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Fonte: P.Oxy. 1789, fr. 29, 2-7, et alii3. Metro: ionici a minore.

Altre figure retoriche attive: enallage.

Il contesto da cui sono tratti questi due versi è, sia per quanto riguarda la tradizione testuale4, sia dal

punto di vista esegetico, molto complesso. I problemi filologici relativi al frammento, inoltre, sono strettamente correlati con l'interpretazione generale dell'ode, che con molta probabilità appartiene al genere simposiale. Nei primi quattro versi emerge il lamento di una infelice figura femminile, afflitta iperbolicamente "da tutti i mali", che deplora il suo turpe destino, mentre sopraggiunge un incurabile infiacchimento delle membra (vv. 1-4 secondo le integrazioni di Voigt p. 181)5:

;Eme dei,lan( e;⸥me pai,s⸤an kakota,twn

pede,coisan⸥ domonoñÎ

#eñi mo,roj ai=scÎroj evpi. ga.r pa/r⸥os ÉavËni,aton ⸤ivkÉa,neiË(

1 Per metafora oggi si intende quel «processo linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, basato su una similitudine sottintesa, ossia su un rapporto analogico, per cui un vocabolo o una locuzione sono usati per esprimere un concetto diverso da quello che normalmente esprimono» (Vocabolario Treccani, s.v. Metafora). Cf. anche Lanza 200417, p. 191, n° 4, secondo cui la metafora intesa dai moderni corrisponde al solo quarto tipo di metafora

aristotelica, ossia a quello «per analogia». 2 Guidorizzi-Beta 2000, p. 17.

3 Nicosia 1976, pp. 185-190 spiega le dinamiche per cui si sono riuniti più testimoni, ottenendo quello che Voigt presenta nella sua edizione come numero 10. Vd. anche quest'ultima a p. 183.

4 Cf. Nicosia 1976, pp. 185-190-

5 LSJ traducono l'hapax pa/roj (= ion. ph/roj) = «loss of strength, dotage» (indebolimento, rimbambimento). Gentili- Catenacci 2007, pp. 195-196 intendono pa/roj = «piaga», riconducendolo al verbo phro,w = «mutilare», e attribuendogli un valore metaforico, di "ferita d'amore". Secondo Michelazzo 2007, p. 141 quest'ode costituirebbe una parodia caricaturale delle pene d'amore, e ciò spiegherebbe il ricorso all'artificio della persona loquens femminile da parte di Alceo.

Nell'ode 12 del III libro, Orazio trae ispirazione, quasi certamente, da questi versi non soltanto dal punto di vista letterario, ma anche metrico1. Da un confronto fra l'ode alcaica e il carme latino

emerge anche la presa di distanza, da parte di Orazio, dal modello greco – o dai modelli greci, che potrebbero essersi aggiunti a quello di Alceo2 - sia nel carattere, sia nei contenuti. Fra le differenze

più notevoli fra i due componimenti vi è il cambio di persona loquens: mentre nel carme di Alceo è la stessa figura femminile che lamenta la propria miserevole condizione3, nei versi latini è lo stesso

Orazio che si rivolge a Neobule (v. 6). Questa differenza, insieme ad altre, convinsero Giorgio Pasquali (1920, p.103) ad affermare che il carme oraziano «non è imitazione di Alceo se non nell'idea generale e nel principio; tutto il resto è oraziano e romano».

Il confronto con l'ambientazione erotica del carme latino ha indotto buona parte degli studiosi a leggere anche il frammento alcaico in chiave erotica, e ad interpretarlo come esempio di auto- compianto di una donna affranta per motivi amorosi4. Una questione aperta, e poco approfondita

dalla critica5, è la seguente: se nei versi alcaici la tematica è quella amorosa – così come certamente

nell'ode oraziana –, quale sarebbe il sentimento che muove la deilh, del primo verso a deplorare sé stessa? La perdita della persona amata o il non aver mai amato? Il desiderio di riconquista o il rimpianto di non aver mai amato? La disperazione di una nuova condizione di solitudine o la paura del deperimento fisico e di una conseguente difficoltà futura nel trovare marito?

