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doxastovn, gignovmenon kai; ajpolluvmenon, ojvntwı de; oujdevpote ojvn (27d 6-28a 4) In sintesi il Simposio ci ripropone la stessa concezione dell’ambito delle apparenze e della

loro temporalità delineata nel Fedone e, come avevamo avuto modo di vedere nel corso della discussione, anche nella Repubblica, nel Parmenide e nel Timeo.

Prima di tornare alla dicotomia ontologica del Fedone per approfondire il legame esistente fra il crovnoı e le caratteristiche del gignovmenon, vogliamo approfittare ulteriormente di questo breve estratto dal discorso di Diotima per mettere in luce alcuni aspetti della speculazione platonica sotto i quali il concetto di Tempo gioca un ruolo tutt’altro che secondario, e che difficilmente avrebbero potuto emergere in maniera più chiara:

Innanzitutto ci troviamo di fronte ad una netta presa di posizione contro una concezione lineare del tempo: la convinzione secondo cui il crovnoı sarebbe teatro di un processo senza ritorno, irreversibile103, e connessa innnanzitutto all’opinione comune sulla base della quale

103

Queste componenti di unidirezionalità e di irreversibilità potrebbero affondare le loro radici nel mito

greco e successivamente in quelle forme sapienziali arcaiche, dove la distinzione fra mu~qoı e lovgoı non era ancora così netta. Volendo citare un caso emblematico, nella Teogonia di Esiodo, Krovnoı, dai “torti pensieri” (ajgkulovmhthı), divora i propri figli per il sospetto che uno di loro, e costui sarà Zeus, divenga il responsabile della sua profetizzata detronizzazione, ed una simile rappresentazione non mancherà di mostrare una certo influsso nelle riflessioni dello stesso Aristotele che nel libro ∆ della Fisica, 221a-b, dirà:

«[...] è necessario che tutte le cose che sono nel tempo, siano contenute dal tempo [...] Ed è pur necessario che subiscano qualche affezione da parte del tempo; e anche per questo noi siam soliti dire che il tempo logora e che tutto invecchia a causa del tempo e che a causa del tempo nasce l’oblìo, ma non diciamo affatto che a causa del tempo si impari o si diventi giovani e belli; giacché il tempo, di per sé, è piuttosto causa di corruzione [...]»,

e valenze analoghe vi attribuisce in 222b:

«Infatti è chiaro che il tempo potrà essere di per sé più causa di distruzione che di generazione, [...] mentre solo accidentalmente esso può esser causa della generazione e dell’essere.», in Aristotele. Opere complete, traduz. di A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 1982, vol. III. È solo uno degli innumerevoli esempi che si

129 la vita di un individuo avrebbe una durata compresa tra la nascita e la morte, essendo dunque segnata da un ‘inizio’ e da una ‘fine’, viene invalidata nel Simposio stesso grazie alla teoria dell’alternarsi generazionale dei viventi attraverso la riproduzione, che garantisce loro il conseguimento di una sorta di ‘immortalità biologica’:…hJ qnhth; fuvsiı zhtei kata; to; dunato;n ajeiv te eijnai kai; ajqavnatoı. duvnatai dh; tauvth/ movnon, th/ genevsei...(207d 1-3).

Ma la confutazione più drastica di una visione così ristretta del tempo e della vita avviene nel Fedone, a partire dallo sviluppo dell’argomento della generazione degli ejnantiva pravgmata dai loro contrari (cfr. 70c 4 sgg.), che già consente di guardare, da una parte, alla dimensione temporale da una prospettiva più ampia, quella ciclica, e dall’altra, di cominciare a pensare al vivere empirico come ad una alternanza incessante fra

bivobivoııııbivobivo

e

qavnatoı

qavnatoıqavnatoı

qavnatoı

. Sarà poi il procedere del ragionamento a svelare, in un crescendo che culminerà nella dimostrazione finale, i fondamenti ontologici di questa ciclicità: Socrate, agendo secondo i canoni più tipici del suo ejvlegcoı, accoglie le premesse dei propri interlocutori Simmia e Cebète secondo i quali il vivere si esaurirebbe in arco di tempo limitato, poiché essi assumono la morte come un opposto reale alla vita, mentre egli, convinto invece che l’Anima sia Immortale, sa bene che se ne debba ‘aver cura’,…

eijvper hJ yuch; ajqavnatoeijvper hJ yuch; ajqavnatoeijvper hJ yuch; ajqavnatoeijvper hJ yuch; ajqavnatoı, ı, ı, ı,

ejpimeleiva

ejpimeleivaejpimeleiva

ejpimeleivaı dh; deiı dh; deiı dh; deiı dh; deitai oujc uJpe;r toutai oujc uJpe;r toutai oujc uJpe;r toutai oujc uJpe;r tou

