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Teorie sul governo della città nello scenario della governance

1.1 Politiche Pubbliche e contesti urbani

1.1.4 Teorie sul governo della città nello scenario della governance

La tradizionale dicotomia government-governance e lo stare dell’uno nell’altro è uno dei temi più controversi e di complicata risoluzione del dibattito politologico contemporaneo se non altro per la riproposizione che emerge in ogni aspetto del relazionamento (Allegretti, 2006) che si manifesta tra società civile, in senso lato, e istituzioni.

I cambiamenti tettonici (Osborne e Brown, 2011) che stanno interessando le contemporanee liberal-democrazie di massa hanno introdotto nuovi problemi sociali e nuove forme di esclusione soprattutto laddove insiste una maggiore concentrazione di individui: le città.

Risulta interessante comprendere quali risorse urbane collettive possono essere considerate come elemento fondante nei processi di rigenerazione urbana in un’ottica di innovazione e inclusione sociale. Uno dei temi ricorrenti all’interno delle teorie urbane è quello della rigenerazione urbana.

La rigenerazione delle aree urbane svantaggiate occupa oggi un posto importante nell’agenda delle politiche urbane (Martì, Blanco, Parés, Subirats, 2007) poiché rappresenta uno dei possibili modi per far fronte e fornire risposte all’emergere di nuovi problemi sociali. Nel quadro dell’azione sociale la relazione tra attori sociali e spazi

30 urbani diviene un campo sempre più rilevante all’interno del quale si scontrano forti interessi materiali e simbolici, derivanti dalla ridefinizione da un lato dei valori immobiliari e dall’altro delle risorse materiali e immateriali dell’ambiente costruito (Vicari e Moulaert, 2009). Con le politiche ispirate alle logiche della rigenerazione urbana si sono dovute attivare forme di coordinamento inter-governamentale trasversali, di cooperazione publico-privata, di partecipazione civica (Blanco et al. 2009; Martì- Costa, Paés 2009).

La riqualificazione delle aree urbane dismesse è un’opportunità rara di destinare ad usi differenti, rispetto al passato, porzioni di territorio cittadino. Si tratta di interventi indirizzati sia a migliorare la qualità della vita, data la ricaduta finale dell'intervento sulla società locale, sia ad aumentare la competitività tra città in ambito globale (Bobbio, Dente, Morisi 1990). Senza entrare nel complesso sistema della rigenerazione urbana spaziale tout court ci concentreremo su quel tipo di rigenerazione urbana che si sviluppa in risposta alla trasformazione sociale delle comunità urbane.

Tornano in auge nel dibattito scientifico con al centro il tema dello spazio pubblico gli studi di Giddens e le sue teorizzazioni connesse ai processi di disembedding e di re- embedding. Questi fenomeni che conducono allo sviluppo di comunità di prossimità (nell’accezione weberiana, 1963), diretta o indiretta, spostando la riflessione sull’idea di luoghi e non-luoghi.

Da un lato la tecnologia fa sì che le relazioni di socializzazione nascano sulla rete, attraverso forme di disembedding dovute all’immaterialità di internet; dall’altro lato, la ricerca di soluzioni a bisogni sociali molto spesso richiede una sperimentazione fisica delle soluzioni, dunque, richiedendo forme di re-embedding delle relazioni, come avviene, per esempio nella sperimentazione di modelli di social street o di riqualificazione urbana/placemaking (Nuvolati 2014).

In quest’ultimo caso le soluzioni vengono costruite, proposte e ideate in rete e successivamente sperimentate all’interno di quartieri o di spazi urbani. Il luogo propulsore della crescita economica e dell’innovazione socio-culturale continua ad essere la città all’interno della quale si manifestano forme di coordinamento, relazione, scambio e organizzazione di corto raggio.

Tuttavia, la città integra sotto il profilo economico, ma allo stesso tempo dis-integra sul piano sociale e della comunità nei casi in cui forme di ingiustizia sociale e di disuguaglianza violino le condizioni minime della dignità umana (Fusco Girard, 2002). Negli ultimi due decenni le città sono state interessate da fenomeni di de- industrializzazione dovuti alle crisi economiche, si sono viste costrette ad affrontare

31 processi di ristrutturazione produttiva, alcune in maniera più risoluta, altre maggiormente afflitte dal decadimento e da una sorta di immobilismo.

