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Capitolo IV L'armistizio ed il ritorno alla Grecia

4.8 Il ritorno alla Grecia

L’arcipelago, militarmente perso nel 1943, sarebbe rimasto ancora per poco sot- to la sovranità nominale dell’Italia, un paese vinto che non poteva più avanzare alcun diritto di possesso.

Rodi e le altre isole vennero considerate dagli inglesi come territorio nemico e quindi dovevano sottostare alle leggi di guerra stabilite dalla Convenzione dell’Aja del 1907. E dato che i tedeschi si erano arresi, il comando inglese con- siderava nemici gli italiani, civili e militari. Il governatore Faralli fu destituito e poi condotto in esilio sull’isola di Scarpanto. Anche il podestà Macchi, che tanto aveva fatto affinché alla popolazione affamata arrivassero aiuti umanitari, fu al- lontanato dal suo incarico ma poté restare a Rodi. Gli inglesi avevano voluta- mente ignorato i due anni di cobelligeranza italiana e l’accanita difesa di Lero contro i tedeschi attuata fianco a fianco con grande cameratismo e reciproco ri- spetto.

l’occupazione tedesca aveva operato esclusivamente per mantenere l’ordine pubblico, venne disarmato e tenuto per alcuni giorni in un campo di concentra- mento prima di essere rispedito in Italia.(34)

Nelle isole sbarcarono reparti del "Battaglione Sacro" una formazione greca ar- mata ed equipaggiata dai britannici che aveva combattuto al fianco degli Alleati. I membri di questa unità erano spesso oriundi delle isole e nettamente ostili agli italiani. Ovunque i soldati greci eseguirono un rituale che portò ad abbattere e sfigurare i monumenti italiani, a gettare per le strade il mobilio degli uffici, ad aggredire impiegati disarmati.

L'irredentismo greco tornò nuovamente a rivendicare l'annessione alla madrepa- tria. Il 15 maggio l'incrociatore "Averoff", nave ammiraglia della marina elleni- ca, scortò a Rodi l'arcivescovo Damaskinos, reggente della Grecia liberata e i fe- steggiamenti della Comunità greca furono numerosi. Al suo arrivo per gli italia- ni fu stabilito il coprifuoco per tutto il giorno e si rinnovarono atti di violenza: alcuni greci cercarono di entrare a forza nella cattedrale cattolica per issare il vessillo di Atene sul campanile, mentre la bandiera italiana del porto venne fatta a pezzi.(35)

In assenza di un'amministrazione centrale a cui rivolgersi, poiché il governo ita- liano era stato esautorato e quello greco non ancora formato, l'ex podestà Mac- chi, richiese ed ottenne il permesso di costituire un Comitato per la tutela degli interessi italiani, che si riunì all'interno della scuola media femminile di Rodi e raccolse il denaro necessario per il sostentamento dei più disagiati.

Il comitato fu l'unica istituzione italiana riconosciuta dalle forze britanniche. Lo stesso Macchi redasse, in una lettera inviata il 23 dicembre 1945 a Roma al ministero degli Esteri Alcide De Gasperi, un quadro preciso dei rapporti tra i nuovi protagonisti della vita politica del Dodecaneso e la comunità italiana. Nella lettera il presidente della neonata commissione per la tutela degli interessi italiani rimproverava con un giro di parole estremamente cortesi, la scarsa atten- zione della madrepatria verso la nostra comunità.

Il giovane funzionario, che si era preso a carico le sorti di una collettività abban- donata a se stessa da un governo che in Italia affrontava i problemi del dopo- guerra trascurando la sorte di altri connazionali lasciati in balia dei vincitori, non si rassegnava e faceva di tutto per richiamare l'attenzione di Roma concludendo che “l'attuale situazione politica del Dodecaneso ci offre molte possibilità di mi- gliorare la nostra posizione in queste isole”.

Il quadro che Macchi fa nella sua relazione descrive gli atteggiamenti verso gli italiani delle autorità britanniche, della comunità greca e di quelle minori. Scrive che l'atteggiamento degli inglesi è formalmente orientato positivamente verso i greci e negativamente verso gli italiani. Ma sottolinea che la simpatia degli oc- cupanti verso la comunità ellenica è solo esteriore e dettata da motivi politici. In realtà i fattori si stanno invertendo, perché l'orientamento verso i greci conserva appena le apparenze e viene soppiantato da una crescente diffidenza mentre l'avversione verso gli italiani si è ridotta alla sola formalità del "No fraternisa- tion".