 

crovnoucrovnoucrovnou crovnou touvtou touvtou movnontouvtou touvtou movnonmovnonmovnon ejn wJejn wJejn wJejn wJ/ kalou/ kalou



/ kalou/ kalou



men to; men to; men to; men to;

zh

zhzh

zhn, ajll juJpe;r toun, ajll juJpe;r toun, ajll juJpe;r toun, ajll juJpe;r tou

 

pantovpantovı.pantovpantovı.ı...ı.......

(107c-2-4). Il Maestro arriva infatti progressivamente a mostrare che sia il vivere che il morire sensibili altro non sono che un’immagine ricorrente della vera Vita dell’Essere, dello

Zwh~ı eij~doıZwh~ı eij~doıZwh~ı eij~doıZwh~ı eij~doı

104

.

Secondariamente, il nostro brano del Simposio ci suggerisce l’esistenza di un legame, di notevole rilevanza gnoseologica, fra Tempo e linguaggio: il fatto che un oggetto sensibile si chiami “nello stesso modo”, e che quindi il nome sia tale da ‘perdurare nel Tempo’, non significa che ciò che quel nome denota abbia le medesime proprietà. Il linguaggio per

potrebbero fare a testimonianza del perdurare, anche se talvolta in una forma puramente rievocativa, della mentalità mitica anche negli ambiti genuinamente concettuali della filosofia greca.

104

Particolarmente acute e toccanti sulla sottile distinzione cui Platone ricorre costantemente fra i concetti di

bivoı bivoıbivoı

bivoı e zwhvzwhvzwhvzwhv, sono le riflessioni svolte da Karl Kerényi nell’introduzione al suo Dionysos. Urbild des

unzerstörbaren Lebens, 1994 (19761), specialmente a p. 13. Per quanto riguarda le finalità Dialettiche sia esplicite che implicite sottese alla coincidentia oppositorum che si compie nell’ultima prova sull’Immortalità, ci permettiamo di rinviare al nostro contributo Il carattere didattico dell’opposizione fra Vita e morte

130 Platone infatti non è per natura105, nel senso che esso non esprime le qualità del mondo sensibile, bensì, oltre a essere un indizio dell’esistenza di una Realtà che lo trascende, in quanto si articola esso stesso in immagini, cioè i singoli nomi, è piuttosto un indicatore della mera somiglianza esistente tra la cosa designata e l’Idea da cui essa trae la propria natura106. Detto altrimenti, il carattere ‘duraturo’ del nome dipende dalla Permanenza dell’Essere, solo in virtù della partecipazione con il quale la cosa riceve quel nome107. Che l’ojvnoma poi sia semplicemente un’immagine della cosa e non un suo duplicato108,

105

Che Platone non abbia una visione naturalistica del nome è cosa nota, e questa tesi è ampiamente dibattuta nel Cratilo, in cui Socrate, dopo aver affermato che ogni cosa che sia ritenuta degna di ricevere il predicato dell’Essere ha un’Essenza, formula, in 423e-424a, la seguente domanda:

«[...] se uno potesse proprio questo imitare di ogni cosa, la sua essenza, con lettere o con sillabe, non significherebbe costui di ciascuna cosa che cosa è? [...]», passando subito dopo, in 424a-b, a considerare se l’onomastico, cioè colui che detiene l'arte di dare i nomi, sia effettivamente riuscito, di una serie di parole prese in esame,

«[...] con le lettere e con le sillabe, a cogliere così il loro essere da imitarne l’essenza; o se invece no. », traduz. di L. Minio-Paluello, in Platone, op.cit., vol. II.

106

Per quanto riguarda il fatto che il linguaggio verbale possa disporre a congetturare l’esitenza delle Idee, si veda in particolare Repubblica, libro X, 596a; la constatazione che il nome poi, costituendo un’immagine

dell’Essere, esibisca la similitudine fra la cosa e l’Idea, è da vedere in connessione alla sussistenza di un legame partecipativo, per il quale oltre che allo stesso argomento della non composizione, possiamo limitarci a rinviare a Phaed. 102b ed a Parm. 130e-131a.

