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Il dopo-Nietzsche e Heidegger

Nel documento Il ritorno dello gnosticismo (pdf) (pagine 190-192)

A cavallo tra i due secoli e nei primi decenni del Novecento la diagnosi della decadenza e della crisi dei valori, cioè la teorizzazione del nichilismo e la lungimirante previsione delle conseguenze che esso avrebbe innescato, fu l’aspetto dell’opera di Nietzsche che lo fece diventare un autore così letto da portarlo ad occupare nell’anima tedesca il posto che prima di lui era stato di Schopenhauer. Dopo di lui e grazie anche a lui la marea nichilistica iniziò in europa la sua fase montante. Schiere di artisti e letterati continuarono a guardare a lui come a un mito da emulare: Gide, Strindberg, von Hofmannsthal, George, Musil, Broch, Klages, Thomas e Heinrich Mann, Benn, Jünger sono i nomi che spiccano fra tanti altri. Anche in campo strettamente filosofico

pensatori dalle provenienze più diverse recepirono le sue dottrine: Vaihinger, Simmel, Spengler, Scheler, Jaspers, Heidegger e altri ancora.

La piena nichilistica si ebbe soprattutto quando le influenze del pensiero nietzscheano confluirono con gli esiti relativistici dello storicismo, ad opera soprattutto di Oswald Spengler. Secondo tale dottrina, le unità (civiltà o epoche) di cui la storia costituisce la successione sono unità organiche i cui elementi, necessariamente connessi, possono vivere solo nell'insieme; da cui la relatività dei valori, che sono collegati al periodo storico cui appartengono e perdono di senso al di fuori di esso.

Spengler mostra, sulle tracce di Nietzsche, una pronunciata inclinazione per la visione tragica del mondo. Tutto diviene, tutto trapassa, tutto è relativo: la massima che Spengler dichiarava di seguire è quella di considerare "il mondo come storia". Nella sua opera capitale Il tramonto dell’Occidente (1918-22), che ebbe subito un vasto successo di pubblico, la successione delle diverse civiltà, è determinata non da disegni e finalità razionali, ma dal ritmo vitale che le contraddistingue e che è analogo a quello dell’individuo: nascita, crescita, declino e morte. Le civiltà non si sviluppano e non si succedono edificandosi l’una sull’altra, ma ciascuna in forza del suo impulso iniziale e seguendo il proprio ritmo energetico, avendo in se stessa il principio e il compimento del suo ciclo vitale. Se è così, la storia universale non può avere uno sviluppo lineare,

ma avrà piuttosto un carattere ciclico. Dietro questa visione sta la convinzione, di provenienza nietzscheana, che alla vita, in quanto carattere comune di tutto ciò che diviene, si contrapponga lo spirito, cioè il principio stabilizzante della forma e della razionalità. Ora, secondo la prognosi spengleriana, la forza vitale della civiltà occidentale, soffocata dalle forme della cultura, della civilizzazione e della tecnica, sarebbe entrata nella fase del suo tramonto. Non per caso, ma per una ineluttabile necessità che sta scritta nei ritmi vitali della storia. E poiché ciò che è frutto di

necessità non concede la libertà di scegliere o rifiutare, a chi è preso nella ruota della storia universale non resta che accettare questo destino, perché, come Spengler si compiace di rammentare con Seneca: ducunt fata volentem, nolentem trahunt. Anziché a una scienza della storia Spengler aveva dato vita in tal modo a una metafisica del divenire dai toni cupi e apocalittici, che alimentò l’atmosfera di crisi in cui la cultura tedesca era effettivamente piombata dopo la prima guerra mondiale.

Anche Max Weber nel suo Etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5), sebbene salutava con favore il nuovo spirito della modernità, avvertiva però che la razionalizzazione scientifica aveva prodotto un irreversibile «disincanto»,

secolarizzando le vecchie visioni del mondo di origine mitologico-religiosa e

rimpiazzandole con una immagine «oggettiva». Egli appariva altresì consapevole del duro destino che la modernità riservava. Perduta l’innocenza delle origini, l’umanità che ha mangiato all’albero della conoscenza paga le sue conquiste con l’incapacità di fondare razionalmente valori ultimi e scelte di vita, con il "politeismo dei valori", il cui antagonismo è razionalmente indecidibile e porta alla loro svalutazione e infine all’indifferenza nei loro confronti. Di fronte a questa situazione egli faceva appello al senso di responsabilità dell’intellettuale e dello scienziato, e invitava a vivere

virilmente, senza profeti né redentori, il destino del relativismo e nichilismo della nostra epoca. A chi di questo non fosse stato capace, non rimaneva che il sacrificio dell’intelletto, e con esso il ritorno nelle braccia sempre misericordiosamente aperte delle sètte e dei profeti che spuntavano ovunque.