Macchi sottolinea che in varie circostanze le autorità britanniche hanno dato prova della loro comprensione per gli italiani e in modo particolare per i biso- gnosi. Dietro l'atteggiamento inglese verso le opposte comunità si nascondeva la vera politica britannica in queste isole tendente a consolidare la propria posizio- ne di predominio attraverso la politica del "Divide et Impera".

Per quanto riguardava i rapporti con la comunità ellenica, Macchi scriveva che dopo le manifestazioni del maggio precedente, il fanatismo antiitaliano era anda- to gradualmente affievolendosi col passare del tempo e col sorgere di numerose disillusioni, difficoltà e restrizioni. I greci con il consolidamento dell'occupazio- ne britannica, temevano il fallimento delle proprie aspirazioni a unirsi all'antica madrepatria.

“Tutto questo” - scriveva Macchi – “induce i greci a fare dei confronti tra il pre- sente e il passato, a limitare le loro recriminazioni verso la politica autocratica del fascismo e gli strati più bassi della popolazione a rimpiangere la dominazio-

ne italiana”.(36)

L'orientamento di Macchi era quello di avviare trattative sulla possibilità di met- tere il Dodecaneso sotto mandato internazionale. Era chiaro che quali che fosse- ro le condizioni di carattere economico poste, una volta che l'arcipelago fosse stato annesso alla Grecia, Atene avrebbe trovato il modo di non rispettarle. I soli interessi industriali italiani venivano valutati a oltre 200 milioni di lire postguer- ra. A questi dovevano essere aggiunti gli interessi agricoli, fondiari e soprattutto le somme spese dal governo italiano per le opere statali, le infrastrutture e le ri- cerche archeologiche.

Nonostante la promessa secondo cui l'amministrazione inglese sarebbe terminata una volta che il destino dell'arcipelago fosse stato definito dalle Nazioni Unite, molta gente del posto temeva che potesse diventare permanente. I britannici as- sunsero il controllo dei porti e crearono una propria polizia, in gran parte com- posta da ciprioti. Poi stamparono la loro valuta e i loro francobolli.

In tal modo, l'amministrazione britannica parve voler frustrare le aspirazioni all'unificazione con la Grecia ed escludere le forze locali dal governo postbelli- co. Di conseguenza crebbe tra i dodecanesini l'animosità contro gli inglesi, visti sempre più come i nuovi nemici. Vennero organizzate marce di protesta e furo- no fondati movimenti segreti in ogni isola per tenere accesa la fiamma elleni- ca.(37)

Finalmente il 1 gennaio 1947 il rappresentante civile della Gran Bretagna nel Dodecaneso annunciò che le truppe britanniche avrebbero lasciato le isole e che quindi la responsabilità del governo locale sarebbe passata al comandante della missione militare greca, colonnello Gigantes.

Il 10 febbraio dello stesso anno l’Italia firmò a Parigi il trattato di pace con le potenze vincitrici, accettando tutte le clausole che riguardavano la Grecia. Tra queste era prevista anche la cessione del Dodecaneso da effettuare in breve tem- po.

delle isole.

L’arcipelago doveva restare smilitarizzato. Per la procedura e le condizioni tec- niche che avrebbero regolato il trapasso delle isole, vi sarebbe stato un accordo tra la Grecia e la Gran Bretagna, per il ritiro delle truppe inglesi, che sarebbe dovuto avvenire non oltre 90 giorni dall’entrata in vigore del trattato.(38)

Per gli italiani si trattava di abbandonare tutto quanto avevano creato in trent’anni. I greci ereditavano industrie, aziende agricole e un’efficiente ammi- nistrazione che era riuscita a funzionare anche sotto l’occupazione tedesca. Il co- lonnello Gigantes si rese conto che l’economia di Rodi e delle altre isole si sa- rebbe salvata solo se fossero rimasti nelle fabbriche e nelle aziende agricole i tecnici e gli operai italiani. Quindi li invitò a restare provocando la sollevazione dei vertici della comunità greca, interessata soprattutto a impossessarsi delle loro ricchezze. Per questo motivo Gigantes fu destituito dalla guida del Dodecaneso. Al suo posto il 31 marzo 1947, giorno in cui terminava l’amministrazione mili- tare britannica, arrivò a Rodi come governatore militare e civile il contrammira- glio Pericle Joannides, marito della principessa Sofia, sorella del re di Grecia. Joannides arrivò a Rodi con l’intento di cancellare tutto quanto ricordasse l’Italia. E lo fece con il massimo rigore senza nascondere il suo astio personale verso gli italiani.

