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ejkei~ pavnta oujsivaejkei~ pavnta oujsiva

ejkei~ pavnta oujsiva

di Plotino nell’Enneade II 6 (17) 1-, una modalità degradata di quella

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Delle indicazioni altrettanto chiare si trovano nel Filebo, in cui, in 12c 6-13a 5, l’indagine sulla natura del piacere si apre con la considerazione del suo carattere niente affatto ‘semplice’ bensì ‘poliforme’: questa

polimorfia non si esprime esclusivamente come dissomiglianza, ma anche come opposizione massima, esistente appunto all’interno di un unico genere,…gevnei mevn ejsti pagevnei mevn ejsti pagevnei mevn ejsti pagevnei mevn ejsti pan eJvn, ta; de; mevrh toin eJvn, ta; de; mevrh toin eJvn, ta; de; mevrh toin eJvn, ta; de; mevrh toiı mevresin ı mevresin ı mevresin ı mevresin au

auau

aujjjjtoutoutoutou ta; me;n ejnantiwvtata ajllhvta; me;n ejnantiwvtata ajllhvta; me;n ejnantiwvtata ajllhvta; me;n ejnantiwvtata ajllhvloiloiloiıııı,,,,loi ta; de; diaforovtht jejvconta murivan pou tugcavnei, kai; polla; eJvtera ouJvtwı ejvconq jeuJrhvsomen. (12e 7-13a 3).

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È interessante osservare come i rapporti fra i generi della Somiglianza e della Dissomiglianza siano

trasversali rispetto ai generi dell’Identico e del Diverso, nel senso che si può essere sia simili che dissimili tanto nell’Identità quanto nella Diversità (cfr. Parm. 139e 3-140b 5, 147b 6-148d 4); uno dei modi possibili di interazione fra oJmoiovthı ajnomoiovthı taujtovthı e eJterovthı, lo troviamo del resto già in azione nell’argomento dell’Anamnesi, in cui le molte cose uguali risultano sia simili che dissimili da quello eJteron

74 commistione originaria fra Essere e Non Essere Intelligibili in cui, essendo lo stesso

eJvteron

eidetico

ojvntwıojvn

, Tutto è oujsivaoujsivaoujsivaoujsiva68.

Se è lecito servirsi di un parallelismo liberamente ispirato a quella stessa metaforica della Luce impiegata da Platone nei libri V, VI e VII di Repubblica, proprio per delineare i tratti dell’ascesi filosofica dall’ambito delle apparenze a quello Ideale ed alla loro Sorgente (475e 9 sgg.), potremmo dire che le ombre non sono il risultato di una trasformazione della Luce in oscurità, bensì il prodotto del suo estenuarsi in ragione dell’aumento della distanza (ovvero dello spazio), dalla Sorgente luminosa: il buio dell’ombra non è a maggior ragione non essere di quanto lo sia il residuo di luce in essa ancora presente, in quanto l’ombra stessa non è per natura buio più di quanto non sia luce; detto dal punto di vista dell’Agente illuminante, verrebbe da supporre che sia la Luce medesima, se non la sua Fonte, ad avere in sé la Potenza della propria Negazione, Potenza che è parte integrante di lei stessa. E ciò sarebbe in linea sia con la concezione della dovxa e del doxastovn di Resp. V 476d 5 sgg., che con l’asserzione dell’identità fra mh; ojvn e eJvteron nel Sofista69.

Platone non si troverà dunque in discaccordo con se stesso quando, in quello stesso dialogo in cui potrebbe darci l’impressione che il suo atteggiamento nei confronti del mondo sensibile si faccia, per così dire, più benevolo a paragone di quello tenuto nel Fedone, e cioè il Timeo, chiamerà i fenomeni fantavsmata.