L'esistenzialismo è caratterizzato da tematiche collegate in vario modo al tema del nichilismo, a quello della crisi di valori e del disagio dell'uomo contemporaneo. Una categoria fondamentale del pensiero esistenziale è quella della finitudine, della limitazione dei poteri e delle capacità realizzative dell'uomo, del suo essere

condizionato da determinismi esterni, propri del mondo in cui è gettato, si connette con la crisi dell'ottimistica fiducia nei grandi sistemi di valori dell'Ottocento

(progresso, idea assoluta, utopismo politico). La categoria della possibilità è intesa dagli esistenzialisti soprattutto nel suo carattere minaccioso e paralizzante, che si può ricollegare alla dissoluzione nichilista di ogni sistema di valori che possa fornire all'uomo una guida nella scelta. La categoria del negativo, dello scacco, l'analisi degli aspetti negativi e distruttivi dell'esistenza umana nel mondo, presente nella riflessione filosofica come aspetto negativo delle possibilità esistenziali.

La prima grande figura dell'esistenzialismo contemporaneo è quella di Martin Heidegger (1889-1976). Nella sua filosofia il tema del nulla e il tema

delnichilismo compaiono entrambi, ma vanno distinti.

Non ci occuperemo qui del nulla, una categoria dell'esistenzialismo che sviluppa accenni della filosofia precedente, (la definizione hegeliana di divenire come unione di essere e nulla; la indicibilità del noumeno kantiano; il mondo della natura come non-io nell'idealismo dell'Ottocento) in un discorso molto difficile e complesso sul rapporto tra essenza ed esistenza, tra un progettare che trascende continuamente la realtà e la realtà stessa in cui gli esiti di tale progettare finiscono per ricadere e su altro ancora. Fra tutti coloro che nel Novecento si sono cimentati con Nietzsche, Martin Heidegger è

certamente colui che ha ingaggiato il confronto filosofico più serrato e profondo. Nel saggio La dottrina platonica della verità (1942), Nietzsche è considerato come colui che porta a compimento la tradizione metafisica iniziatasi con Platone concludendo la lunga interrogazione metafisica dell'Occidente su cosa sia l'ente con l'affermazione che «l’ente è volontà di potenza ed eterno ritorno dell’uguale».

L'incontro con Nietzsche segna l'ingresso nel pensiero di Heidegger del tema del nichilismo. L’interesse per Nietzsche si combina con l’attenzione per la negatività che contrassegna l’epoca moderna, e in generale la storia della metafisica e la storia stessa dell’essere. Nel corso su Schelling dell’estate 1936 Heidegger approfondisce il

fenomeno del nichilismo e il problema del suo superamento, riconoscendo a Nietzsche il merito di averlo sperimentato ed esplorato a fondo e di avere dato avvio al

contromovimento destinato a sbloccare l'impasse del pensiero occidentale.

Per quanto riguarda le soluzioni, Heidegger è vigile e guardingo: non vi sono punti archimedei su cui appoggiarsi, non ricette né strategie da seguire. Ai pelagiani del ventesimo secolo, convinti che la salvezza stia nelle loro mani, Heidegger oppone la sentenza: «Ormai soltanto un dio ci può salvare». Se mai un punto d’appoggio è possibile, esso sta in quell’eroismo del pensiero capace di pazientare, in attesa

dell’«altro inizio», nella sola disposizione in grado di corrispondere al destino epocale del nichilismo e della tecnica, cioè dell’epoca degli dèi fuggiti e del dio nuovo di là da venire: la Gelassenheit, l’atteggiamento pacato dell’«abbandono».

In questa posizione sembrano toccarsi e convivere due estremi incompatibili: un nichilismo radicale, da un lato, e l’abbandono alla visione ispirata, se non al

misticismo, dall’altro. La radicalizzazione del domandare filosofico, che tutto investe e tutto consuma, produce da un lato una accelerazione della dissoluzione, un

potenziamento del nichilismo. Dall’altro, nel compiersi di tale dissoluzione il pensiero si apre all’aspettativa del totalmente altro, a ciò che sta radicalmente al di là di quanto è stato dissolto. La decostruzione dei concetti e dei teoremi della filosofia tradizionale ha come risultato l’apertura alla problematica del sacro e del divino. Il domandare che Heidegger considera «la pietà del pensare» implica la messa in questione e la dissoluzione, ma al tempo stesso anche la ricerca e l’attesa: conduce a quel Nulla che è la purificazione estrema della finitudine e la spoglia di tutto per consentirle di

accedere al divino; porta a quel punto estremo che Meister Eckhart chiamava con le parole quasi blasfeme ricordate all’inizio il punto «dove l’angelo, la mosca e l’anima sono la stessa cosa». È un domandare che rade al suolo la metafisica per preparare l’avvento del «nuovo inizio».

Nel documento Il ritorno dello gnosticismo (pdf) (pagine 190-192)

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