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Teorie sull’impresa sociale

Dopo aver inquadrato il concetto di impresa sociale all’interno del dibattito ed aver attinto a due delle principali proposte definitorie, derivanti una dalla scuola italiana e l’altra dal filone di studi inglese, ci addentreremo nell’osservazione dell’impresa sociale collegandola ai diversi modi di intenderla nei vari modelli di welfare europeo. Tuttavia, prima di vederne le specificazioni nazionali presenteremo le principali teorie che sorreggono il modello.

Proponiamo qui due filoni interpretativi principali legati al fenomeno dell’emersione delle imprese sociali: il primo filone interpretativo concentra l’attenzione sugli effetti dei fallimenti del mercato e ricorre più di frequente nella letteratura scientifica europea; il secondo, invece è maggiormente enfatizzato nella scuola americana ed è riconducibile alla visione legata ai casi di fallimento dello Stato.

Anche se le due teorie solitamente vengono considerate complementari esse portano avanti un discorso legato alla crisi di due entità fondamentali.

Il filone interpretativo legato all’approccio incentrato sugli effetti dei fallimenti del mercato fa aggio essenzialmente sulla visione secondo la quale la debolezza del mercato in alcune aree potrebbe essere un fattore incentivante per la nascita di imprese di comunità, di mutuo-aiuto o di forme cooperative di imprese sociali (Defourney e Nyssen, 2006; Spear 2001).

Per quanto riguarda, invece, l’approccio basato sui fallimenti dello Stato, si ha che l’impresa sociale nasce per dare risposte rispetto in seguito all’inefficienza dello Stato

53 che si compone dall’inefficienza burocratica e dall’inefficacia dell’erogazione di servizi pubblici da parte del Government (Dees, 2007 in Teasdale 2011).

Da queste macrocategorie teoriche discendono una serie di teorie che valorizzano e sviluppano l’uno piuttosto che l’altro approccio. Tuttavia, il considerare i due approcci antitetici esclude la possibilità che essi possano coesistere nel medesimo spazio, nel senso che può accadere che si possano verificare situazioni in cui sia lo Stato che il mercato falliscano.

Oltre a questi due macrofiloni interpretativi dell’ascesa dell’imprenditoria sociale vi sono altre tre chiavi di lettura del fenomeno sintetizzate da Teasdale (2011): la prima riguarda la dipendenza dalle risorse da parte dell’impresa sociale; la seconda, è incentrata sulle influenze determinate dal paradigma economico dominantela terza, è legata al fenomeno di fallimento del volontariato.

La prima teoria è quella della dipendenza dalle risorse. In “The External Control of Organizations” (2003) Pfeffer e Salancik sostengono la visione secondo la quale le organizzazioni, in generale, sono strettamente dipendenti dall’ambiente all’interno del quale esse operano anche dal punto di vista delle risorse.

Tuttavia, questo tipo di rapporto di dipendenza non è un semplice subire passivo, poiché esse con i loro interventi tentano di modificare e plasmare, secondo la propria visione, l’ambiente circostante per raggiungere i propri scopi.

Ci si trova con questo tipo di teoria all’interno di un approccio di tipo razionale, che vede l’organizzazione non-profit dipendente dal reddito derivante dal lavoro, poiché si trova a dover sopperire il venir meno dei fondi derivanti dal settore pubblico e dalla filantropia (Dees, 1998; Eikenberry, 2009 in Teasdale 2011).

Quindi l’impresa sociale in questo quadro teorico agisce come se fosse un attore razionale capace di avere il pieno controllo sui propri interventi e sulle finalità che si propone di perseguire.

L’agire razionale spinge l’imprenditore sociale a reagire al venir meno delle tradizionali fonti di finanziamento modificando il corso delle proprie azioni al fine di continuare a riprodursi nel tempo all’interno del sistema, nonostante i suoi mutamenti.

Il secondo tipo di teoria coincide con lo studio di Dart (2004) che applica la teoria istituzionale all’impresa sociale. Per Dart l’impresa sociale in un contesto caratterizzato dalla prevalenza del paradigma della “marketization” anche nel settore non-profit non agisce in modo razionale.

54 L’adozione di logiche di mercato all’interno del settore non-profit, per l’autore, non è una conseguenza di una visione che considera il mercato come la best way, ma è semplicemente la contaminazione automatica che si verifica tra il paradigma economico dominante e le contemporanee società di massa, che va quindi ad intaccare anche i modelli e i corsi di azione delle imprese sociali.

È più facile che l’impresa sociale adotti pratiche dominanti piuttosto che preservare una propria identità distinta andando incontro ad ostacoli e difficoltà (Di Maggio e Anheier, 1990).

Estremizzando la visione di Dart, quindi, tutte le organizzazioni non-profit dovrebbero agire come le imprese sociali se è vero che il paradigma che domina il contesto entro cui agiscono inevitabilmente spinge ad adottare comportamenti legati a logiche di mercato piuttosto che ad altri tipi di logiche.