La lettura dell'intera ode oraziana può essere, a nostro avviso, illuminante. Orazio, rivolgendosi ad una certa Neobule, ricorda che è proprio delle donne infelici (miserarum est) il non «giocare all'amore», il non «lavare gli affanni nel dolce vino» o, ancora, l'«essere terrorizzate temendo le sferzate della lingua dello zio», ovvero del tutore legale (carm. III, 12)6:

Miserarum est neque amori dare ludum È triste non giocare all'amore né sciogliere nel dolce

neque dulci mala vino lavere aut ex- vino gli affanni, o svenire atterrite ai colpi

animari metuentis patruae verbera linguae. vibrati dalla lingua d'uno zio paterno.

Tibi qualum Cythereae puer ales, Dal cesto delle lane il figlio alato di Citerea ti distoglie

tibi telas operosaeque Minervae o Neobule, dalle tele e dall'opera attenta di Minerva

studium aufert, Neobule, Liparaei nitor Hebri, lo splendore di Ebro lipareo,

simul unctos Tiberinis umeros la- quando bagna le lucenti spalle nelle onde tiberine,

vit in undis, eques ipso melior Bel- cavaliere più abile dello stesso Bellerofonte, e invincibile

lerophonte, neque pugno neque segni pede victus, nel pugilato o nella corsa,

catus idem per apertum fugientis esperto nel trafiggere i cervi in fuga sulla pianura

agitato grege cervos iaculari et in trepido branco, e rapido nel cogliere il cinghiale

1 Romano 1991, p. 778 ricorda che Orazio usa il metro ionico soltanto in quest'ode. Per l'importanza della poesia di Alceo in Orazio, che si vanta di aver diffuso a Roma l'opera del poeta di Mitilene, cf. De Martino-Vox, 1996, III, p. 1223 sgg.

2 Cf. Romano ibid. per il confronto con altri modelli greci, ma anche per la "romanizzazione" messa a punto da Orazio nella sua ode.

3 Nicosia 1976, p. 193 commenta: «rimane perciò definitivamente acquisita anche per Alceo, così come per altri lirici arcaici, l'esistenza di carmi in cui la persona loquens (...), diversa dal poeta, veniva introdotta fin dal primo verso a parlare di sé in forma immediata e diretta, e forse anche esauriva l'intero ambito del carme». Per un confronto con la poesia di Anacreonte, cf. Gentili 1958, pp. 215-217.

4 Cf. Nicosia ibid. pp. 198-199. In questo caso, i versi potrebbero essere interpretati come il lamento di un'amante di Alceo, oppure come il lamento di un personaggio tratto dal mito. Alcuni studiosi, infatti, come Page 1955, p. 293, ammettono la possibilità che dietro la persona loquens dei versi alcaici si possa celare una figura mitologica femminile.

5 Cf. ad esempio Liberman 1999, p. 27.

6 Per questa figura giuridica, prevista già dalle XII tavole, e per l'immagine della donna romana che si astiene dal vino, cf. Romano 1991, p. 779. Il testo dell'ode oraziana è quello edito da Borzsák 1984, p. 80. La traduzione riportata è di Canali 1991, p. 285.

celeri arto latitantem fruticeto excipere aprum. che si cela nell'intricata boscaglia.