107

Dire che il preservarsi del nome nel Tempo derivi dalla modalità atemporale propria di ciò che È, equivale

a dire che non vi è in Platone un’autonomia del linguaggio rispetto piano Ideale di cui esso deve essere in grado di fornire la descrizione, ed in effetti è nell’esatto o inesatto rispecchiamento di tale Realtà, che il discorso si qualifica come vero o come falso; che questa indipendenza non si intraveda, è dovuto al fatto che la scaturigine del significato di una parola non è rintracciabile all’interno del linguaggio stesso, ovvero che non è

il parlare a fondare il senso, ma l’Essere. Traspare così anche nella teoria linguistica platonica quella profonda e sana compenetrazione fra piano logico, linguistico e ontologico, tipica di tutto il pensiero antico.

108

Una rigorosa giustificazione di questo modo di intendere entro quali limiti un’imitazione debba riuscire

simile alla cosa imitata, è rintracciabile sempre nel Cratilo, e per conseguire tale obiettivo Socrate sonda un itinerario teorico riassumibile nelle seguenti tappe: a) si è convenuto che il nome sia altro dalla cosa di cui esso è nome; b) si è ammesso che il nome sia un’imitazione della cosa, come lo è, nell’esempio, un disegno; c) entrambe queste imitazioni possono essere riferite e attribuite alle cose; d) questa attribuzione è possibile che sia giusta, “quella che riporti a una data cosa ciò che le conviene e le somiglia”, e vera (qualora si parli di nomi), oppure non giusta e falsa; e) vi sono dunque due modi di attribuire nomi alle cose, di cui l’uno viene chiamato “dire il vero”, l'altro “dire

131

E se ciò è esatto, dice Socrate nel dialogo in 431b-c,

«[...] ed è possibile attribuire non giustamente i nomi e non rendere ad ogni cosa il nome che le spetta, bensì talvolta quello che non le spetta, anche coi verbi potrà accadere questo stesso. E se è possibile così porre verbi e nomi, è necessario che anche discorsi; perché i discorsi, io credo, sono una continuazione di verbi e di nomi [...]». Ora, chi simulasse una cosa disegnandola, raffigurando di essa tutti i particolari che le si confanno,

renderebbe bella tale immagine, mentre chi aggiungesse o togliesse qualcosa, farebbe anch’egli un disegno, ma brutto. Avendo così istituito un parallelismo con il caso della pittura, in 431d-e, Socrate chiede:

«E chi riproduce con sillabe e lettere la essenza delle cose? Per la stessa ragione di prima, se colui rende a ogni cosa tutto ciò che le spetta, la imagine, cioè il nome, sarà bella; se invece, talora, trascuri alcunché anche piccolo, o altro vi aggiunga, sarà pur sempre una imagine, ma non bella. Cosicché alcuni nomi saranno fatti bene, ed altri male [...] ». Cratilo, fautore di una prospettiva naturalistica nell’intendere la correlazione tra nome e cosa, concede malvolentieri a Socrate che un atto imitativo possa anche concretizzarsi in una immagine brutta, giacché ciò implicherebbe l’ammissione dell'esistenza di nomi sbagliati, dati non bene, ribattendo perciò che qualora le lettere, elementi con cui vengono composti i nomi usufruendo dell’arte grammatica, vengano sottratte, aggiunte, o anche semplicemente spostate, quel nome non soltanto non potrebbe affatto considerarsi scritto, anzi, risulterebbe essere “subito un altro”, qualunque di tali alterazioni gli capitasse di subire. Merita a questo punto riportare per intero il ragionamento che sfocia nella soluzione platonica agli interrogativi sollevati intorno alla giustezza del nome, e dunque più in generale dell’immagine, e che si avvia con l’obiezione di Socrate:

