attraverso la quale sono state riconosciute e normate le c.d. “cooperative sociali”. Quella fu una fase che decretò l’ingresso nel variegato mondo dell’imprenditoria sociale oltre che le cooperative anche le associazioni senza scopo di lucro, generando una rapida diffusione in tutta Europa di questo nuovo modo di fare imprenditoria e di agire in ambito sociale. Negli anni che vanno dal 1990 al 2000 vi fu una vera e propria esplosione del termine all’interno sia del dibattito scientifico, che in ambito legislativo. Tale rapida espansione è da ricondurre alla necessità, ormai divenuta impellente, di definire i confini del modo di intendere l’aggettivo sociale correlato a quello di impresa, a prescindere dai sistemi culturali che caratterizzano i vari paesi del mondo. Nascono network internazionali, centri di ricerca e think tank dedicati all’osservazione dell’ascesa del fenomeno dell’imprenditoria sociale. Una delle definizioni più complete che è la summa di un decennio di ricerche e che

50 potremmo utilizzare come punto di partenza per poi innestare la nostra riflessione basata sul rapporto tra imprenditoria sociale e governance urbana è quella a noi offerta, sul finire degli anni Novanta, dal network di ricerca EMES7 (Borzaga Defourny 2001; Defourny, Nyssens, 2008) e presentata da Carlo Borzaga (2010) mediante una rappresentazione che vede il concetto svilupparsi includendo due diverse linee interpretative, così come segue:

Tabella 1 Definizione Emes Network (Borzaga Defourney 2001; Defourney, Nissen 2008) proposta da Carlo Borzaga (2010) e dai noi presentata sottoforma di tabella.

7 EMES è una rete di ricerca di centri di ricerca universitari e singoli ricercatori sull'impresa sociale. Insieme, miriamo a costruire un corpus di conoscenze attorno ai nostri concetti di Social Enterprise: impresa sociale, economia sociale, economia di solidarietà, imprenditoria sociale tratto da https://emes.net/who-we-are/.

Dimensione economico

imprenditoriale Dimensione sociale

Produzione di beni e servizi in forma continuativa e professionale

Avere come specifico obiettivo quello di produrre benefici a favore della comunità nel suo insieme o di gruppi

svantaggiati

Un elevato grado di autonomia sia nella costituzione che nella gestione

Essere un’iniziativa collettiva, cioè promossa non da un singolo imprenditore, ma da un gruppo di

cittadini

L’assunzione da parte dei fondatori e dei proprietari di un livello significativo di rischio economico

Avere un governo affidato esclusivamente o prevalentemente a

portatori di interesse diversi dai proprietari del capitale;

La presenza accanto ai volontari o utenti, di un certo numero di

lavoratori retribuiti.

garantire una partecipazione ai processi decisionali allargata, in grado di coinvolgere tutti o quasi i gruppi

interessati all’attività;

Prevedere la non distribuibilità degli utili, o al più una distribuibilità limitata,

e quindi la loro assegnazione ad un fondo indivisibile tra proprietari, sia durante la vita dell’impresa che in caso

51 La definizione di impresa sociale che noi abbiamo presentato mediante la tabella n.1 per molti anni ha influenzato molti legislatori e studiosi. Come si può notare, essa non considera l’impresa sociale in base ai confini nazionali all’interno dei quali si sviluppa, ma bypassa le forme giuridiche previste dai singoli ordinamenti nazionali.

Simon Teasdale analizza, nel 2011, il dibattito scientifico contemporaneo sull’imprenditoria sociale, cercando di far emergere i motivi alla base della sua ascesa. Teasdale sostiene che, in una prima fase, il concetto di impresa sociale all’interno del dibattito accademico fosse considerato principalmente un concetto non legato ad alcun tipo di teoria ostacolando una piena comprensione dell’ampio range di modelli organizzativi della stessa (Lyon et al., 2010).

La necessità di andare oltre la mera conoscenza della varietà delle forme organizzative che costellano la famiglia dell’impresa sociale esponeva il concetto ad essere affrontato mediante una nuova prospettiva. Fu così che l’impresa sociale a partire dal primo decennio del ventunesimo secolo venne considerato un concetto analitico.

In particolare, fu associato al discorso neoliberale, volto a considerare il profilo dell’impresa sociale come se legato al concetto di business e come un elemento capace di produrre mutamento sociale, (Dey and Steyaert, 2010 in Teasdale 2011), divenendo una delle visioni più quotate all’interno del dibattito scientifico, quasi in maniera egemonica.

L’autore, Teasdale, critica il risultato della ricerca di Defourney e Nyssens (2010) che Borzaga utilizza per definirel’impresa sociale e della quale noi ci siamo serviti, poiché essi esplorano il concetto attraverso le diverse concezioni all’interno dell’accademia, ma non ci dicono nulla sul ruolo che essa ricopre all’interno di una dimensione di policy e nemmeno sul livello delle pratiche.

Teasdale ci propone una sua definizione, composita, che si serve di differenti visioni legate all’impresa sociale. Egli, la considera un’etichetta che viene applicata ad un vasto range di fenomeni che fanno riferimento:

- alle strategie di reperimento delle risorse da parte delle organizzazioni no profits (Dees 1998);

- alle organizzazioni di volontariato che erogano servizi pubblici (Di Domenico et al., 2009);

52 - ad organizzazioni controllate democraticamente che mescolano obiettivi sia sociali

che economici (Defourny e Nyssens, 2006);

- a modelli produttivi orientati al profitto operanti all’interno dei settori del welfare (Kanter e Purrington, 1998) oppure caratterizzati dall’avere una coscienza sociale (Harding, 2010);

- a imprese di comunità volte ad affrontare problemi sociali (Williams, 2007);

La definizione proposta da Borzaga e quella di Taesdale hanno in comune l’intersezione del piano imprenditoriale, legato ai modelli produttivi, con quello del raggiungimento degli obiettivi sociali.