Le politiche locali in particolare quelle di scala urbana nelle quali si sviluppano pratiche di rigenerazione urbana si rifanno alla logica degli interventi per aree anche se con ambizioni sempre maggiori.

Lo scopo di queste politiche è quello di migliorare lo spazio fisico, le infrastrutture, la mobilità, l’ambiente urbano, la coesione e la competitività, le dinamiche culturali e l’occupazione quindi in generale puntano a quei vettori immateriali che non si presentano come obiettivi principali nei progetti, ma piuttosto come catalizzatori (Galdini 2008). In tale contesto appare molto interessante l’aspetto di attivazione di processi di auto-aiuto in cui la partecipazione degli abitanti nella definizione e nello sviluppo dei progetti assume carattere strategico. Promuovere lo sviluppo locale significa affrontare il problema della qualità della vita urbana in un’ottica di integrazione fra interventi di tipo fisico (urbanistico e edilizio), sociale ed economico (ibidem).

La peculiarità di alcune esperienze sta nel radicamento della qualità degli spazi pubblici nella vita della comunità, piuttosto che nel considerare la qualità degli spazi come una dimensione rarefatta o distinta della vita sociale e dell’esperienza umana. Lo spazio acquista importanza in quanto fondamento per la realizzazione delle potenzialità individuali e collettive all’interno o al di là di esso (Sacchetti 2015). Tale concezione pone l’accento su alcuni interrogativi che si sollevano in riferimento alle potenzialità degli spazi in relazione all’azione individuale o sociale.

Se da un punto di vista sociologico la relazione spazio pubblico-azione sociale risulta essere un campo fertile per teorizzazioni e “ritorni” di modelli interpretativi in ambito politologico sembrano primeggiare le teorie al cui centro è ricorsivo il ruolo dell’economia che determina attori, alleanze e risorse.

Abbiamo trattato la dicotomia all’interno degli studi urbani che privilegiano approcci elitisti di analisi del potere o al contrario pluralisti e abbiamo presentato le teorie vicine alla c.d. “scelta razionale” presenteremo le tre teorie con al centro l’economia e gli effetti che essa produce all’interno del network urbano che interpretano, con i dovuti punti critici, l’attuale scenario urbano (Parker 2006):

1. La teoria dell’economia politica urbana; 2. La teoria della macchina di crescita urbana; 3. La teoria del regime urbano.

32 Rimane fuori la prospettiva istituzionale poiché utilizza le istituzioni come filtro all’analisi della città e del ruolo degli attori all’interno di essa invece che la business community.

1. Nella prima teoria riveste importanza primaria lo studio del comportamento umano, individuale o collettivo, al fine di conoscere il ruolo ricoperto dal Government all’interno delle arene di policy urbane. Considerando dunque, il Governo o lo Stato come articolazioni di forze e di processi socio-economici più ampi invece che come attori autonomi e indipendenti, la città viene analizzata, in questo filone di studi, alla luce delle opere di Karl Marx, mediante i rapporti tra produzione e merci, e di Friedrich Engels e dei suoi studi sulle “grandi città”(Parker 2006).

Le città perdono in tali studi il loro ruolo emblematico di società industriali avanzate configurandosi come sistemi frutto “dell’imperativo capitalistico” (Storper e Walker 1989). David Gordon, Michael Storper e Richard Walker, esponenti di questa teoria, sostenevano che i fattori determinanti della crescita urbana non riguardano i meccanismi allocativi del mercato, quanto, piuttosto, il lavoro e i bisogni localizzativi e infrastrutturali della produzione industriale. Ciò spiegherebbe, secondo gli autori, di economia di politica urbana lo spostamento delle aziende dalle città del Nord e dell’Est degli Stati Uniti verso le città del Sud e dell’Ovest sulla base della minor presenza sindacale all’interno di quest’ultime aree.

