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L’Italia e il modello di capitalismo mediterraneo

Gli assetti regolativi degli Stati risultano essere fortemente collegati ai modelli di capitalismo che si manifestano all’interno di essi. Nei paesi del sud Europa caratterizzati da modelli di mixed market economy rappresentabili attraverso il modello del capitalismo mediterraneo, risultano evidenti le difficoltà in tempi di austerity di risanare i mercati e di rafforzare gli outcomes pubblici relativi all’erogazione efficace dei servizi pubblici. Si comincia a parlare del modello di capitalismo mediterraneo (che trae origine anche dall’intuizione di Ferrera del 1996 di “welfare mediterraneo”) in seguito alla crisi economico-finanziaria del 2008. Fino a quel momento il dibattito scientifico si era prevalentemente concentrato su variabili micro di analisi dei modelli capitalistici nazionali rientrando nella prospettiva di indagine delle “Varieties of Capitalism” degli anni Duemila. Marino Regini (2016) sostiene che la principale delle ragioni per la quale non si è riusciti a inquadrare nel modo giusto i diversi modelli di capitalismo è che ci si è fino a quel momento concentrati sui modelli dei sistemi produttivi dei singoli Stati più che su variabili macroeconomiche che li accomunano e che quindi li hanno resi simili nelle reazioni e conseguenze legate alla crisi economica.

Il 2008 con la conseguente crisi dell’eurozona ha segnato per l’Europa uno spartiacque epocale. Non erano più le strutture produttive dei singoli paesi che hanno decretato la resistenza o meno all’urto con la crisi, ma variabili macro come lo sono ad esempio il debito pubblico, l’inflazione, i settori del PIL (ibidem, p. 26). Quindi da una prospettiva di analisi micro, basata sui modelli produttivi nazionali, si passa ad una prospettiva macro, legata al funzionamento dei diversi modelli capitalistici, basata sul lungo periodo. Le economie mediterranee possono essere considerate periferiche, ma anche “economie densamente regolate” (ibidem).

Per quanto riguarda il primo aspetto relativo quello della perifericità rispetto ai modelli economici egemoni dell’Eurozona Marino Regini cita Streeck (2015) che ha prototipizzato il modello capitalistico mediterraneo come segue:

- I livelli di crescita sono stimolati prevalentemente dalla domanda interna, sostenuta in alcuni casi dall’inflazione sorretta dal debito pubblico.

123 - Facilità per lo Stato di ottenere prestiti grazie all’inflazione e alla conseguente

svalutazione del debito pubblico accumulato.

- Sistema bancario nazionale pubblico o semi-pubblico.

Sostiene Streeck che un contesto di questo tipo sorregge una sorta di equilibrio tra classe operaia e imprenditoriale a favore di una maggiore stabilità dei mercati interna a scapito della competitività internazionale.

Invece, per quanto riguarda la seconda caratteristica individuata da Regini si scorge una similarità tra il modello mediterraneo e quelli delle economie egemoni per il fatto di essere tutte “economie densamente regolate da istituzioni politiche e sociali”. Ciò che accomuna questi paesi è, in particolare, il modello sociale europeo con welfare esteso, una rigida regolazione del mercato del lavoro con un forte ruolo dei sindacati nella contrattazione dei salari e delle condizioni di lavoro.

Inoltre, nel modello di capitalismo mediterraneo si ha che:

“La spesa pubblica è bassa nel settore delle politiche per l’innovazione, delle politiche del lavoro, soprattutto attive ma anche passive, delle politiche per la protezione sociale, e per l’istruzione. Tale basso livello di finanziamento costituisce una caratteristica «storica» di questo modello che negli ultimi anni è stata rafforzata dalla crescente ricerca della stabilità macroeconomica attraverso l’austerity, strategia che ha portato a una marcata riduzione della spesa pubblica. Tale riduzione è stata perseguita nei paesi mediterranei attraverso una agency che ha seguito la logica dei tagli lineari, e non attraverso una riorganizzazione della spesa mirata a una riduzione dei livelli complessivi ma volta a salvaguardare comunque alcuni settori strategici.

L’impatto della crisi, combinato con specifiche scelte di policy, ha perciò portato alla ulteriore riduzione delle politiche di stimolo alla crescita economica e delle politiche a sostegno dello sviluppo di settori ad elevata produttività. Nei paesi mediterranei non solo si è scelto di non spendere nei settori strategici, ma si è speso anche peggio: Grecia, Spagna e Italia sono tra i paesi che hanno una minore capacità di fare efficaci politiche per lo sviluppo, Grecia e Italia sono i paesi con una minore efficacia di riduzione del rischio di povertà e di esclusione, e l’Italia è il paese con le politiche che hanno la minore capacità di riduzione delle disparità di reddito. La capacità amministrativa di questi paesi rimane quindi molto debole”.(Burroni and Scalise, 2017, p.152).