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In Plotino la discriminazione fra eJterovthı ‘sensibile’ ed Intelligibile è resa con poche ma essenziali parole, in Enneadi VI 3, 2 [28-31]:

te taujto;n ejkei~ kai; to; eJvteron eJno; te taujto;n ejkei~ kai; to; eJvteron eJno;te taujto;n ejkei~ kai; to; eJvteron eJno;

te taujto;n ejkei~ kai; to; eJvteron eJno;ıııı tou~ aujtou~ kai; eJtevrou ojvntotou~ aujtou~ kai; eJtevrou ojvntotou~ aujtou~ kai; eJtevrou ojvntotou~ aujtou~ kai; eJtevrou ojvntoıııı, ejnqau~ta de; eJvteron metalhvyei, kai; pro;ı ajvllo, kai; ti taujto;n kai; eJvteron, oujd jwJı ejkei~ eijvh ajvn ti ejn toi~ı uJstevroiı ti taujto;n kaiv ti eJvteron.

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Di una perfetta corrispondenza fra la distinzione delineata in Repubblica V fra Conoscenza ed opinione e la dicotomia fra gignovmenon ed ajei; ojvn del Proemio del Timeo parla W.K.C. Guthrie, in A History of Greek

Philosophy, 1975, p. 490. Personalmente ne condividiamo la posizione assunta anche nel sottolineare, sulla scia di Runciman e de Vogel innanzitutto, e contro Vlastos, che Platone abbia inteso, relativamente alla demarcazione fra dovxaston e gnwstovn, e le corrispettive dunavmeiı, sostenere l’esistenza di “degrees of

reality” (op.cit., pp. 493-498); se è certamente vero che il filosofo non ammette mescolanze di sorta fra le due facoltà, il che equivale ad escludere commistioni improbabili fra i loro ambiti oggettuali, questo non implica che non si possa passare dall’una all’altra (ibid., p. 492), e soprattutto che l’attribuzione di una consistenza

ontologica maggiore ai diversi livelli dell’Essere (basti pensare appunto all’analogia della Linea ed al mito della Caverna), non sia la diretta e logica conseguenza, di un rapporto di dipendenza causale (ibid. p, 497), che si fa, aggiungiamo noi, tanto più forte quanto più ci si avvicina alla “causa di tutte le cose”, pavntwn

75 La formula è tratta dal brano più bello ed incisivo quanto ad esprimere la negazione platonica di qualsiasi possibilità di immanenza dell’Idea nel sensibile:

«[…] e diciamo esser necessario che tutto quello che è si trovi in qualche luogo e occupi qualche spazio, e che quello, che non è né in terra né in qualche luogo del cielo, non è niente. Ma tutte queste cose, e altre sorelle di esse, anche nella natura vigile e veramente esistente (kai; peri; th;n ajvupnon kai; ajlhqw~ı fuvsin uJpavrcousan), noi per questo sognare non possiamo distinguerle appena svegliati e dire la verità (uJpo; tauvthı th~ı ojneirwvxewı ouj dunatoi; gignovmeqa ejgerqevnteı diorizovmenoi tajlhqe;ı levgein): che cioè l’immagine, perché neppure quello stesso, per cui fu generata, le appartiene, ed essa si muove sempre come fantasma di un altro, per questo conviene che si generi in altra cosa, attaccandosi in qualche modo all’esistenza, oppure che non sia proprio niente (wJı eijkovni mevn, ejpeivper oujd jaujto; tou~to ejf jwJ~/ gevgonen eJauth~ı ejstin, eJtevrou dev tinoı ajei; fevretai favntasma, dia; tau~ta ejn eJtevrw/ proshvkei tini; givgnesqai, oujsivaı aJmwsgevpwı ajntecomevnhn, hj; mhde;n to; paravpan aujth;n eij~nai,): invece a quello che esiste realmente la ragione esattamente vera soccorre, dimostrando che finché una cosa è una cosa, e un’altra è un’altra, nessuna delle due può esistere nell’altra in modo da essere insieme una cosa sola e due.» (52b 3-d 1) 70.