In questi versi Orazio descrive con grande icasticità la vita tediosa di una fanciulla, Neobule, che, sottoposta alla tutela di un cattivo tutore, con angosciosa tristezza rivolge i soui pensieri, da lontano, a un giovane (Ebro) tratteggiato nitidamente nella sua bellezza, nella sua prestanza fisica e nella sua abilità alla caccia. Il messaggio del poeta latino è chiaro: la giovane che si sottrae, o è sottratta da altri, alle gioie dell'amore, non trova che angoscia e pentimento. La contestualizzazione dell'ode di Alceo, resa possibile dal confronto con il carme oraziano, è essenziale per la comprensione della metafora alcaica dei vv. 5-6. Dai dati certi in nostro possesso, fin dall'inizio dell'ode si evince la presenza di una figura femminile, che lamenta la sua situazione di infelicità ( ;Eme dei,lan) e il turpe destino (mo,roj ai=scÎroj) che le è toccato. Come si è accennato, non conosciamo il motivo di questa tristezza, ma sembra che alla sofferenza interiore per amore (per ciò che fu o per quello che non è mai stato), si aggiunga il dolore fisico dovuto all'infiacchimento delle membra - riferimento probabile alla vecchiaia1 - per il quale non esiste rimedio (evpi. ga.r pa/r

⸥os ÉavËni,aton ⸤ivkÉa,neiË).

Pur tenendo conto dell'adattamento operato da Orazio sui versi alcaici, è ragionevole pensare che anche Alceo tratteggi una figura femminile che soffre per l'assenza, o per la perdita, dell'amore. In questo contesto, quale valore potrebbe avere la metafora del bro,moj evla,fw? I problemi filologici ed esegetici dei vv 5-6 sono principalmente tre, e riguardano il genere di e;lafoj, il significato del verbo fu,w ed il rapporto semantico che lega bro,moj a fobero,j. Per quanto riguarda il primo nodo filologico, non è chiaro se nella metafora Alceo faccia allusione ad un cervo maschio o ad un cervo femmina. Il termine e;lafoj, come è noto, può indicare indistintamente sia il genere maschile sia quello femminile. In questi versi, inoltre, il genitivo evla,fw non è accompagnato da alcun articolo che potrebbe dirimere la questione. Il secondo problema è di carattere più grammatico-sintattico: se si mantiene il testo stabilito da Voigt, insieme alla sua punteggiatura, il verbo fu,w non può che essere inteso in senso intransitivo ("nascere")2. Questo significato, al presente indicativo, è molto

raro, trovando riscontro unicamente in due passi omerici (vd. infra). Per quanto attiene al terzo problema, è necessario capire quale rapporto semantico vi sia fra il suono bro,moj e l'aggettivo ad esso relativo fobero,j, che potrebbe avere un senso attivo ("che teme", "timoroso") oppure causativo ("che fa paura", "temibile"). Attraverso l'approfondita trattazione di questi problemi è possibile fornire una nuova interpretazione della metafora, e più in generale dell'ode alcaica.

Per sciogliere il dubbio sul genere del termine e;lafoj, la critica fa soprattutto riferimento ad Aristotele, il quale in HA 545a studia le differenze fra la voce del maschio e quella della femmina di diverse specie animali. Egli sostiene che i cervi maschi hanno una voce più grave di quella delle femmine, e che i primi emettono il verso durante la stagione della monta, mentre le seconde quando sono impaurite:

Fqe,ggontai d v oi` me.n a;rrenej [sc. e;lafoi], o[tan h` w[ra th/j ovcei,aj h=|( ai` de. qh,leiai( o[tan fobhqw/sin) Aristotele conclude la sua trattazione sulla voce dei cervi registrando che il verso delle femmine è breve (th/j qhlei,aj fwnh. bracei/a), mentre quello dei maschi ha una più lunga durata. Partendo da questi dati zoologici, Page 1955, pp. 291-292, prospetta, come ipotesi più verisimile – lo si evince dalla sua traduzione - che la metafora richiami il bramito di un cervo maschio (in ingl. deer), il quale lanciando un grido d'amore suscita lo scompiglio (di cui è forse un indizio il participio m#aino,menon) nel cuore timoroso di una eventuale cerva (in ingl. hind)3. In questo modo, sostiene lo

1 Un valido confronto può essere fatto con il frammento alcaico 39a V., molto frammentario a causa delle condizioni del papiro che lo tramanda (P.Oxy. 1233, fr. 8), in cui Alceo, rivolgendosi ad un interlocutore, sembra ricordare quanto sia fragile la vita umana, sottomessa al volere di Zeus, e alludere anche ai mali della vecchiaia. Cf. Liberman 1999, pp. 34-35.

