DELL ’ UOMO
A. Roma 29/5/2012, in corso di pubblicazione in RIDL, 2013, 1 nt R OTA
5.3 C ONCLUSIONI : QUALE FUTURO PER IL CONFLITTO COLLETTIVO ? I tre capitoli possono sembrare tre diapositive di tre temi differenti.
In verità, dai testi contrattuali, dalla produzione normativa, anche quella in
fieri, e soprattutto dalla giurisprudenza non emerge altro che la complessità d’un
tema che è difficile, per prassi e consuetudine, collocare entro un quadro sistematico dai contorni mai completamente definiti. Non a caso, in più punti s’è cercato di mettere in evidenza – partendo dalla nozione sociale di sciopero, passando per le nuove frontiere del quadro normativo e contrattuale nazionale ed infine per la dimensione ancor più ricca dell’UE a (ben) 27 paesi – il disegno di un contesto in continua – forse perfino “schizofrenica” – trasformazione. A scolorire ulteriormente i confini del tema intervengono le dinamiche dettate da un mercato sempre più difficile a orientarsi rispetto alle regole dettate dalla logica della globalizzazione. Da più parti si fa strada l’idea che sia più in linea con le attuali richieste del mercato dettare condizioni per una responsabile gestione del conflitto (nella fase successiva alla stipulazione del contratto collettivo di lavoro) in considerazione del rilievo (messo in evidenza anche ultimamente dagli organismi politici della Unione)200 che quest’ultimo assume in termini di efficienza e competitività del Paese e di capacità di attrarre investimenti da finanziatori esteri201.
D’altro canto, non può trascurarsi che proprio il ritiro della proposta della Commissione europea lascia aperta la possibilità di affermare ancora oggi la difesa del conflitto collettivo e dello sciopero, come strumenti di emancipazione dei lavoratori.
200
In questi termini, CORAZZA, Il nuovo conflitto collettivo, cit., 30-31. Secondo l’A., al di là degli accordi
bilaterali che possono essere stipulati per garantire l’esigibilità degli impegni assunti, assume da tempo rilievo la tendenza degli organismi comunitari “a promuovere, all’interno dei trattati sugli investimenti,
l’inserimento di clausole sociali o di clausole che ostacolino l’affievolimento della legislazione sociale allo scopo di creare un contesto di maggiore attrazione per gli investitori stranieri”. L’indirizzo assunto dalla
Commissione europea è riportato nella Comunicazione Verso una politica globale europea degli investimenti internazionali, COM 7 luglio 2010/343. A mettere in rilievo la relazione tra conflitto e attrazione degli investimenti esteri anche il Parlamento dell’Unione mediante la Risoluzione del Parlamento europeo sulla Futura politica europea in materia di investimenti internazionali, INI 6 aprile 2010/2203. 201
178 Saranno i prossimi passaggi della Commissione europea e della Corte di giustizia dell’Unione a sciogliere il dilemma tra ammodernamento delle relazioni tra capitale e lavoro e immanenza della logica del conflitto, quindi tra potenziamento dei meccanismi di mercato come prioritari strumenti di promozione sociale e riconoscimento del conflitto collettivo di lavoro.
Sarà altresì determinante, per le ragioni esposte nel corso del capitolo, considerare il contesto nazionale. Nell’ottica della valorizzazione delle tradizioni nazionali, bisognerà monitorare costantemente anche ciò che accade nel nostro sistema di relazioni sindacali. Se le regolamentazioni contrattuali e i progetti di legge nazionali provvedono a potenziare la tendenza di imbrigliare il conflitto collettivo entro procedure arbitrali e clausole di responsabilità, mancano le occasioni sulle quali riporre buoni propositi. Che il virus di un’Unione europea nata come comunità di mercato abbia già contaminato il contesto nazionale e da qui a breve il legislatore, interessato a prendere posizione su un terreno che aveva ben chiara la gerarchia dei valori comunitari? O che la globalizzazione oramai abbia oramai invaso ogni ambito?
Suggerire una nuova prospettiva del tema in un mercato unico che sposi libertà economiche e diritti sociali e collettivi, se non crea una contraddizione in termini, lascia tuttavia difficoltà non facilmente superabili.