Infatti il nuovo governatore decretò la confisca dei beni della chiesa cattolica e trasformò la cattedrale di San Giovanni in una chiesa ortodossa. Inoltre sottrasse alla giurisdizione italiana l’ospedale civile il cui personale era in gran parte ita- liano, tutte le scuole e gli uffici pubblici.

Il suo operato era riuscito a creare condizioni sfavorevoli alla comunità italiana e molte famiglie decisero di lasciare le isole con i propri mezzi.

In tutto il Dodecaneso vivevano ancora 6.000 italiani e 2.000 di essi avevano fatto richiesta di rientrare in patria ma non avevano mezzi per pagarsi il viaggio via Atene con le rare navi passeggeri che collegavano la capitale greca alle isole. A partire dal marzo 1947 il governo italiano si decise finalmente a inviare alcuni

mercantili che in sei mesi raccolsero a scaglioni tutti coloro che volevano torna- re in patria. L’esodo si concluse il 1 settembre del ’47 e soltanto pochi italiani decisero di rimanere nelle isole e diventare cittadini greci. I nostri connazionali vennero alloggiati per un lungo periodo nei campi di concentramento che il Re- gio Esercito aveva allestito per i prigionieri alleati a Bari Palese e a Barletta, op- pure a Cinecittà. In queste sistemazioni precarie rimasero fino a quando il Piano Marshall e il successivo boom economico degli anni ’60, permisero loro migliori condizioni di vita.(39)

Il 31 agosto del 1949 fu firmato un accordo italo-greco, per cui gli ultimi italiani dovettero lasciare il Dodecaneso entro un anno dalla firma, portando con sé solo beni mobili, dopo aver liquidato gli immobili.

Terminava ufficialmente il dominio italiano sulle isole che per trentuno anni a- vevano costituito un’appendice del territorio metropolitano in Oriente.

Queste furono, per sommi capi, le vicende del Dodecaneso. In Italia restò al massimo qualche nome di strade o di piazze, e il confuso ricordo di una presen- za italiana in quellepovere isole verso il Levante.(40)

Note

(1) Pantelleria, negli anni precedenti l’entrata in guerra dell’Italia, era stata potentemente fortificata per esplicita volontà dello stesso Mussolini. L’isola era presidiata da una guarnigione di oltre 11.000 militari e disponeva di 24 batterie antiaeree e co- stiere. Vi era inoltre un campo di aviazione sul versante settentrionale, con depositi sotterranei di benzina, hangar in caverna, officine e impianti protetti. Il comandante militare era l’ammiraglio Gino Pavesi.

Dopo la resa delle forze italo-tedesche in Tunisia gli alleati si apprestavano ad invadere la Sicilia, e Pantelleria costituiva un serio intralcio ai loro movimenti navali.

Le operazioni anglo-americane per la conquista di Pantelleria acquistavano un significato particolare non solo dal punto di vista strettamente strategico, ma anche psicologico e politico.

Si trattava di vedere se l’esercito italiano era realmente intenzionato a battersi per l’integrità della patria, come aveva dimo- strato di saper fare nel novembre 1917, sul Piave, dopo la disfatta di Caporetto.

A partire dal maggio 1943 l’aviazione anglo-americana bombardò sistematicamente le difese dell’isola.

In soli sei giorni, tra il 6 e l’11 giugno, vennero sganciate sull’isola ben 5.000 tonnellate di bombe. I bombardamenti ottenne- ro scarsi risultati sulle installazioni militari, opportunamente sistemate in caverna, ma provocarono seri disagi alla popolazio- ne civile, che non era stata evacuata. L’11 giugno, avvicinandosi all’isola la flotta d’invasione, l’ammiraglio Pavesi optava per la resa. Aveva ottenuto l’autorizzazione da Mussolini comunicandogli che la totale mancanza d’acqua non consentiva più ai nostri reparti alcuna concreta possibilità di resistenza. La caduta di Pantelleria scatenò l’ira dei tedeschi e costituì il primo allarmante segnale del cedimento delle truppe italiane.