2 Si è concordi oggi nel correggere il tràdito fu,ei in fui,ei per motivi prosodici. Cf. Gentili-Catenacci 2007, p. 196. 3 Il testo da cui Page partiva, inoltre, era leggermente differente da quello stabilito dalla Voigt, soprattutto per quanto

studioso oxoniense, doveva suonare la voce dell'amante (maschile) alle orecchie dell'io poetico (femminile) di questi versi. Secondo tale interpretazione, il verbo fu,w reggerebbe un ipotetico accusativo, di cui si avrebbe traccia nel participio m#aino,menon, e si eviterebbe di ricorrere al senso intransitivo del verbo fu,w. Poiché, come si è detto, questo verbo, al presente indicativo, è usato molto raramente in senso intransitivo, secondo Page bisognerebbe intenderlo non come "nascere, spuntare" (cf. Hom. Il. VI, v. 149, Od. IX, v. 109), ma con il suo più attestato senso di "generare".

Questa interpretazione si fonda però su un elemento assolutamente ipotetico (l'acc. in dipendenza da fu,ei) mentre l'altra [vd. anche la nostra traduzione, n.d.a.] appare attendibile sulla sola base degli elementi certi1.

In questo contesto, l'interpretazione dell'aggettivo fobero,j è fondamentale. Il suo significato attivo ("che ha paura" = "timoroso") è spiegato dallo scolio al v. 153 dell'Edipo Re di Sofocle (Schol. in S. OT v. 153, p. 171 Papageorgius = p. 35 Dindorf), che è anche uno dei testimoni di Alc. fr. 10 V., vv. 5-6. Dato per acquisito che il grido bro,moj è associato all'aggettivo fobero,j, e che quest'ultimo vuol dire "timoroso", è possibile apprezzare la bella enallage, secondo cui "grido timoroso di cervo" è espressione rielaborata su "grido di cervo timoroso".

È necessario, a questo punto, conoscere più approfonditamente ciò che il cervo rappresentava nell'immaginario greco, ricordando anche che il linguaggio figurato di questi versi ha come sfondo esecutivo il simposio, e che fa leva su un insieme di conoscenze e di sensazioni condivise dalla fantasi,a dell'uditorio: le immagini usate dovevano dunque essere dotate di chiarezza e di immediatezza espressiva, poiché qualità principale che permette ad una eivkw,n di funzionare è quella della evna,rgeia. Indipendentemente dalla scientificità con cui Aristotele tratta il tema, è bene inquadrare il cervo nell'ambito dell'immaginario arcaico, prima di capire perché Alceo evochi il suo suono. L'analisi dei frammenti lirici non può, a nostro avviso, prescindere dal confronto con Omero, non soltanto perché l'epos influenza direttamente i poeti, ma anche perché esso costituisce una cassa di risonanza della maniera di pensare e di percepire i fenomeni in tutto il periodo arcaico. In Omero il cervo, di genere sia maschile sia femminile, è visto come animale notoriamente pavido. In molte descrizioni esso è inseguito o divorato da leoni o da altri predatori2. Altre volte i cervi sono

rappresentati in compagnia di Artemide (in similitudine, Hom. Od. VI, v. 104). Nella maggior parte dei casi, il cervo è presente nel linguaggio figurato. Omero richiama la sua velocità, e allo stesso tempo la sua impotenza di fronte ai predatori. Si prenda ad esempio Hom. Il. XIII, vv. 99-104: w' po,poi h= me,ga qau/ma to,d v ovfqalmoi/sin o`rw/mai( ohimé grande prodigio vedo coi miei occhi

deino,n( o] ou; pot v e;gwge teleuth,sesqai e;faskon( terribile, che mai avrei creduto si compisse Trw/aj evf v h`mete,raj ive,nai ne,aj( oi] to. pa,roj per Troiani giungere alle nostre navi, loro che prima