124 I paesi europei che possono essere rappresentati dal modello del capitalismo mediterraneo sono: Italia, Grecia, Portogallo e Spagna. Burroni (2016) sintetizza il modello capitalistico mediterraneo attraverso la seguente ripartizione:

MERCATO DEL LAVORO

La lunga strada verso la flessibilità 1. Differenze di genere, età e territorio 2. Bassi tassi di occupazione

3. Basso investimento nelle politiche attive, moderato in quelle passive

4. Lunga stagione di riforme per la flessibilizzazione del mercato del lavoro 5. Ruolo delle organizzazioni internazionali 6. Crescita dell’occupazione ma con

trappola della precarietà

7. Elevata quota di lavoro flessibile non volontario

8. Riformismo incompleto (flessibilizzazione senza qualità del lavoro).

SISTEMA PRODUTTIVO, STATO E CREDITO

Governance e vincoli non benefici

1. Stato poco efficiente nella produzione di beni cllettivi

2. Importante ruolo delle piccole e medie imprese

3. Basso investimento in ricerca e sviluppo 4. Economia sommersa

5. Bassa produttività

6. Bassa diffusione delle attività dell’innovazione

7. Manifattura sviluppata, ma in difficoltà (Italia)

8. Ruolo delle banche locali

Sostenibilità finanziaria e nuovi rischi 1. Meccanismo della deroga

2. Modello prevalentemente occupazionale ma con elementi di universalismo 3. Continua a essere importante il ruolo

della famiglia

4. Bassa copertura per i nuovi rischi sociali 5. Modello dell’austerità permanente e

sostenibilità finanziaria

6. Debole intervento sui social investment 7. Riformismo incompleto (sostenibilità

finanziaria senza nuove protezioni). WELFARE

Decentramento e concertazione a fasi alterne 1. Sistemi a bassa istituzionalizzazione 2. Sali e scendi della concertazione sociale 3. Ruolo importante della contrattazione

collettiva

4. Moderato, ma in crescita, decentramento a livello di impresa

5. Accentuata moderazione salariale 6. Calo moderato della sindacalizzazione

RELAZIONI INDUSTRIALI

Figura 8 Riadattamento della fig. 4.7 Il capitalismo mediterraneo, in Burroni L. (2016), Capitalismi a confronto. Istituzioni e regolazione dell’economia nei paesi europei”, Il Mulino p. 224.

Fermo restando il quadro generale del modello capitalistico individuato da Burroni caratterizzante il caso italiano è d’obbligo mettere in evidenza che da un punto di vista interno il sistema economico è caratterizzato da un modello di sviluppo a due velocità, una del Nord e una del Sud Italia. Il divario che separa il Nord ed il Sud del paese per molto tempo è stata la lente attraverso la quale analizzare i differenziali esistenti nell’economia nazionale (De Vivo, 2009).

Il Mezzogiorno risulta essere storicamente il principale destinatario di interventi straordinari statali volti a colmare il gap con il resto del paese che tuttavia fino ai primi

Insicurezza senza competitività

125 anni Novanta (quando si verificò la più forte delle crisi del sistema politico italiano) si sono manifestati in tutta la loro inefficacia.

Dagli anni Sessanta il cambiamento strutturale verificatosi in Italia ha inciso positivamente dal punto di vista dell’attivazione dell’innovazione tecnologica nei settori economici più avanzati del Centro-nord (Capasso et al. 2008), ma grazie al forte intervento pubblico a favore dell’industrializzazione e la massiccia emigrazione interna il divario tra le due macro-aree del paese si ridusse sensibilmente.

La crisi del fordismo e della grande impresa degli anni Settanta, però, frenarono il “processo di riavvicinamento tra le due Italie” (De Vivo, 2009).

Sia l’Italia Centro-settentrionale, in particolare il triangolo industriale, sia l’Italia meridionale subirono il declino causato dalla congiuntura economica negativa. Tuttavia, non mutarono le strategie dello Stato nel risanamento economico e nell’attivazione di processi di sviluppo. Gli interventi straordinari proseguirono divenendo però strumento di ricerca del consenso politico, soprattutto nell’Italia meridionale. In questa fase si consolida il potere delle élites che mediano nei rapporti tra centro e periferie strutturando sistemi potere paralleli a quello dello Stato. Il decadimento oltre che economico si manifestò in tutta la sua portata anche a livello culturale, sociale ed etico.

A metà degli anni Novanta viene a essere introdotta una nuova politica: la programmazione negoziata per le aree in ritardo di sviluppo che si concentra sulla valorizzazione delle risorse endogene disponibili e inutilizzate (ibidem, p. 70).

Questo nuovo modo del Government di intervenire nell’attivazione di processi economici virtuosi questa volta va ad incidere sulle caratteristiche strutturali del contesto smuovendo le comunità locali alla partecipazione ed all’assunzione di responsabilità nei processi di sviluppo locale. La lezione che viene fuori da questi interventi di politica negoziata è che le variabili legate ad aspetti socio-istituzionali influiscono fortemente sui fattori economici.

Attualmente il settentrione d’Italia è caratterizzato da redditi più alti, tassi di occupazione femminile di gran lunga maggiore rispetto a quelli del meridione e maggiore quantità di imprese. Il sud nonostante i numerosi interventi multilivello risulta essere il territorio più fragile della nazione scontando il prezzo di decenni di mala amministrazione, di politiche di investimento economico- finanziarie errate oltre che di pratiche malaffare e corruzione.

126 Eppure, come sostiene Cassano, non bisogna incorrere in una delle trappole che non consentono di interpretare il dualismo italiano contemporaneo per il verso giusto. Il Sud non va considerato in senso patologico ed il Nord non è la sua cura. Il male più grande è quello che considera un unico modello di società giusto, di valore ed efficace.

Un altro errore in cui spesso si incorre è quello di considerare il Mezzogiorno come un monolite. Al contrario, vi sono profonde differenze tra le diverse aree, vi sono aree economicamente più dinamiche e aree più statiche, territori in cui vi è un alto indice di criminalità ed altri in cui la criminalità non è mai attecchita.

Inoltre, “non bisogna confondere gli stereotipi con le inchieste e le denunce il cui valore civile e di conoscenza della realtà sociale non può che essere riconosciuto (pensiamo ad esempio a Gomorra, Saviano 2006), ma che non possono divenire l’unica rappresentazione del Sud” (così parla Daniele Petrosino (p.147) a proposito di Sud e stereotipi).