Il presidio dell’isola non aveva certo scampo, ma l’aver rinunciato anche a un minimo di lotta denotava un’aperta volontà capitolarda. Pantelleria avrebbe costituito, in tutta la seconda guerra mondiale, l’unico caso di una vittoria ottenuta col solo bombardamento aereo.

Il 12 e il 13 giugno si arresero anche le isole di Lampedusa e Linosa.

(2) Le vittime furono circa 3.000. Il quartiere di San Lorenzo riportò le maggiori devastazioni.

(3) Dino Grandi nacque a Mordano (Bologna) il 4 giugno 1895. Laureato in giurisprudenza, aderì al fascismo pur avendo ini- ziato il suo percorso politico nelle file della sinistra. Fu tra i fondatori dei fasci emiliani, dei quali divenne segretario nel 1921. Nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921, Grandi fu eletto deputato, ma un anno dopo, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare, la sua elezione fu annullata perché al momento del voto non aveva ancora l’età necessaria

In seguito fu sottosegretario all’Interno e agli Esteri dal 1924 al 1929, ministro degli Esteri dal 1929 al 1932, ambasciatore a Londra dal 1932 al 1939 e dal 30 novembre 1939 presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.

Dal 1929 Grandi si occupò di rappresentare l’Italia presso le altre nazioni.

Il Ministero degli Esteri era allora un organismo ancora ottocentesco e Grandi vi entrò per applicarvi, burocraticamente, i nuovi stili e i nuovi concetti della rivoluzione fascista, in primis dando l’opportunità a chiunque fosse laureato in giurispru- denza, scienze politiche o economia e commercio di partecipare al concorso per l’accesso alla carriera diplomatica, opportu- nità questa fino ad allora riservata ai rampolli della nobiltà.

L’impostazione che Grandi diede alle relazioni internazionali fu improntata su una saggia prudenza. Grandi si prodigò a crea- re vincoli di collaborazione fra i grandi stati europei in modo da accrescere il prestigio italiano sino all’ammissione dell’Italia nel novero delle potenze.

I suoi tre anni da ministro furono di estrema intensità politica e diplomatica.

Operò in sostegno degli italiani all’estero, rassicurando gli emigrati, e li dotò di una rete di strutture consolari che tuttora è quella da lui ideata. Si adoperò anche per l’esenzione dall’obbligo di leva per i figli dei lavoratori immigrati, mettendo fine agli episodi che vedevano molti giovani italiani cresciuti all’estero venire arrestati per renitenza non appena sbarcati in patria

ed obbligati a scontare lunghe pene detentive cui erano stati condannati in contumacia da tribunali militari, e delle quali erano totalmente ignari.

Nei rapporti con le altre nazioni, Grandi cercò di inserire l’Italia ovunque gli riuscisse possibile, in tutti gli organismi anche inutili dai quali già sapesse che non sarebbe stata rifiutata e in tutte le discussioni più importanti sui problemi internazionali. Fu a quel punto che l’attivismo di Grandi come ministro degli Esteri richiamò l’attenzione di Mussolini, il quale temeva che Grandi avrebbe potuto guadagnare più prestigio di lui e rubargli il ruolo di interlocutore nazionale esterno.

La politica estera italiana, ripresa in mano da Mussolini che assunse personalmente quel dicastero vide la conclusione del re- visionismo pacifico.

Come ambasciatore a Londra Grandi cercò di incoraggiare la diplomazia inglese ad avvicinarsi all’Italia. Tuttavia le conver- genze fra i regimi totalitari erano più forti e così i suoi progetti di favorire un patto tra Roma e Londra si rivelarono velleitari, quando Mussolini decise di legare il destino dell’Italia a quello della Germania di Hitler.

Per la mozione del 25 luglio, Grandi fu condannato a morte in contumacia al processo di Verona, che si tenne nel territorio della repubblica sociale italiana. Grandi, tuttavia, avendo presagito quanto stava per accadere già immediatamente dopo la caduta di Mussolini, riparò in Spagna fin dall’agosto 1943.