fuzakinh|/j evla,foisin evoi,kesan( ai[ te kaq v u[lhn assomigliavano a cerve pronte alla fuga, che nella foresta qw,wn pardali,wn te lu,kwn t v h;i?a pe,lontai sono pasto per sciacalli, pantere e lupi,

au;twj hvla,skousai avna,lkidej( ouvd v e;pi ca,rmh\ che errano così, deboli, senza spinta al combattimento. In questo caso, le cerve sono simbolo di codardia, di viltà, e di inettitudine. Chiedersi se il cervo dei versi di Alceo sia maschio o femmina è, a nostro avviso, un problema ozioso. Aristotele tratta la

riguarda il tràdito fo,beroj, per il quale accettava la correzione (per motivi sticometrici) di Lobel in fobe,roisin, che veniva ad essere accordato con sth,qesi. Per la divisione sticometrica di questi versi, cf. Gentili-Catenacci ibid., p. 195, che, fra l'altro, accettano nel testo fobe,roisin.

1 Nicosia 1976, p. 192, il quale nella stessa pagina adduce tutti gli elementi che farebbero propendere per l'interpretazione di un bramito di cerva e non di cervo.

2 Cf. Hom. Il. III, v. 24 (in similitudine, divorato dal leone), XI, v. 475 (in similitudine, inseguito e divorato prima da sciacalli, poi da un leone), XV, v. 271 (in simil., inseguito da cani e contadini), Od. VI, v. 133 (in similitudine, assalite da un leone montano), X, v. 158 sgg. (ucciso, e poi, mangiato da Ulisse e i suoi compagni nell'isola di Circe), XIII, v. 436 (pelle della "cerva veloce" che Atena getta addosso a Ulisse, trasformandolo in vecchio).

distinzione del verso maschile da quello femminile in un contesto scientifico, con la precisione che esigono le descrizioni naturalistiche. I versi di Alceo, invece, richiamano l'immagine ed il verso del cervo, destando l'occhio e l'orecchio mentale dell'uditorio, attraverso una metafora, in cui non occorre (ma anzi osta) la precisione di un trattato di zoologia. Quello a cui allude l'infelice donna della persona loquens è l'immagine che nel periodo arcaico si aveva dell' e;lafoj, animale debole, indifeso, timoroso1, così come, mutatis mutandis, lo ritrae Orazio nell'ultima strofa dell'ode III, 12.

Nella nostra traduzione il termine "cervo" sta ad indicare l'animale cervo, a prescindere da ogni distinzione di genere2. Il riferimento a Omero è illuminante anche per quanto riguarda la traduzione

del verbo fu,w: nonostante il suo impiego in senso intransitivo sia raro, tuttavia le due occorrenze omeriche di fu,w al presente indicativo (cf. Hom. Il. VI, v. 149, Od. IX, v. 109)3 con il significato

"spuntare, nascere", detto in particolare di specie vegetali, sembrano sufficienti per poter accogliere la proposta esegetica di "fu,w = nascere" come quella più probabile. Se, come proposto, si intende la metafora di Alceo in senso generico, e non strettamente zoologico, il cervo appare dunque come animale simbolo di debolezza e di timorosità. Questa consapevolezza potrebbe anche far intendere l'ambiguità che nella lingua greca risiede nell'aggettivo deilo,j, usato dal personaggio femminile all'inizio dell'ode alcaica per compiangere sé stessa con il senso di "infelice" (e;me dei,lan = cf. Miserarum est oraziano), ma che in greco può voler dire anche "timido", "timoroso" come un cervo. Questa spiegazione di carattere culturale si sovrappone a quella, di ordine più prettamente semantico, offerta dallo scolio all'Edipo Re, che ricorda il valore attivo di fobero,j = "che ha paura", "timoroso" (e non causativo "terribile") in questo contesto. Ancora in Omero "avere cuore di cervo" vale "essere codardo, timoroso". Con questi infamanti epiteti Achille accusa Agamennone di codardia (Il. I, v. 225):

oivnobare,j( kino.j o;mmat v e;cwn( kradi,hn d v evla,foio( ubriaco, che hai sguardo di cane, cuore di cervo,

