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Il resoconto di una cerimonia teurgica finita non propriamente bene

Nel documento Il ritorno dello gnosticismo (pdf) (pagine 58-62)

VERIDICA ISTORIA DI UNA INVOCAZIONE MAGICA FATTA IN ROMA NEL GIORNO DELL'EQUINOZIO DI PRIMAVERA DEL 1927.

Quella notte, a differenza del Principe di Condé prima della battaglia di Rocroy, non dormii quasi affatto. Avevo bensì caricato la sveglia mettendone l'indice alle tre del mattino, ma non nutrivo soverchia fiducia in quell'antipatico impasto di molle e di ruote, sapendolo per esperienza capace di saltarsi a piè pari l'ora stabilita, salvo poi ad

accanirsi dodici ore più tardi in una interminabile ed intempestiva suonata. Perciò, dopo due ore di sonno più volte interrotto per consultar l'orologio, mi risvegliai di mia interiore iniziativa prima della sveglia la quale, anch'essa, è giusto riconoscerlo, fece puntualmente il suo dovere con mia relativa soddisfazione e con somma letizia, senza dubbio, dei miei vicini di camera. I quali, per altro, non meritavano troppi riguardi. Difatti, avevo iniziato le operazioni preliminari con l'ultimo plenilunio; e, per quanto non ne avessi certamente fatto parola, i miei vicini avevano subodorato qualche cosa di strano, e nella loro incomprensione si erano, naturalmente, ingegnati di mettermi tra le ruote quanti bastoni potevano. A dire il vero, non avevano solamente subodorato, ma avevano addirittura dovuto odorare gli svariati profumi che nonostante ogni mia precauzione emanavano dalla mia stanza per i suffumigi eseguiti nelle operazioni di rito; e, specialmente pei suffumigi di zolfo, si era permesso, il volgo profano, fin anco di protestare. Una sera poi attraverso il buco della serratura, che dimenticai di tappare, e tra mezzo una spessa nuvolaglia di fumi e profumi, fu intravisto un pazzo od un

ammattito, che, bianco incappato, faceva e diceva incomprensibili cose. E più ancora crebbe l'allarme quando il matto prese l'abitudine di uscire di casa tutte le notti verso le ore tre per ritornare a dormire verso le sei o le sette...

Quando la bufera infernale della sveglia ebbe finalmente requie, mi assorbii nelle consuete operazioni del rito ordinario, che non è ora il caso di riferire; e, terminate queste, fatta l'abluzione di rito, sorbito in fretta un caffè di caffè, mi vestii rapidamente per recarmi sul luogo prescelto e preparato per l'invocazione. Con cotesta razza di prossimo, difatti, non c'era neppure da pensare a proseguire le operazioni di rito nella mia camera. Come avrei potuto spiegare e giustificare gli eventuali e non occultabili fenomeni, movimenti di oggetti, rumori, voci, conversazioni? E come avrei potuto proseguire nell'intrapresa durante i giorni e le settimane seguenti? Meglio, molto meglio, farsi di notte tempo una passeggiata di venti minuti e recarsi nel sotterraneo nostro, dove per lo meno potevo esser sicuro che nessuno mi avrebbe veduto, sentito e disturbato.

In verità, l'entrata del mio sotterraneo non era troppo comoda; bisognava discendere nel sottosuolo e poi chinarsi a terra per attraversare carponi uno stretto passaggio appositamente praticato in un'antica muraglia spessa tre metri; ma, una volta percorso, strofinando la pancia per le terre e la schiena sul muro, lo stretto passo, si adiva in una serie di immense, alte e solitarie sale sotterranee. Anche di giorno regnava là sotto una profonda oscurità ed un silenzio solenne. Proprio in fondo e nel bel mezzo di una vastissima sala, discendendo ancora con un pendio di qualche metro, si entrava in un'ampia cripta, lunga una quindicina di metri ed alta più di due, isolata doppiamente dall'esterno, perfettamente oscura e silenziosa senza altra apertura che quella di entrata.

In fondo alla cripta sin dalla sera innanzi avevo predisposto quanto occorreva: la lampada che piena di puro olio di oliva pendeva già dal soffitto, il braciere al suo posto, l'orientazione determinata, segnati al suolo i punti dove andavano tracciati i caratteri magici, pronto e sottomano il carbone per il braciere e pel tracciamento dei segni, la spada giacente nel suo ripostiglio. La cripta era bensì priva di porta, ma poco

importava poiché nessuno poteva entrare nel sotterraneo. Del resto, anche se un

ipotetico ed inopportuno visitatore avesse potuto attraverso il sottopassaggio e il dedalo sotterraneo giungere sino alla vasta sala contenente la cripta, si sarebbe sicuramente fermato, vedendo apparire d'un tratto il riflesso del chiarore misterioso, che la lampada magica proiettava nel buio della sala attraverso l'entrata della cripta: perché cotesto chiarore aveva un carattere così spettrale da fare impressione anche su chi ne

agitarsi in un alone di fumo un bianco fantasma armato di spada?