Alternativa, ma non in contrasto, a questo approccio Sandercock e Berry sostengono che le disuguaglianze delle condizioni di vita delle classi meno agiate all’interno delle città (in particolare la loro analisi si concentrò sulle città australiane) sono il frutto degli squilibri del mercato immobiliare nei processi di sviluppo. I due autori si interrogano sul “Chi ottiene cosa?” dal sistema di pianificazione urbana (Sandercock e Berry, 1983). Da queste due visioni dell’economia politica urbana emerge chiaramente un elemento comune: il paesaggio urbano è determinato dalle forze del capitale più che da fattori politici e sociali.

2. La teoria della macchina di crescita urbana è da ricondurre agli studi di Logan e Molotoch (1996). Essi ebbero l’intuizione di sostituire la domanda “Chi governa?” a quella “A quale scopo?” (ibidem 1996). Essi erano convinti sostenitori del fatto che a supporto delle iniziative a favore della crescita urbana vi siano coloro che vivono di rendita appartenenti più genericamente alla business community. Gli appartenenti a questa community hanno interesse alla crescita del valore delle proprietà e dei terreni per far aumentare le proprie rendite. Lo scenario di analisi di questi autori sono gli Stati Uniti

33 e le grandi città come Atlanta, Chicago e Las Vegas che hanno promosso la propria immagine come se fosse un marchio. In questa teoria secondo la critica mossa da Harding (1999) il ruolo del “politico” rimane nell’ombra ed è sottoutilizzato.

3. Infine, la teoria del regime urbano si concentra più che sulla business community sul ruolo giocato dalle coalizioni informali che influenzano le decisioni pubbliche. Elkin e Stone sono i principali esponenti di questa prospettiva analitica.La teoria del regime urbano è diversa dall’approccio della macchina di crescita per quanto riguarda il fatto che la prima parte dall’identificazione sia di regimi non diretti dal business (è il caso ad esempio dei regimi progressisti o delle coalizioni politiche basate sulla comunità) sia di regimi di mantenimento che puntano a conservare lo status quo” (Sites 2001 in Parker 2006).

Stoker (1995) sostiene che la teoria dei regimi urbani è utile nella misura in cui riesca ad allontanare da una visione del potere sociale intesa come controllo sociale a favore di una visione che consideri il potere espressione della produzione sociale.

Le teorie appena presentate propongono un’immagine del Government debole soprattutto in relazione alla gestione dello spazio nelle città.

Una trattazione a parte merita la prospettiva istituzionale poiché non tiene conto in maniera preminente dell’economia come avviene per le teorie appena illustrate, ma celebra il ritorno delle istituzioni come filtro di analisi dei sistemi politici.

La debolezza relativa del Government all’interno delle teorie appena enunciate, è una costante e per alcuni è un aspetto necessario per il pieno esercizio delle libertà politica (posizione più conservatrice all’interno dell’economia politica) grazie al mercato che rende possibile le scelte individuali e del business; per altri, (posizione radicale) lo Stato è al centro di conflitti di classe e riveste un ruolo passivo che riproduce forze produttive del capitalismo

Il ritorno delle istituzioni all’interno della teoria politica emerge in seno alle critiche avanzate alle teorie incentrate sui modelli economici della società. La teoria istituzionale affonda le proprie radici nella teoria sociologica di Max Weber e nella letteratura anglosassone questi studi vengono considerati neoweberiani mentre nella letteratura d’oltreoceano si parla di Managerialismo statale

L’autonomia dello Stato si fa evidente nelle parole di Gurr e King (1987, in Parker 2004) secondo i quali:

34 “gli scopi perseguiti dallo Stato moderno riguardo la città non sono

precipuamente quelli del capitale privato o dei movimenti sociali o di altri interessi interni dello Stato, né quelli del “welfare generale”. Sono invece gli interessi dello Stato, vale a dire i suoi interessi primari, a mantenere l’ordine pubblico e l’autorità sulle popolazioni urbane ad assicurare le entrate pubbliche, nonché gli interessi dei funzionari nel perseguimento dei loro fini programmatici riguardo al benessere urbano”.

Non va dimenticato, però, l’alto livello di complessità delle società urbane contemporanee, per cui non sempre è facile riconoscere il prevalere di una visione piuttosto che un’altra proprio perché lo Stato non si comporta sempre allo stesso modo. Tendono a modificarsi sia i rapporti interni alle arene di policy, sia i rapporti tra Stato e mercato, sia tra i diversi livelli di governo.