In questa ricostruzione "culturale" della metafora usata da Alceo, bisogna rilevare l'importanza che vi assume il grido bro,moj. Questo termine è associato nella letteratura arcaica a diverse sensazioni sonore: il crepitare del fuoco (Hom. Il., XIV, v. 396), il fragore del fulmine (Pi. O. II, v. 25), il rombo di un uragano (A. Th., v. 213), lo scalpitìo minaccioso di zoccoli equini (ibid. v. 476), ma anche il gioioso suono di flauti (h.Merc., v. 452). L'elemento comune a tutte queste fonti sonore è la forza di risonanza, caratteristica anche del verso dei cervi. In un altro passo dello stesso Alceo, il corradicale verbo bre,mw esprime la risonanza dell'"eco divina" di un sacro grido femminile (fr. 130b V., vv. 18-20)4. Essendo, dunque, il bro,moj termine generico e non specificatamente correlato con il

cervo, preferiamo tradurre con "grido" anziché con "bramito", evitando la connotazione in senso "maschile" di questo suono: nella lingua italiana, infatti, "bramire" e "bramito" designano soprattutto il verso che il cervo maschio emette nella "stagione degli amori" per attirare l'attenzione della cerva femmina.

Si ricordi, infine, il contesto dell'ode arcaica: fin dall'incipit la persona loquens è una donna che

1 Il simile nebro,j (cerbiatto), invece, sembra essere visto dalla cultura arcaica e classica come animale elegante e affabile. Cf. B. XIII, vv. 87-90 (metafora di una fanciulla che canta e danza) ed E. Ba., v. 866 sgg. (in un paragone con il coro danzante nelle veglie orgiastiche in onore di Bacco e Cibele).

2 Diversamente, altri studiosi pongono l'accento sul genere maschile (Page, vd. supra, ma anche Fränkel 1928, pp. 272-273), o femminile del termine e;lafoj. Su quest'ultima, si vedano Gallavotti 19572, vol. II, p. 142, che traduce:

«un atterrito belato di cerbiatta sorge nel petto», e Liberman 1999, p. 28: «le grondement apeuré de la biche s'élève

dans mon cœur». Gentili-Catenacci 2007, p. 196 considerano le diverse soluzioni interpretative, a seconda che si

intenda e;lafoj in senso maschile o femminile.

3 A questi si aggiunga Pi. O. IV, v. 25a e, in prosa, Hdt. VIII, 138. 4 Vd. pp. 28-29.

soffre per amore1 – forse per non aver voluto, o per non aver potuto, conoscere l'amore, come

suggerirebbe il confronto con l'ode oraziana. La sua sofferenza è bene espressa, al v. 1, anche dal ritmo lamentoso e drammatico degli ionici con le dieresi dopo ciascun metron2. Ella richiama con

due termini in posizione enfatica la sua condizione di donna infelice: dei,lan e pade,coisan. È possibile che insieme alla tristezza per un così turpe destino (cf. v. 3: #eñi mo,roj ai=scÎroj) ella paventi le sofferenze fisiche dovute al suo dolore interiore, e insieme l'infiacchimento incurabile delle membra (v. 3) nella vecchiaia3. In reazione a questo sconforto fisico e morale nasce dunque un

metaforico "grido nel petto" come quello del cervo, animale per eccellenza debole, senza difese e timoroso (cf. supra). L'ode, forse, continuava con una descrizione di delirio (v. 6: m#aino,menon) e con il ricordo, o la predizione, di altre sventure (v. 7)4. Un delirio di questo genere, cantato da una

donna per la lontananza dall'oggetto amato, con l'evocazione di dolori fisici e di sensazioni sonore, è quello più famoso di Saffo (fr. 31 V.), dove si ritrova un corradicale del termine bro,moj (v. 11-12: evpibro,&Õmeisi d v a;kouai), secondo la correzione di Bergk5.

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