10 anni fa un contributo italiano202 evidenziava l’ambiguità di fondo di un sistema, quello allora comunitario, che riconosceva il diritto di sciopero, per via dell’art. 28 della Carta di Nizza, come comunque subalterno e vicario rispetto ai principi di mercato aperto ed in libera concorrenza, negandogli la natura di diritto fondamentale e di emancipazione nei termini appena descritti. Per riequilibrare questo sfasamento, si era pensato ad un Comitato comunitario di esperti, deputato a vigilare sulle eventuali violazioni di standard minimi di tutela sociale da parte degli Stati membri, autonomo nelle decisioni rispetto alle istituzioni comunitarie. A tale soggetto si sarebbe affidata la definizione di principi comunitari capaci di delineare gli spazi di praticabilità concreta del conflitto, indipendentemente da giudizi di compatibilità rispetto alle economic freedoms203.
Accanto all’ipotesi appena proposta rimasta sostanzialmente scarsamente considerata, non sarebbe inoltre da scartare, oltre ad un auspicabile maggiore coinvolgimento dei soggetti sindacali in chiave europea, stante la natura della
202
Così ORLANDINI, Sciopero e servizi pubblici essenziali, cit., 374. 203
Dell’avviso già SCIARRA, From Starsbourg to Amsterdam: porspects for convergence of european
179 materia del conflitto collettivo, la strada del Protocollo aggiuntivo al Trattato di Lisbona. Specificare in tale documento una immunità per le azioni di sciopero, anche limitando queste all’accezione europea del conflitto di interessi, sarebbe sia un modo per introdurre effettivamente una maggiore inclusione degli aspetti sociali in un terreno ancora assai intriso di logiche economiche, quant’anche d’impedire che sentenze come Viking e Laval non producano altro effetto se non quello di allontanare dall’obiettivo dell’Unione la creazione di un’area comune e socialmente orientata alla progressione dei cittadini degli Stati membri.
Forse questa è la fotografia valida ancora oggi, ma non è detto che non stia già cambiando e non sia destinata a cambiare o che si stia qui dimenticando una parte di situazione reale che non si riesce a cogliere. Ma il problema ha da risolversi, ancor più oggi che una non tempestiva revisione della direttiva distacchi può, in Italia, accentuare i rischi di dumping sociale per l’apertura che in chiave legislativa (art. 8 l. 148/2011) è stata fatta al livello aziendale di contrattazione collettiva, quanto alla accresciuta difficoltà di individuare standard minimi vincolanti sul tutto il territorio nazionale. È soltanto il rispetto di quest’ultimo parametro che può essere imposto, secondo la Corte di giustizia più recente, alle imprese straniere204 nella fase di distacco della propria attività.
204
Ha tracciato in questo senso il maggiore dei profili i criticità ORLANDINI, Il recepimento della direttiva
180 CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE: TRA AUSPICI E PRESE D’ATTO
Il futuro dell’autotutela collettiva è incerto. Se da una parte nel conflitto collettivo si ravvisa un lusso che le nuove dinamiche economiche, globali non possono più riconoscere, dall’altra si pongono coloro che sostengono l’indispensabilità di custodire e preservare il valore dell’autotutela. E ciò per via della funzione che essa viene chiamata ad assolvere rispetto alla valorizzazione, emancipazione e promozione delle condizioni di lavoro.
D’altro canto, se la tendenza maggioritaria viene oggi a coincidere con la necessità di superare l’anomia che ha caratterizzato il sistema sindacale a far data dall’entrata in vigore della Costituzione, dall’altra, resiste chi sostiene che il conflitto collettivo debba restare materia nella esclusiva disponibilità delle parti sociali.
Entrambi gli approcci, il primo più rigido, il secondo più attento a cogliere nella Carta costituzionale un legame forte tra art. 39, c. 1 e 40 da un parte e 3, comma 2 dall’altra, non evidenziano certo tratti di assoluta novità. Attingendo alle introduttive pagine del primo capitolo, dedicate alla ricostruzione dell’evoluzione del conflitto collettivo, è possibile segnare un continuum tra la differenza di impostazioni che oggi si registra e lo “scontro” di posizioni e tendenze che aveva animato il Collegio dei probiviri a cominciare dall’inizio del secolo scorso. È come dire che quel dibattito inaugurato da Barassi ai primi del 900 contro Redenti (più aperto ad elevare a diritto la dignità dello sciopero) non s’è mai sopito, o quanto meno non ha mai trovato un definitivo superamento, nonostante il testo costituzionale sembri essere molto chiaro in proposito. A riprova del fatto che nessuno dei due indirizzi ha trovato convincenti le teorizzazioni dell’altro, vale ricordare le molteplici vicende che hanno appassionato gli studiosi del diritto sindacale e delle relazioni industriali, oltre che gli stessi protagonisti del conflitto collettivo di lavoro.