Alcuni autori afferenti alla scuola inglese, considerando il forte ruolo del Government nello sviluppo e supporto dell’impresa sociale, sostengono che essa agisca come una longa manus dello Stato, secondo schemi simbiotici che non permettono il distinguere dell’uno dall’altra, per via della stretta dipendenza dagli schemi di finanziamento (Nicholls and Young 2008).

Legata alla teoria istituzionale dell’impresa sociale è la teoria del fallimento del volontariato, la terza di quelle proposte nello studio di Teasdale (2011). Salomon nel 1987 formulò questa teoria sostenendo che i ruoli ricoperti dalle imprese sociali e dallo Stato non debbano essere considerati alternativi, poiché nella sostanza essi agiscono nella totale complementarietà.

Infatti, il settore non- profit volge la propria azione alla risoluzione di problemi di rilevanza collettiva in ambito sociale, ma non ha la capacità di adempiere a questa missione con le sue solo forze. In questa impossibilità del Terzo Settore subentra lo Stato che supporta la sua azione iniettando nel processo di condivisione degli obiettivi risorse aggiuntive.

Tuttavia, il rischio insito in un modello che vede lo Stato che interviene per sostenere il Terzo settore nell’ambito dell’erogazione dei servizi di welfare condurrebbe nell’errore di considerare l’impresa sociale come un soggetto debole, “a creature of public funding” (Peattie and Morley, 2008 in Teasdlae 2011).

Dopo l’excursus sulle teorie sull’imprenditoria sociale introdurremo un altro modo di considerarla che è quello proposto da Emes network (Defourney e Nyssen, 2012) che ci

55 avvicina al rapporto che intercorre tra impresa sociale e innovazione sociale. Secondo gli studiosi che fanno parte di Emes Network, i filoni di studi sull’impresa sociale possono essere sintetizzati come segue:

1. la scuola di pensiero legata al concetto di “earned income”; 2. la scuola di pensiero dell’innovazione sociale.

Il primo filone di studi coincide con l’esaltazione del meccanismo secondo il quale le organizzazioni no profit tenderebbero a commercializzarsi (Young e Salamon 2002). In questo filone è possibile distinguere due prospettive dell’”earned income”, che caratterizzano due fasi distinte:

- quella del “commercial non-profit approach”; - quella della “mission-driven business approach”.

All’interno di quest’ultima prospettiva rientrano quelle organizzazioni che perseguono finalità sociali, anche se non fanno parte del settore no profit. Invece, nella prima prospettiva, rientrano quelle organizzazioni che svolgono attività diversificate, ma che comunque sono pienamente parte del settore no profit.

Emerson e Twersky (1996) hanno complicato il ragionamento su ciò che può essere considerato o meno impresa sociale e lo fanno introducendo una visione più ampia dei business methods che risultano essere necessari per raggiungere una maggiore efficacia dei propri interventi per le organizzazioni del settore sociale, e non si riferiscono esclusivamente all’ottenimento di maggiori possibilità di finanziamento.

Si è giunti a considerare anche attività intraprese da imprese a scopo di lucro che rispettano i parametri della responsabilità sociale per definire l’ormai ampio ambito delle imprese sociali (Boschee 1995, Austin 2000). Il problema che a questo punto si pone è quello di considerare o meno come impresa sociale ogni iniziativa che genera valore sociale nonostante si tratti di attività marginali rispetto alla strategia complessiva di un’impresa.

Muhammad Yunus (2010) sostiene che: “A social business is a non-loss, non-dividend company designed to address a social objective” (Yunus 2010 in Defourny e Nyssen 2012).

Tuttavia, Yunus fa riferimento a un modello che riguarda l’erogazione di beni e servizi in nuovi segmenti di mercato all’interno dei quali i costi sono interamente coperti dalle risorse del mercato, non vi sono sistemi statali di welfare nei paesi in cui si applica il modello della Grammen Bank.

56 La scuola dell’innovazione sociale enfatizza molto la spinta creativa schumpeteriana tipica dell’imprenditore (Young 1986), applicandola anche nel settore no profit, che consente di sperimentare nuove combinazioni trasponendola , in almeno uno dei seguenti modi:

- creare nuovi servizi;

- produrre maggiore qualità nei servizi; - introdurre nuovi metodi di produzione; - impiegare nuovi fattori di produzione; - servirsi di forme organizzative; - introdursi in nuovi mercati.

Dees nel 1998 propone una definizione di imprenditore sociale assegnandogli il ruolo di “agente del cambiamento” volto alla creazione di valore sociale:

“playing the role of change agents in the social sector by adopting a mission to create and sustain social value, recognising and relentlessly pursuing new opportunities to serve that mission, engaging in a process of continuous innovation, adaptation and learning, acting boldly without being limited by resources currently in hand, and finally exhibiting a heightened sense of accountability to the constituencies served and for the outcomes created".

Le divergenze tra la scuola dell’"innovazione sociale" e quella del "earned income" non sono così nette, nel senso che la creazione di business model orientati alla produzione di reddito non esclude che potrebbe essere una via per l’innovazione sociale.

Sono numerosi gli studi che confermano tale visione definita della “double bottom line” se non “triple bottom line” generativa di un “valore misto” espressione del bilanciamento tra obiettivi economici e sociali (Emerson 2006 in Defourney e Nyssen, 2012).