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J



Hi oujn uJpavrcei dianoiva/ megaloprevpeia kai; qewriva

panto;ı me;n crovnou, pavshı de; oujsivaı, oiJovn te

oijvei touvtw/ mevga ti dokein eijnai to;n ajnqrwvpinon

bivon…

(Repubblica libro VI, 486a 8-10)

aJvte ga;r thı fuvsewı aJpavshı suggenouı oujvshı,

kai; memaqhkuivaı thı yuchı aJvpanta, oujde;n kwluvei

eJ;n movnon ajnamnhsqevnta -oJ; dh; mavqhsin kalousin

ajvnqrwpoi- tajlla pavnta aujto;n ajneurein, ejavn tiı

ajndreioı hj/ kai; mh; ajpokavmnh/ zhtwn: to; ga;r

zhtein ajvra kai; to; manqavnein ajnavmnhsiı oJvlon

ejstivn.

(Menone, 81c 9-d 5)

Il tema che ci proponiamo di affrontare in conclusione di questa ricerca, e che si lascia trasporre agevolmente nell’interrogativo a quale dei termini della relazione fra

oujsiva

e

crovnoı

spetti, se appunto gli spetti, un primato di ordine ontologico, potrà suonare, considerando quanto sinora abbiamo prestato attenzione a distinguere in ogni circostanza da un lato l’analisi del nesso Essere-Eterno, e dall’altro quella del legame Tempo-diveniente, come una futile provocazione, se non addirittura come del tutto fuori posto in un’indagine sul sistema filosofico di Platone che fa dichiaratamente dell’equivalenza fra Realtà e dimensione atemporale delle Idee uno dei punti cardine della propria speculazione.

Senza volersi appellare ai palaioiv (Phil. 16c 7), come ad un vuoto principio di autorità, siamo convinti innanzitutto che la domanda si autolegittimi già solo per il fatto di dare voce ad un concetto assai antico, che, a volerne rintracciare l’origine storico-filosofica nell’ambito del pensiero presocratico, crediamo di ritrovare in una riflessione attribuita a

superamento, degli eccellenti risultati teorici già conseguiti da Parmenide, Zenone e Melisso. Questo tema affascinante verrà proposto nella conclusione generale come una delle linee di sviluppo dell’attuale indagine.

192 Talete:

sofwvtaton crovnoısofwvtaton crovnoısofwvtaton crovnoısofwvtaton crovnoı:::: ajneurivskei ga;r pavnta.ajneurivskei ga;r pavnta.ajneurivskei ga;r pavnta.ajneurivskei ga;r pavnta.

(Testimonia 1, 130=A 1 (35) D.- K.)146.

Basta semplicemente rinquadrare il problema nella prospettiva della presente indagine, per intuirne immediatamente tutta la portata teoretica: ci chiederemo infatti quale sia la posizione assunta da Platone rispetto all’Idea che il Tempo sia capace di svelare l’Essere, ovvero rispetto al conferimento al

crovnoı

di una funzione euristica privilegiata che presupponga un suo relazionarsi all’Eternità in forma necessariamente distinta da quella di una statica ed altrimenti insuperabile opposizione, ed in che misura essa possa quindi concorrere a chiarire ulteriormente le modalità specifiche del rapporto fra i due concetti. In secondo luogo, l’elemento provocatorio eventualmente percepibile nel formulare una domanda che sembra quasi pretendere di porre sullo stesso piano l’Essere ed il Tempo, è, va precisato, un tratto squisitamente platonico: il filosofo ‘gioca’ infatti nel Parmenide, in una maniera che al lettore abituato a sentir parlare incessantemente di Eternità eidetica non può non apparire scioccante, proprio sull’identificazione fra crovnoı ed oujsiva (cfr. Parm. 141e 3-9, 151e 7-152a 3).

In terzo luogo, un’analisi del nesso Essere-Tempo si rende indispensabile al fine di stabilire se, e secondo quale accezione del termine, sia lecito attribuire a Platone un’ontologia della temporalità, concetto che ci pare lasciare spazio principalmente a due alternative ermeneutiche: in un senso che personalmente non esiteremmo a ritenere negativo, si dovrebbe giungere a sostenere l’incapacità platonica di aver pensato l’Eterno come una realtà essenzialmente Altra dal Tempo, per ripiegare invece su una rappresentazione