Il filone inaugurato da Ludovico Barassi, assai critico nei confronti dei comportamenti conflittuali assunti specialmente dai lavoratori pubblici, ha cambiato referenti, ma dopo un’apparente “ritirata” dal “tavolo del confronto”, ha finito per tornare in auge proprio alla metà degli anni 80. Nei servizi pubblici essenziali, lo sciopero è tornato ad essere inteso come motivo ed occasione di disagio per l’utenza, al punto di riconquistare quel disvalore che gli era stato attribuito sul finire del 1800. Da qui, la spinta verso l’introduzione di una disciplina legislativa che - tenendo in debito conto il pregiudizio sofferto dagli utenti dei servizi pubblici essenziali - intervenisse sullo sciopero, limitandone l’esercizio.
181 Per contro, la considerazione dell’indispensabilità del conflitto collettivo e della legittimità della reazione contro il detentore dei capitali ha valorizzato dapprima l’introduzione e poi il sostegno di una certa tutela del lavoratore, non dotato ex se della medesima forza contrattuale dell’imprenditore.
Nel confronto col passato, l’analisi riportata nel primo capitolo consente di realizzare una certa sovrapposizione del tempo presente con la turbolenta conflittualità di fine anni 60. Diversamente da quanti, invero numerosi, sostengono che il conflitto collettivo stia avviandosi verso il declino, pare opportuno osservare che soltanto una parziale considerazione del fenomeno può attualmente spingere ad accettare queste considerazioni. Se solo si ricerca tra i fatti di cronaca, ogni giorno risulta faticoso non incorrere in molte decine di notizie su scioperi, occupazioni di siti produttivi, salite sulle grù, cortei, e via discorrendo.
Ciò che maggiormente sorprende è la scarsa attenzione prestata, dagli studiosi delle relazioni sindacali, al dato fattuale, alle motivazioni delle agitazioni sindacali, al ruolo dell’utenza. Soprattutto rispetto all’ultimo punto, oggi come negli anni 70 l’utente nel settore privato viene a costituire una sorta di risorsa addizionale rispetto al conflitto promosso dai lavoratori. Nell’autunno caldo i lavoratori, s’è detto, “uscivano dalle fabbriche” per ottenere l’appoggio della società, la quale diventava parte integrante della protesta. Oggi, soprattutto i mass media, ancor più i social
network si rivelano canali attraverso cui “fidelizzare” gli utenti, circa la “bontà” delle
ragioni delle azioni di lotta poste in essere dai lavoratori in sciopero. Di ciò si trova dimostrazione nella crescente importanza assunta dal boicottaggio e dal biasimo nei confronti dell’impresa. Tali comportamenti degli utenti agevolano a volte l’accettazione delle rivendicazioni presentate da parte dei lavoratori. È attraverso le nuove tecnologie e le facilities provenienti da una conoscenza di dati e da una circolazione degli stessi in maniera diffusa, anche nel web, che perfino il conflitto più circoscritto può aspirare a conquistare forza tanto più è forte il coinvolgimento dell’utenza. Quest’ultima viene metaforicamente ad identificarsi con un “capitale aggiuntivo” rispetto “a un’impresa” organizzata, proclamata e realizzata dai lavoratori.