«Bada però che non guardiamo male, guardando così, o Cratilo [...] Forse questo che tu dici può accadere a tutte le cose le quali è necessario siano o non siano per un numero: così, per esempio, lo stesso dieci, o qualunque altro numero tu voglia, se tu togli o aggiungi qualche cosa, ecco che diventa subito un altro. Ma di una qualità e di una imagine totale, bada che non sia proprio questa la giustezza, e che anzi, al contrario, non le bisogni affatto rendere tutto tale e quale ciò che ella imita, se ha da essere imagine. Considera se dico cosa ragionevole: potrebbero essere due cose queste, per esempio Cratilo e l’imagine di Cratilo, se un dio non solo raffigurasse il tuo colore e la tua forma, come fanno i pittori, ma anche tutto il tuo interno facesse quale tu hai, le stesse tue morbidezze riproducesse e gli stessi calori tuoi, e moto e anima e mente vi ponesse dentro come sono in te, e, in una parola, quali sono le cose che tu hai, altrettali e altrettante ne ponesse vicino a te? Avremmo, in tal caso, Cratilo e l’imagine di Cratilo, o addirittura due Cratili? Crat. Due Cratili mi sembra, o Socrate. Socr. Tu vedi dunque, o amico, che per la imagine bisogna cercare un’altra giustezza da quella che or ora dicevamo, e non presumere necessario che se qualche cosa le manchi o ci sia in più, non sia più imagine. Non ti accorgi quanto son lontane le imagini dall’aver quello stesso che hanno le cose di cui sono imagini? [...] E dunque sarebbe ridicolo, o Cratilo, quello che per cagion de’ nomi capiterebbe alle cose di cui sono nomi i nomi, se tutte codeste cose sotto tutti i rapporti fossero agguagliate a essi nomi. Doppie tutte le cose diventerebbero e nessuno potrebbe dire di nessuna di esse quale è la cosa, e quale il nome.» (432a-d).

Che pertanto il nome non sia un doppione della cosa, e che la Correttezza e la Bellezza dell’imitazione consistano anche nella Dissomiglianza fra l’immagine e ciò che essa ricalca, rappresentano due

acquisizioni di primaria utilità, soprattutto se venissero integrate opportunamente con gli spunti estrapolabili dalla teoria dell’eijkwvn sviluppata nel Sofista, per comprendere successivamente alcuni aspetti centrali del rapporto fra il Tempo e l’Eternità, anche nei dialoghi anteriori al Timeo.

132 simboleggia anzi perfettamente il sussistere di quel rapporto di Alterità in cui già avevamo visto trovare spazio, insieme, sia la Somiglianza che la Dissomiglianza fra il fenomeno e l’

eij~doı

. Anche in questo contesto il crovnoı esercita una funzione euristica di importanza primaria: mettendo allo scoperto il contrasto esistente fra il tratto durativo del nome e la disidentità di fondo dell’ente cui lo si attribuisce, il Tempo svela infatti che l’autentico

referente del

lovgoılovgoılovgoılovgoı

non è l’apparire sensibile bensì la realtà Ideale.

In terzo luogo nel frammento del discorso di Diotima si enuncia in maniera straordinariamente nitida un concetto chiave per comprendere la rappresentazione platonica dell’ambito visibile; la medesima conseguenza che già si lasciava trarre, nell’analizzare la dicotomia ontologica proposta nel Fedone, dalla definizione del sensibile in generale come oujdevpote kata; taujta; ejvcein, si inferisce dal Simposio nel quadro della relazione che il singolo fenomeno intesse esclusivamente con se stesso: se infatti dinanzi alla negazione complessiva dell’identità sensibile si fosse ancora voluta supporre la possibilità di conferire alle apparenze una sorta di identità ‘di secondo grado’, certamente non atemporale alla stregua di quella eidetica, ma intesa magari come ‘permanenza nel Tempo’, si vede bene come le parole della sacerdotessa di Mantinea stronchino un simile tentativo letteralmente sul nascere. È chiaro infatti che per il filosofo la

taujtovthtaujtovthtaujtovthtaujtovthıııı

sia una prerogativa riservata all’Essere eidetico, e che la massima concessione fatta agli oggetti di percezione sensoriale

sia quella dell’attribuzione di un’identità nella mera forma estenuata dell’apparenza, come conferma un brano proveniente dall’ottava deduzione del Parmenide In questa argomentazione, esaminando le conseguenze derivanti per gli altri dal non essere dell’Uno, quando, nonostante lo

eJvn

sia appunto

mh; ojvn

, si continui a pensarli come esistenti, ed in grado dunque di mantenere una sorta di apparente relazione reciproca; essi daranno l’illusione dell’unità, della molteplicità, della somiglianza e della dissomiglianza,

Oujkoun kai; oJvmoiav te kai; ajnovmoia dovxei eijnai…...

OiJ



on ejskiagrafhmevna ajpostavnti

me;n eJ;n pavnta fainovmena taujto;n faivnesqaitaujto;n faivnesqaitaujto;n faivnesqaitaujto;n faivnesqai peponqevnai kai; oJvmoia

eij



nai...Proselqovnti dev ge polla; kai; eJvtera kai; twkai; eJvtera kai; twkai; eJvtera kai; twkai; eJvtera kai; tw/ tou/ tou/ tou/ tou

 

eJtevrou fantavsmati eJtevrou fantavsmati eJtevrou fantavsmati eJtevrou fantavsmati

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