146

Questo adagio è stato, in tempi ben più recenti, elevato a modello ermeneutico generale da Jean-Louis Vieillard-Baron il quale, divenuto noto per i suoi studi, che qui menzioniamo soltanto, Platon et l’idéalisme

allemand: 1770-1830, 1979, e Platonisme et intérpretation de Platon à l’époque moderne, 1988, in un suo breve ma assai incisivo contributo afferma di ritenere il concetto di Tempo la via d’accesso preferenziale alla

comprensione di un sistema filosofico (quale esso sia) nella sua interezza:

«Le temps n’est pas un grand problème philosophique, c’est le grand problème pour toute philosophie. A travers le problème du temps une philosophie se révèle toute entière.[…] En fait le temps engage une conception de l’être et de la connaissance. Il ne suffit pas d’opposer le temps et l’éternité.», in Le Temps:

Platon, Hegel, Heidegger, 1978, in calce al testo. Per converso, ma sempre in profonda sintonia con questa posizione, Adolfo Levi, op.cit., p. 5, sosteneva che uno studio del concetto platonico di Tempo non possa che

tradursi in “un saggio sulla teoria delle Idee”,

«Infatti la relazione del mondo eterno delle Idee col mondo mutevole del divenire, implica il rapporto fra l’eternità ed il tempo; e ogni tentativo fatto per determinare la prima si riflette in una nuova interpretazione del secondo.».

193 dell’Eternità intesa semplicemente come una durata infinita; un simile risultato, tenendo conto delle aspettative di trascendenza suscitate nel Fedone e confermate nel Timeo dalla confluenza della nozione di Invarianza dell’Idea, l’

ajei; kata; taujta; ejvcein

appunto, e dell’affermazione radicale dell’

ejvstin

, nell’unico concetto dell’

aijwvn

(cfr. 37d 5-38a 8), non può essere sentito che come un fallimento teoretico. Una raffigurazione durativa dell’Eternità infatti, più che essere l’esito di uno sforzo di comprensione intellettuale di questo concetto nella sua autonomia e specificità, è la conseguenza di una proiezione arbitraria della dimensione temporale, ipotizzata, a ragione o a torto, come indefinitamente prolungabile, sul concetto dell’Eterno; il risultato di una simile operazione è, per dirla in termini hegeliani, la produzione di una ‘cattiva infinità’147.

I luoghi in cui Hegel ricorre a questa formula sono numerosissimi, e perciò ci limitiamo a segnalare solo alcuni fra i riferimenti più pertinenti al tema di questa indagine, che tuttavia merita sottoporre all’attenzione per la loro estrema chiarezza.

In un primo caso, la rappresentazione di un Tempo infinito può essere fatta corrispondere ad una progressione lineare caratterizzata da una continua negazione del suo limite e destinata

147

A partire dalla premessa teorica che il Tempo debba assomigliare all’Eterno quanto al suo ‘perdurare’,

diventa pressoché impossibile stabilire una distinzione chiara fra i due concetti, facendo inoltre sfumare completamente proprio quel carattere Paradigmatico e di trascendenza, intendendo con ciò di Superiorità ontologica dell’aijwvnaijwvnaijwvnaijwvn, che Platone nel Timeo non cessa di ribadire. Di fronte ad una difficoltà del

genere si trovava già Rodolfo Mondolfo, nel suo L’Infinito nel pensiero dell’antichità classica, 1956, che, muovendo dalla convinzione dell’ambiguità intrinseca all’ejvstin, denotante da un lato l’extratemporalità, dall’altro “l’appartenenza al tempo quale sua specie” (anche se di quest’ultima affermazione, a meno che non

si voglia invocare implicitamente l’assimilazione oujsiva-crovnoı nel Parmenide, non c’è traccia nel Timeo), finisce col doversi servire, per descrivere il concetto di Eternità, della formula altrettanto ‘ambigua’ di “sempiterna presenzialità dell’ajei; ojvn” (p. 102), che dovrebbe consentire di tenere in piedi la differenza ontologica tra le due nozioni. Nell’interpretazione di Mondolfo salta agli occhi il problema di fondo, consistente nel tentativo di leggere il rapporto fra Tempo ed Eterno come se a confrontarsi tra loro fossero due ‘progressioni lineari’: una simile rappresentazione, che finisce necessariamente col vanificare ogni

distinzione sia quantitativa che qualitativa tra crovnoıcrovnoıcrovnoıcrovnoı ed aijwvnaijwvnaijwvnaijwvn, non aiuta minimamente a dimostrarne la non

opposizione, come invece voleva, intento estremamente apprezzabile, l’autore stesso, a pp. 102-103:

«Così l’eternità, con tutta la sua trascendenza, può includere il tempo e confrontarsi con esso; anzi può essere modello a quella sua immagine perenne che è il tempo, nel suo muoversi secondo il numero.».