Valorizzare più attentamente una prospettiva di tal fatta, anche nel settore dei servizi pubblici essenziali, non soltanto può “mettere sotto accusa” quella parte della dottrina che negli anni, in nome della salvaguardia dei diritti degli utenti dei servizi richiamati nella l. 146/90, ha giustificato tout court il sacrificio del diritto di sciopero
182 e in parte del conflitto collettivo. Ma, per restare legati ad una metafora di cui s’è fatto uso nel capitolo secondo, si potrebbe sostenere che la “frontiera impenetrabile” realizzata dal legislatore del 1990 sia stata costruita ad arte per incentrare/concentrare la riflessione soltanto sul pregiudizio arrecato ai fruitori dei servizi pubblici ed essenziali, tralasciando e dimenticando, volontariamente invece, il reale ed obiettivo sacrificio che sopportano i lavoratori astenendosi collettivamente dal lavoro. Quanto affermato non implica, però, semplificazioni eccessive. È del tutto evidente che non si vuole sconfessare o stravolgere le operazioni di bilanciamento tra diritti costituzionali che sono state effettuate saggiamente dal Giudice delle leggi e quindi, ammettere che lo sciopero deve prevalere sempre e comunque. Più semplicemente, il tema sul quale s’intende focalizzare l’interesse riguarda piuttosto la scarsa attitudine o trascuratezza circa la conoscenza o pubblicità delle ragioni del conflitto collettivo, soprattutto quello occorso nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. Quante volte sono state rese pubbliche le motivazioni sottostanti all’azione di sciopero proclamata dal personale ferroviario o dagli autisti di mezzi su gomma? Quanto si è riconosciuto rilievo al fatto che chi partecipa ad uno sciopero rinuncia alla retribuzione per essersi astenuto dal lavoro? Questi brevi spunti servono per osservare che risulta non rinviabile insistere su una maggiore valorizzazione delle ragioni che sottendono alla protesta di lavoratori, più che sull’inserimento della risorsa arbitrale o sullo svuotamento del conflitto collettivo per il tramite della valorizzazione del ricorso allo sciopero virtuale. Cogliere e diffondere le ragioni del dissenso dei lavoratori significherebbe dare il giusto rilievo al disagio posto alla base dell’agitazione collettiva. E, nel contempo, significa accrescere la probabilità di riuscita del conflitto a fronte della condivisione che della protesta può sentirsi chiamata a prestare l’utenza del servizio in agitazione. Un effetto deflattivo della disputa, a sua volta, interverrebbe nel caso in cui l’oggetto dell’agitazione fosse di dubbia importanza. In tal caso, il pericolo di poter perdere l’appoggio futuro dei fruitori del servizio potrebbe indurre a rinunciare a quella data protesta, quindi ad uno stato di agitazione e di disservizio per la collettività.
Ma v’è di più. I nuovi scenari, prospettati dall’Unione europea ancora molto legata alla considerazione di una cultura più mercatilistica (tipica del Trattato di Maastricht) che predisposta a costruire un modello sociale europeo di diritti (nei termini riferiti dal Trattato di Lisbona), potenziano, al pari delle proposte di legge nazionali illustrate nella prima parte del capitolo II, la necessità di preservare
183 l’impresa, la sua libertà di stabilimento e di prestazione di servizi. Prendendo a prestito la consolidata giurisprudenza nazionale italiana, si potrebbe sostenere che nei precedenti europei Viking e Laval (su cui cap. 3, par. 3), più che essere salvaguardato e tutelato il profilo della produttività aziendale, risulta alquanto evidente il depotenziamento del conflitto di lavoro, trattandosi di un diritto che si colloca in condizione subalterna rispetto alla libertà economica di stabilirsi in un territorio o di distaccare parte della produzione in territorio straniero. Tale prospettiva, a ben vedere, non risulta tanto dissimile da quella tenuta in conto dagli accordi FIAT del 2010, sui quali s’è soffermata la seconda parte del capitolo II. Da quanto emerso, negli accordi stipulati per gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Mirafiori, il conflitto è uscito così depauperato delle sue potenzialità al punto che un’eventuale azione conflittuale può costituire rottura degli impegni assunti dall’azienda automobilistica, in ossequio del principio di inesigibilità richiamato, come già sottolineato, in più clausole delle intese citate. In queste recenti esperienze contrattuali si trova più d’un tratto di comunanza con il principio di fondo fatto proprio dalla Corte di giustizia dell’Unione europea: se in prima battuta, parte datoriale e sindacati firmatari hanno considerato, almeno a parole, lo sciopero come un diritto fondamentale della Carta costituzionale nazionale, non pare da escludersi anche in questo caso una subalternità dell’autotutela collettiva alle ragioni d’impresa, pena il trasferimento dell’attività produttiva in siti produttivi esteri. Confrontando dunque i precedenti scandinavi con le scelte adottate negli stabilimenti FIAT, non paiono riscontrabili rilevanti e significative differenze, se non il fatto che nel secondo caso le parti hanno agito in un’ottica preventiva, limitando sostanzialmente e convenzionalmente il conflitto a partire dalla fase preliminare.
Che lo sciopero sia stato relegato in un’area critica lo dimostrano anche altri elementi. Se dai casi Viking e Laval è conseguita la minaccia del risarcimento del danno proposto in sede giudiziale dall’impresa destinataria dello sciopero o di qualsivoglia altra forma di dissenso collettivo, il problema che si solleva dagli accordi FIAT riguarda l’esclusione/inibizione dell’azione conflittuale tout court, indipendentemente da successivi test di sufficienza, necessità e proporzionalità (cfr. clausole 14 e 15 dell’accordo di Pomigliano).