Sin dalla vigilia, per non dimenticare nulla, avevo preparato quanto dovevo portare con me: la chiave del sotterraneo, una lampadina elettrica, i fiammiferi, il camice di puro lino, i profumi di rito ecc. Misi nelle tasche quanto ci entrava, feci un fagotto del

rimanente, ed uscii. La notte era fresca e serena; a quando a quando la luna ancor alta si faceva vedere attraverso le vie solitarie. Per una curiosa, rara e favorevole

combinazione, la luna piena era caduta proprio tre giorni prima, i tre giorni richiesti dalle operazioni preliminari, dimodoché potevo dare inizio alla invocazione proprio quando il sole entrava nel primo punto di Ariete, per terminarla nel primo plenilunio di primavera, coincidente questa volta col giorno di Pasqua.

Mi avviai di buon passo, si per vincere il fresco della notte, sì per non perder tempo giacché bisognava operare prima dell'alba. Roma taceva intorno ampiamente, solo qualche automobile e più di rado il rumore del tram notturno rompevano l'alto silenzio, imminente sopra le vie solitarie, il foro, i ruderi grandi di Roma. Del resto meno gente incontravo, e tante possibili seccature di meno. Con questi lumi di luna girare alle tre di notte per le vie di Roma con un fagotto sospetto sotto il braccio poteva anche dare nell'occhio. La prospettiva di incappare nella ronda notturna mi teneva un po' in ap- prensione, tanto più che ero sprovvisto della carta di identità. Figurarsi! Cosa avrei mai potuto dire per spiegare dove andavo, che facevo, e perché mai portavo in giro a

quell'ora impossibile, quel pacco di arnesi stravaganti?! Anche per questo affrettavo il passo: ancora una piazza da traversare, poi infilo quella stradetta, svolto la cantonata, e... e vado a sbattere proprio in faccia a due agenti ed un commissario. Ma benone! Per fortuna l'abitudine inveterata di dominarsi sempre funzionò automaticamente, non trasalii menomamente, non attrassi l'attenzione. Due minuti dopo entravo nel sotterraneo; gli ostacoli miserabili erano oramai sorpassati; almeno così mi pareva. La lampada, il braciere, la spada, il carbone, tutto stava al suo posto in bell'ordine. Non faceva freddo là sotto, ma l'umidità arrivava nelle ossa. I fiammiferi lasciati la sera prima erano diventati inservibili; meno male che avevo avuto il buon senso di portarmene un'altra scatola. Anche gli stoppini dei beccucci della lampada magica avevano sentito l'umidità e stentavano a prendere fuoco, ma poi, una volta avviate, le tre fiammelle funzionarono a meraviglia; non c'era e non ci poteva essere un filo di aria che le agitasse ed esse diffondevano intorno una luce calda, tranquilla e sufficiente allo scopo.

Accesa la lampada, passo al braciere. Lo prendo e lo porto fuori della cripta in luogo più acconcio ed alla luce di due candele mi accingo ad accendere il carbone.

La faccenda si presenta piuttosto seria; il carbone in poche ore si è talmente impregnato di umidità che non vuole saperne di accendersi; anche le sventole han risentito

l'umidità e son marce; ma soffia e risoffia, con la sventola e coi polmoni, finalmente quest'accidente di carbone si decide a prender fuoco; oramai non si tratta che di mantenerlo acceso. Ma intanto è trascorso più tempo di quanto avevo calcolato. Mi svesto rapidamente, indosso il camice, e discendo nella cripta portando con me il braciere ed avendo cura ogni tanto di ravvivarlo. Prendo i profumi di rito, e ne metto una manciatina sopra i carboni roventi; dal braciere si innalza immediatamente un fumo spesso e odoroso, ma non tale da offuscare notevolmente la luce delle fiammelle che seguitano a bruciare tranquillamente. E mentre il profumo del suffumigio seguita a spandersi intorno, prendo un carbone e traccio con esso per terra nei quattro punti cardinali i caratteri magici del rito, eppoi nel mezzo, sempre col carbone, traccio il segno dell'operazione. Sopra questo segno pongo il braciere da cui si eleva ancora qualche spira di fumo. Finalmente ci siamo. Non mi resta che gettare un altro po' di profumo sul fuoco e procedere alla invocazione.