La somiglianza dell’immagine temporale al suo paravdeigma, meglio sarebbe cercarla nel quadro di una pura

derivazione ontologica sia delle parti che delle forme del crovnoıcrovnoıcrovnoıcrovnoı , spostando quindi l’attenzione sulla

domanda, in che modo l’aijwvnaijwvnaijwvnaijwvn sia responsabile della loro generazione, tema che avremo cura di affrontare negli sviluppi futuri della presente indagine.

194 dunque all’incompletezza: l’infinità astratta ed il vero Infinito del concetto, che è compiuto nel suo ritorno in se stesso, divergono quindi come le figure geometriche della linea e della circonferenza,

«Man hat mit Recht die Unendlichkeit unter dem Bilde eines Kreises vorgestellt, denn die gerade Linie geht hinaus und immer weiter hinaus und bezeichnet die bloß negative, schlechte Unendlichkeit, die nicht wie die wahre eine Rückkehr in sich selbst hat.» (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Einleitung, §.22, Zusatz, 18303, in Werke, op.cit., Band 7)

Il meccanismo produttivo di questa progressione all’infinito, risiede nell’errata rappresentazione del limite quantitativo: fintanto che lo si colga come qualcosa di estrinseco alla natura stessa della Quantità, analogamente a quanto avveniva nell’interpretazione dell’Altro come mera astrazione nel caso dell’infinità qualitativa, esso può venire sempre ‘spostato in avanti’ generando una sequenza ininterrotta di negazioni destinata a non poter mai essere superata,

«Da die Negativität als gleichgültige Grenze an dem Quantum ist, so ist das Fürsichsein oder die absolute Bestimmung ein Jenseits für dasselbe. Über jedes Quantum kann hinausgegangen und eine andere Grenze gesetzt werden, welche ebensosehr keine immanente Grenze ist. Es entsteht dadurch der Progreß ins Unendliche oder die schlechte Unendlichkeit.» (Nürnberger Schriften, Erster Teil: Logik. Erster Abschnitt: Ontologische Logik. I. Sein. B. Quantität. B. Quantum, §.30, 1808, ibid., Band 4)

Diversamente, la vera Infinità oggetto della riflessione filosofica, che è Infinito in atto, va pensata come non dilazionabile in una serie di momenti evanescenti, bensì come libera ed

autoaffermantesi ‘Onnipresenza’,

«Ferner unterscheidet Spinoza das Unendliche der Imagination (infinitum imaginationis) von dem Unendlichen des Denkens (infinitum intellectus, infinitum actu). Die meisten Menschen kommen nur zum ersten; dies ist das schlechte Unendliche, wenn man sagt, „und so fort ins Unendliche“, z. B. die Unendlichkeit des Raums von Stern zu Stern, die Menschen wollen erhaben sein, ebenso in der Zeit. Die unendlichen Reihen in der Mathematik, der Zahl, sind dasselbe. [ …] Die unendliche Reihe ist unvollkommen; der

195 Inhalt ist zwar immer beschränkt. Dies ist aber die Unendlichkeit, die man gewöhnlich vor sich hat, wenn von Unendlichkeit gesprochen wird; und mag man es auch als erhaben ansehen, so ist sie nichts Gegenwärtiges, geht immer hinaus ins Negative, ist nicht actu. Die philosophische Unendlichkeit, das, was actu unendlich ist, ist die Affirmation seiner selbst; das Unendliche des Intellekts nennt Spinoza die absolute Affirmation.» (Vorlesungen über die Geschichte der Philosphie, A. Erste Abteilung, 2. Spinoza, ibid., Band 20)

Il riferimento testuale più rilevante per noi, in cui Hegel esplicita l’attinenza della fallace contrapposizione fra finito ed Infinito, nella quale si annida appunto la causa dell’erronea rappresentazione dell’Infinità stessa, al concetto di Eternità, proviene dalla Scienza della Logica,