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Tradutione di Cesare Giarratano, in Platone. Opere complete, 1982, vol. VI. Platone ci familiarizza con l’espressione favntasma in due contesti ben precisi, in cui si ragiona di immagini delle immagini, e di imitazioni delle imitazioni, o copie di copie, e rispettivamente nella celebre analogia della linea di Resp. VI, in cui i fantavsmata sono appunto gli oggetti dell’eijkasiva, cioè le immagini riflesse degli oggetti della pivstiı (510a 1 sgg., e cfr. anche, entro il mito della Caverna, il libro VII 516b 5 e 532c 1, ed infine Soph. 266b 9), e nell’esporre la teoria dell’imitazione in Resp. X, in cui essi, essendo il frutto dell’attività imitativa umana applicata agli oggetti della natura sensibile, risultano “tre volte lontani dal vero”, in quanto appunto imitano apparenze e non realtà (598b 3, 5 e 599a 2).

Nello specifico del brano menzionato del Timeo non è in discussione una possibile differenziazione entro il sensibile in termini di un maggiore o minore grado di Verità e di Realtà: qui il termine favntasma vale come semplice sinonimo di eijvkwn e di fainovmenon (già in Resp. X 598b 1-5 e cfr. Soph. 241e 3 per l’assimilazione fra eijvdwla, eijkovna, mimhvmata e fantavsmata); è il sensibile nel suo complesso a venir riguardato qui come un riflesso ed un’ombra della realtà Ideale, ed in un’accezione analoga la stessa espressione viene utilizzata nel

Parmenide, all’interno delle ultime due deduzioni, in cui la molteplicità è considerata nel suo aspetto di negazione dell’Unità, che la conduce infine in una forma prima meno, poi più radicale, a negare innanzitutto se stessa (165d 2, 166a 5). La scelta operata da Platone di chiamare i fenomeni ‘fantasmi’, servendosi di una terminologia utilizzata in prevalenza per indicare apparenze di apparenze, non è comunque dettata dal caso: intanto la cwvra, che è ciò ‘in cui’ quello che viene ad essere si genera (Tim. 50c 7-d 1), può far pensare ad una

76 Se di variazione nella considerazione dell’ambito dell’apparire si può parlare, essa è piuttosto legata al mutare della prospettiva in cui si guarda al sensibile, ora pensandolo nel suo rapporto con l’Ideale, cogliendolo perciò nel suo aspetto di rappresentazione profondamente somigliante, di realizzazione di un progetto eidetico, come vuole lo spirito che pervade complessivamente la Cosmogenesi del Timeo, ora vedendolo, per quanto ciò sia possibile, in ciò che esso sarebbe indipendentemente da tale legame, nella propria assenza di Unità e di Identità, condizione che è necessario superare con l’elevazione al piano della Vera realtà; nella concezione platonica questa duplicità è già sempre implicita nella nozione stessa di apparenza71.

Il doppio binario su cui si gioca il rapporto fra il sensibile e l’Intelligibile, per cui la sfera dei fenomeni si relaziona all’Ideale insieme positivamente, in quanto ne è il prodotto, e

superficie riflettente, anche in conseguenza dell’averla precedentemente descritta come priva di ogni forma (50b 5-51b 2); inoltre, essa è frutto di un sogno (52b 3-5:…pro;ı oJ; dh; kai; ojneiropolou~men blevponteı kaiv

famen ajnagkai~on eij~naiv pou to; oj;n aJvpan ejvn tini tovpw/ kai; katevcon cwvran tinav, to; de; mhvt jejn gh~/ mhvte pou kat joujrano;n oujde;n eij~nai.), e favntasma è appunto anche quell’apparenza di visione che si