Nello stesso anno si trasferì in Portogallo, ove visse sino al 1948. Si trasferì quindi in Brasile, da dove rimpatriò negli anni sessanta per aprire un’azienda agricola nella campagna di Modena.

Morì a Roma nel 1988.

(4) La regina Elena deplorò vivamente che la cattura di Mussolini fosse stata eseguita a Villa Savoia. Essa infatti così si e- spresse quando apprese le notizia:

“Potevano arrestarlo dove e quando volevano, ma non qui. Qui Mussolini era nostro ospite. Si sono violate le regole dell’ospitalità regale. Non è bello questo”.

(5) La notizia della caduta del regime venne comunicata agli italiani dal giornale-radio alle ore 22.30 di domenica 25 luglio con un comunicato redatto da Vittorio Emanuele Orlando:

“Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Sta- to, di sua eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato il cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”.

(6) Il governo Badoglio I fu in carica dal 25 luglio 1943 al 17 aprile 1944, questa era la sua composizione: Presidente del consiglio dei ministri; Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

Ministro degli Affari Esteri; Raffaele Guariglia. Ministro dell’Africa Italiana; Melchiade Gabba. Ministro dell’Interno; Umberto Ricci.

Ministro di Grazia e Giustizia; Gaetano Azzariti. Ministro delle Finanze; Domenico Bartolini. Ministro della Guerra; generale Antonio Sorice. Ministro dell’Aeronautica; generale Renato Sandalli. Ministro della Marina; ammiraglio Raffaele de Couerten. Ministro della produzione bellica; generale Carlo Favagrossa. Ministro del Commercio e Industria; Leopoldo Piccardi. Ministro dei Lavori Pubblici; Domenico Romano. Ministro delle Comunicazioni; Federico Amoroso. Ministro dell’Educazione Nazionale; Leonardo Severi.

59 divisioni, ben 36 erano all’estero. Oltre al Dodecaneso le nostre truppe presidiavano la Grecia continentale, la Francia me- ridionale e la Corsica, la Slovenia, la Croazia, il Montenegro e l’Albania.

(8) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pag. 482.

(9) Luciano Alberghini Maltoni, Rodi 1943, in “Storia Militare”, n. 105, giugno 2002, pag. 28. (10) Maria Grazia Pasqualini, op. cit., pag. 519.

(11) Tra le clausole armistiziali vi erano la consegna immediata della flotta e la facilitazione dell’avanzata anglo-americana lungo la penisola, mediante opportune disposizioni impartite alle truppe italiane. Tuttavia per non allarmare l’alleato tedesco, il governo italiano non dispose l’immediato rimpatrio delle divisioni ancora dislocate nei Balcani e in Francia, né venne ordi- nato di far saltare i valichi alpini o di allertare i comandi delle grandi unità combattenti dislocate nella penisola.

(12) Le circostanze vollero che proprio nella mattinata dell’8 settembre fosse ricevuto per un’udienza al Quirinale il nuovo incaricato di affari del Reich a Roma, Rudolf Rahn, che presentava le credenziali al sovrano. Il re aveva una sola strada da percorrere in quel frangente, ed era quella di evitare che il diplomatico si insospettisse su quanto stava per accadere. Quindi gli apparve con il volto dell’alleato per non pregiudicare il successo dell’operazione-armistizio. Rahn spedì a Berlino una re- lazione ottimistica sul colloquio avuto con il sovrano:

“Il re Vittorio Emanuele segue attentamente i combattimenti sul fronte orientale, ammira lo spirito combattivo delle truppe tedesche, la loro tradizione militare di organizzazione e armamento che purtroppo l’esercito italiano non ha mai raggiunto. Sulla situazione in Italia, egli sperava che il governo del Reich si sarebbe nel frattempo convinto della buona volontà e della fedeltà del governo italiano. L’Italia non capitolerà mai. Badoglio è un bravo vecchio soldato a cui certamente riuscirà di ar- restare come si deve la pressione delle sinistre, le quali dopo vent’anni di esclusione dalla vita nazionale credono di nuovo venuta la loro ora. Al termine della conversazione il re sottolineò di nuovo la decisione di continuare fino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l’Italia è legata per la vita e per la morte”.

(13) Alle ore 19,45 - dai microfoni dell’EIAR - il maresciallo Pietro Badoglio lesse il seguente proclama:

”Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower Co- mandante in Capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da