Mi riconcentro un poco e ad un tratto, dinanzi alla mente sin allora assorbita dalle varie faccende e difficoltà materiali che ho riferito, si presenta netto il pensiero di quanto sto per tentare. Non tremo e non esito, ma non è forse eccessivo ardimento il mio, di alzare lo sguardo ancora terrestre tanto in alto, verso così elevata potenza della gerarchia solare? Si, certo, l'ardire è grande, ma è una ragione di più per agire risoluto e deciso. E subito, ché questo maledetto carbone ha giurato di farmi penare. Se si spegne addio suffumigi e addio invocazione; il tempo mi mancherebbe per riaccenderlo, né del resto posso cambiare l'ordine delle operazioni. Mi chino a terra, do di piglio alla sventola, soffio con tutta la forza dei polmoni: là, sia lode agli Dei, il fuoco riprende, e sprigiona luce e calore.

Butto un'altra manciata di profumo sul fuoco, prendo ritualmente la spada, inforco gli occhiali, prendo con la sinistra un rotolo di carta appositamente preparato in modo da poterlo svolgere usando una sola mano per leggere la lunga invocazione scrittavi su, mi volgo ad oriente, metto la spada in direzione del segno dell'operazione e ben conscio di quanto faccio comincio lentamente e fortemente a dire: "Potenza somma di ogni potenza ...". Constato con piacere che la luce della lampada mi permette di seguire a mio agio le parole dell'invocazione e che tutto sta procedendo. Ma che cosa succede? Che cosa è questo vento? Proprio ora si desta per agitar le fiammelle e disturbar la lettura!? Ed ora che accade? Non ci vedo più! Per tutti gli Dei dell'Olimpo, mi si sono appannati gli occhiali! Si capisce, ho fatto una sudata per via di quel maledetto

carbone, ed ora per la traspirazione, con questa umidità, avviene una precipitazione del vapore acqueo, le goccioline restano attaccate ai vetri degli occhiali grazie all'adesione, la spiegazione fisica del fenomeno non fa una grinza, ed io intanto... non ci vedo più. Bisognerebbe levarsi gli occhiali per ripulirli, ma dovrei interrompere l'operazione; eppoi non ho che due mani; la spada, Dio guardi, nonché a lasciarla, a smuoverla soltanto dalla sua direzione; e con la sinistra, impicciata dal rotolo di carta e da qualche altra coserella, impossibile. E d'altra parte come si fa a piantare' a metà, con queste potenze già scatenate? Vedi, vedi, come il vento solleva le spire del fumo ed agita le fiammellel Per tutti gli Iddii viventi, che a momenti si spegne la lampada!

In un batter d'occhio, per un miserabile piccolo ostacolo, la faccenda aveva preso una piega inquietante. Mi passò per la mente la recriminazione di Musolino (proto,

attenzione): Chiddu filu, chiddu filu! E pensare che quel brav'uomo di Socrate badava a dire che gli occhi dell'anima cominciano a vederci chiaro quando quelli del corpo cominciano a vederci scuro. Bella consolazione, non c'è che dire; ma intanto era meglio se non si appannavano gli occhiali. Qui la faccenda butta male. Ed ora, questa vertigine improvvisa? Questo malessere profondo? Attenzione, attenzione! Calma ed attenzione! E questo tremore? Come? Son tremiti di paura?! I nervi, la carne, han paura! Ebbi ad un tratto paura della paura, paura di non saper dominar la paura; ne intravidi le conseguenze, mi vidi stecchito, disteso esanime al suolo; e reagii prontamente. Mi ripresi netto, con un sùbito atto d'imperio, deciso a proseguire ad ogni costo e

comunque, sino alla fine. Frattanto l'appannatura si era in parte dileguata, e poiché mi bastava afferrare qualche parola dell'invocazione per aiutar la memoria, potei

proseguire sino alla fine con qualche stento. Ma nella lotta contro le meschine imprevedibili difficoltà materiali e con le complicazioni che ne erano derivate non avevo potuto concentrare debitamente le mie energie spirituali, e, forse per questa ragione, l'invocazione non sorti tutto l'atteso effetto.

Quando alle sei della mattina fui di ritorno a casa, tra il sonno e la stanchezza, non mi reggevo in piedi. E dormii... come il Principe di Condé.

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