presenta nel sonno (cfr. Tim. 70d 7-72b 5, nonché la termnologia onirica ricorrente anche nell’ottava deduzione in Parm. 164c 8-d 4). Per quanto riguarda sia la concezione della cwvra come entità ricettiva ed ‘estensione dell’Idea’, che l’approfondimento dei suoi rapporti con il concetto di spazio, che infine l’utilissimo confronto con le tesi sostenute nel Parmenide in relazione sia all’impossibilità (prima deduzione), che alla possibilità (seconda deduzione), che l’Uno che è possa risiedere in se stesso ed in altro da sé, cfr. il classico di Francis MacDonald Cornford, Plato’s Cosmology, 1937, pp. 191-197. Per una riflessione mirata sulla questione se Platone abbia inteso la cwvra come uno spazio fisico o piuttosto squisitamente ‘concettuale’, cfr. A.E. Taylor, A Commentary on Plato’s Timaeus, 1928, pp. 349-351, ed in generale, per l’analisi di tutti e tre i generi, pp. 341-352. Interessante la tesi alla quale si richiamava nel suo bel commento al dialogo Giuseppe Fraccaroli, secondo la quale la negazione dell’Essere dell’eijdoı in altro porterebbe ad ammettere la

presenza eidetica nel Pensiero del Demiurgo, ne Il Timeo, 1906, p. 259.

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Merita segnalare al riguardo il contributo non centrato sulla riflessione platonica, ma non per questo di minore importanza, di Dieter Henrich, Alterità e assolutezza dello spirito: sette passi nel cammino da

Schelling a Hegel, 1979 (traduz. it.), pp. 1-20; si tratta di una densa ed ottima sintesi che indaga concezione e ruolo della Differenza entro la cornice squisitamente Idealista del rapporto fra finito ed Infinito. Tuttavia la particolarità del taglio dato da Henrich alla sua analisi, che consiste nel reinterpretare il concetto di Assoluto schellingiano e hegeliano proprio a partire dal Monismo dialettico di Platone, fa sì che nei vari livelli di considerazione della Differenza, intesa ora come caratteristica propria del finito, ora come strumento di autosuperamento della finitezza nell’Assoluto, ora come luogo di irruzione dell’Ideale nel finito per indurre tale autosuperamento, ora infine come Differenza ontologica interna all’Assoluto medesimo e che lo rende sia Identico a se stesso che Altro da sé, Risultato e Processo insieme (cioè nella prospettiva hegeliana,

Spirito), si ritrovi molto del nostro filosofo, e si contribuisca ad illuminarne, oltre che l’autonoma comprensione del concetto della Differenza, anche la figura di vero padre dell’Idealismo classico tedesco.

77 negativamente, in quanto, essendo ciò che l’Idea non è, ne incarna la differenza, trova una parziale corrsipondenza, rispettivamente, in quelle fasi ascensiva e discensiva, delle quali avremo modo di parlare ancora, in cui prima l’elevazione dalla molteplicità visibile all’Unitarietà dell’eij~doı, poi la riconduzione del fenomeno-immagine, includendovi anche quell’

eijkwvn

particolare che è il Tempo, alla sua matrice Dialettica, sembrano scandire le tappe fondamentali del percorso platonico di riflessione sul confronto fra i due piani.

Bisogna dire ‘parzialmente’, perché sia nel contesto pienamente ascensivo, come è ad esempio quello della distinzione tra filodossia e filosofia di Resp. V (475e 3 sgg.), in merito alla capacità propria del filovsofoı di elevarsi alla contemplazione dell’Unità Identica dell’Idea, Invisibile agli occhi dei più, che in quello di una piena giustificazione Dialettica dell’esistenza dell’ambito sensibile, il tentativo di considerare questa sfera ‘per se stessa’, quasi avesse una qualche forma di autonomia dall’Intelligibile, non può che sfociare comunque nello svelamento della propria inconsistenza ontologica.