«Diese Unendlichkeit, welche als das Jenseits des Endlichen beharrlich bestimmt ist, ist als die schlechte quantitative Unendlichkeit zu bezeichnen. Sie ist wie die qualitative schlechte Unendlichkeit, das perennierende Herüber- und Hinübergehen von dem einen Gliede des bleibenden Widerspruchs zum anderen, von der Grenze zu ihrem Nichtsein, von diesem aufs neue zurück zu ebenderselben, zur Grenze. Im Progresse des Quantitativen ist das, zu dem fortgegangen wird, zwar nicht ein abstrakt Anderes überhaupt, sondern ein als verschieden gesetztes Quantum; aber es bleibt auf gleiche Weise im Gegensatze gegen seine Negation. Der Progreß ist daher gleichfalls nicht ein Fortgehen und Weiterkommen, sondern ein Wiederholen von einem und eben demselben, Setzen, Aufheben und Wiedersetzen und Wiederaufheben, - eine Ohnmacht des Negativen, dem das, was es aufhebt, durch sein Aufheben selbst als ein Kontinuierliches wiederkehrt. Es sind zwei so zusammengeknüpft, daß sie sich schlechthin fliehen; und indem sie sich fliehen, können sie sich nicht trennen, sondern sind in ihrer gegenseitigen Flucht verknüpft.».

È nella prima Anmerkung a quanto sopra che Hegel allude, in una maniera anche piuttosto spassosa, ad una nozione ‘affermativa’ dell’Essere Eterno, da tenere ben distinta da una immagine ‘cumulativa’ di esso, e lo fa servendosi di una poesia di Albrecht von Haller („Unvollkommenes Gedicht über die Ewigkeit“, tratta dal Versuch schweizerischer Gedichte, Berna 1732, citato nel testo), che Kant aveva giudicato assai negativamente proprio per la sua “orripilante descrizione dell’Eternità”:

196 „Ich häufe ungeheure Zahlen,/Gebirge Millionen auf,/Ich setze Zeit auf Zeit und Welt auf Welt zu Hauf,/Und wenn ich von der grausen Höh/ Mit Schwindel wieder nach dir seh,/Ist alle Macht der Zahl, vermehrt zu tausendmalen,/Noch nicht ein Teil von dir./ Ich zieh sie ab, und du liegst ganz vor mir.“.

È evidente che l’intento di Hegel non è quello di dare un parere letterario positivo su questi versi che anzi egli dice altrove riuscire piuttosto noiosi (cfr. Enciclopedia, §. 104); il loro pregio risiederebbe esclusivamente nell’aver mostrato che l’Eternità è essenzialmente diversa dall’esito di una sommatoria, tanto che appunto neppure la sottrazione di ciò che precedentemente era stato aggiunto nell’illusione di raggiungerla la può scalfire: lei è piuttosto, aggiungiamo noi, come l’Idea platonica, indifferente, o meglio immune, da accrescimento e diminuzione (cfr. la descrizione dell’

aujto; to; kalovnaujto; to; kalovnaujto; to; kalovnaujto; to; kalovn

nel Simposio, 210e 1 sgg.),

«Wenn auf jenes Aufbürgen und Auftürmen von Zahlen und Welten als auf eine Beschreibung der Ewigkeit der Wert gelegt wird, so wird übersehen, daß der Dichter selbst dieses sogenannte schauderhafte Hinausgehen für etwas Vergebliches und Hohles erklärt und daß er damit schließt, daß nur durch das Aufgeben dieses leeren unendlichen Progresses das wahrhafte Unendliche selbst zur Gegenwart vor ihn komme.».

Infine, nella seconda annotazione al medesimo sottoparagrafo, entro l’analisi critica della prima antinomia cosmologica (cfr. Kant, K.d.r.V., B 454 sgg.), che costituisce un buon esempio di opposizione fra finito ed Infinito intesa ‘quantitativamente’, il filosofo sottolinea la fuorviante identificazione, presupposta nella dimostrazione per assurdo della Tesi “il cosmo ha un inizio nel Tempo ed è anche spazialmente limitato”, fra Eternità e “cattiva infinità temporale”,

«Man sieht aber sogleich, daß es unnötig war, den Beweis apogogisch zu machen oder überhaupt einen Beweis zu führen, indem in ihm selbst unmittelbar die Behauptung dessen zugrunde liegt, was bewiesen werden sollte. Es wird nämlich irgendein oder jeder gegebene Zeitpunkt angenommen, bis zu welchem eine Ewigkeit (Ewigkeit hat hier nur den geringen Sinn einer schlecht-unendlichen Zeit) abgelaufen sei. Ein gegebener Zeitpunkt heißt nun nichts anderes als eine bestimmte Grenze in der Zeit. Im Beweise wird also eine Grenze der Zeit als wirklich vorausgesetzt; sie ist aber eben das, was bewiesen werden sollte.»

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