Entrambe le vicende, quelle giudiziarie scandinave, quelle contrattuali italiane, contribuiscono a indebolire l’azione collettiva nella sua concreta realizzazione. Di questa debolezza del conflitto collettivo hanno dato successiva dimostrazione la nota
184 vicenda della British Airways e, sul fronte nazionale, lo shock registrato dal nostro sistema di relazioni sindacali più propenso a emulare la giurisprudenza della CGUE che a tener conto della consolidata giurisprudenza nazionale a partire dalla sentenza 711/80 della Corte di Cassazione.
Le vicende FIAT denotano che una certa esperienza negoziale ha fallito rispetto alla capacità di scambio tipica di ogni contrattazione collettiva. E ciò in quanto più che lo schema della transazione, pare che gli accordi prodotti per gli stabilimenti di Pomigliano d’Arco e Mirafiori abbiano considerato soltanto l’istituto della rinuncia unilaterale da parte sindacale (non a caso si è parlato di single undertaking).
Riportando il discorso entro il contesto normativo di riferimento, si potrebbe affermare che l’Europa, almeno chi esercita il potere giurisdizionale e più timidamente l’esecutivo dell’Unione, guarda ad una parte del tutto come l’Italia, negli stabilimenti FIAT almeno, volge lo sguardo all’art. 41 cost., trascurando invece tutte le restanti disposizioni che a partire dagli artt. 39 e 40 e per finire agli artt. 3.2, 4, 35 ed 1 Cost. tutelano il lavoro e quindi, necessariamente l’indispensabilità del conflitto come motore del progresso sociale e come elemento chiave dell’emancipazione del lavoro, delle sue tutele e delle sue condizioni.
Da una visione complessiva emerge in sostanza la tendenza a limitare il conflitto collettivo da più fronti. A ridimensionare il perimetro dello sciopero e oggi anche più in generale del conflitto non è più soltanto il pregiudizio degli utenti, ma a quanto consta anche la tutela dell’impresa, nella sua produzione, quindi la globalizzazione.
Sul primo s’è ampiamente detto. Sul resto, qualche osservazione merita di essere ulteriormente svolta, soprattutto alla luce delle più recenti modifiche legislative nazionali che sembrano ispirarsi in maniera crescente alla c.d. domanda di securizzazione delle scelte datoriali. Soprattutto a partire dal Collegato lavoro 2010, l’ordinamento nazionale accoglie norme che vanno ad attribuire certezza alle scelte datoriali. Solo per citare qualche esempio, in questo senso si muovono le modifiche occorse in tema di contratto a termine oppure in proposito di art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Per contro, alla sensibilità di definire meccanismi giuridici capaci di preventivare il costo dell’eventuale verificazione del rischio per il datore di lavoro non si accompagna uguale considerazione della tutela del lavoro e della debolezza contrattuale che da sempre contraddistingue il prestatore di lavoro, ancor più se calato entro uno schema contrattuale flessibile. A meno che, di certezza non si voglia parlare nei termini di logica di condizioni a ribasso.
185 Quale futuro per il conflitto, dunque? Quali auspici a fronte di uno scenario che in maniera prevalente sembra mettere in rilievo l’ineluttabilità di limiti alle trade
disputes?
Ad orientare la risposta soccorrono sia la dimensione europea, sia quella delle relazioni sindacali.
Per un verso deve guardarsi con favore alla reazione “scatenata” dal Parlamento europeo (in occasione della Risoluzione del 2008 e della contestazione della proposta di regolamento presentata dalla Commissione europea nel marzo 2012) e dalla Confederazione europea dei sindacati dei lavoratori (con la richiesta di un protocollo aggiuntivo al Trattato di Lisbona): “i diritti sociali fondamentali non sono subordinati ai diritti economici in una gerarchia di libertà fondamentali”.
Per altro verso, qualcosa di importante s’è delineato in ambito nazionale e quindi merita di essere valorizzato.
A chi sostiene la sofferenza dell’ordinamento intersindacale progettato da Gino Giugni – in quanto oggi affetto di “ineffettività e inidoneità”1 - oltre che l’insufficienza del tavolo giurisdizionale come momento di confronto delle parti sociali, sembra opportuno replicare riconoscendo un certo valore alla postilla aggiunta (dopo l’intervento a gamba tesa fatto dal Governo mediante l’art. 8 del d.l. 138/2011) all’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011.
In un momento storico molto delicato, complicato tanto dalla crisi economica quanto da una incertezza politica inedita, eventi come quello appena richiamato sembrano riportare in “tavola” l’ingrediente fino ad oggi dimenticato, o quanto meno