Concludendo le nostre riflessioni su quello che possiamo a chiamare il ‘versante ontologico’ della relazione, da un lato fra Essere ed Eternità, e dall’altro fra apparenza e tempo, merita sottolineare che l’ipotesi che il non essere non sia coessenziale all’apparire più di quanto lo sia il suo stesso essere, è avvalorato dal dibattito svolto nel libro V della Repubblica (475e 3 sgg.), nel quadro della distinzione tra filodossia e filosofia: Platone qui, assegnando a ciascuna facoltà la specie oggettuale che essa è atta a cogliere, colloca le apparenze, oggetti della dovxa, in posizione intermedia fra l’assolutamente Conoscibile, il pantelw~ı ojvn, ed il nulla che l’ignoranza dovrebbe cogliere72. Caratteristica degli enti opinabili è l’alternanza

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Scriviamo ‘dovrebbe’ perché profondamente convinti che l’assegnazione platonica di un oggetto all’ajvgnoia sia stata mossa dall’intento di rappresentare un caso limite, funzionale a cogliere più facilmente la demarcazione tra gnwsiı e dovxa, e perciò avente anche fini profondamente didattici, piuttosto che dalla volontà di asserire la realtà di un opposto assoluto all’Essere. Per quanto concerne il fatto che l’ajvgnoia non possa ritenersi una duvnamiı nella stessa accezione in cui Platone intende descrivere la gnwsiı e la dovxa, condividiamo in pieno la posizione assunta da R.L. Nettleship, Lectures on the Republic of Plato, 18981, ripresa da Chen, in Acquiring Knowledge of the Ideas, 1992, p. 75:

«Ignorance in the full sense is blankness of the mind and we must not read this passage as if Plato spoke of ignorance as a faculty, having an object called ‘notbeing’; ignorance is the negation of faculty and its object is no object»;

tesi che Chen ritiene di dover integrare in questo modo:

«That agnoia is not a faculty is not meant in this sense: It is not a faculty, but it is something else positive. Rather it is meant in this sense: It is the privation of a faculty without anything else filling the void, i.e., it is just a blank» (idem).

78 ininterrotta di determinazioni apparenti opposte fra loro, quali risultano quelle qui menzionate di bello e brutto, giusto ed ingiusto, pio ed empio, doppio e metà, grande e piccolo, leggero e pesante (cfr. 479a 5-b 7), alternanza che rende impossibile identificarli con uno qualsiasi di tali attributi, e di affermare appunto che essi siano esattamente ciò che di volta in volta appaiono essere; è Socrate, con una lucida osservazione che fa da chiusa al ragionamento, a generalizzare l’ambivalenza del fenomeno, la sua intrinseca opposizione, che è ciò in cui risiede la ragione profonda della sua difformità dall’Idea, nella differenza fra essere e non essere (che come abbiamo visto non c’è ragione di considerare quale un’ulteriore opposizione posta accanto ad una serie di altre), fornendo l’appiglio all’integrazione in questo caso molto pertinente di Glaucone:

«Socrate -E ciascuna di queste molte cose, piuttosto che non essere, è forse ciò che la si dice essere? (

Povteron ouj~n ejvsti ma~llon hj; oujk ejvstinejvsti ma~llon hj; oujk ejvstinejvsti ma~llon hj; oujk ejvstinejvsti ma~llon hj; oujk ejvstin eJvkaston tw~n pollw~n tou~to oJ; ajvn

tiı fh~/ aujto; eij~nai

;) Glaucone -Questo sembra uno di quei giochi a doppio senso che si fanno nei banchetti […] Anche queste cose sembrano a doppio senso, (kai; ga;r tau~ta ejpamfoterivzein,) e di nessuna di esse si può avere certezza che sia o non sia, né che sia le due cose insieme, né alcuna delle due. (

kai; oujvt jeij~nai oujvte mh; eij~nai oujde;n aujtw~n kai; oujvt jeij~nai oujvte mh; eij~nai oujde;n aujtw~n kai; oujvt jeij~nai oujvte mh; eij~nai oujde;n aujtw~n kai; oujvt jeij~nai oujvte mh; eij~nai oujde;n aujtw~n

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