• Non ci sono risultati.

Ancora qualche riflessione introduttiva

SECONDA PARTE LA FOLLIA

1. LE ESPERIENZE DEI LIMIT

1.1. Ancora qualche riflessione introduttiva

Prima di intraprendere un nuovo attraversamento dell’opera di Marguerite Duras, guidato dall’intenzione di accostare il tema della follia, riemerge la necessità per chi scrive di tornare a interrogarsi sull’origine e sullo scopo di questo percorso, di questa lettura dell’opera durassiana a partire da uno sguardo “filosofico”.

Che cosa attrae uno sguardo “filosofico” verso un’opera letteraria?

Il confronto tra filosofia e letteratura ha una storia molto lunga, anche se talvolta questo confronto è stato conflittuale, come nel caso della condanna platonica dell’arte. Al di là di tale condanna, il fatto è che sia la letteratura che la filosofia condividono la passione per il linguaggio: sia l’una che l’altra affrontano problemi di linguaggio, sia pure con stili e modalità differenti. Sia l’una che l’altra, inoltre, sono l’espressione del lavorio profondo di quelli che Wittgenstein, nel suo Tractatus logico-philosophicus, chiama «i nostri problemi vitali» introducono nell’esperienza umana.

Nella tradizione il linguaggio era sempre stato considerato uno strumento neutro con cui poter comunicare la “verità” o, almeno, quella parte di “verità” che è comunicabile. Il lavoro dei poeti poteva risultare, perciò, ambiguo e retorico, rispetto a un’ordinata e schietta esposizione della verità. Nel momento in cui, però, il linguaggio si è rivelato ciò che determina quello che è possibile dire e nella cui struttura si riverbera l’organizzazione di un certo rapporto con il reale, è apparso chiaramente che non è possibile considerare il linguaggio come un semplice strumento. Il soggetto che, parlando, pretendeva di esprimere la sua verità con il linguaggio si scopre in realtà “parlato” dal linguaggio stesso. Questo incidente, questo Zufäll1, ha avuto storicamente delle conseguenze molto ampie, di cui è difficile

assumere una piena consapevolezza storica e critica. Si può dire, però, che una delle questioni che, almeno a partire dalla filosofia moderna, era sempre stata problematica, abbia assunto un carattere ancora più complesso e sfuggente e abbia richiesto di essere posta diversamente: la questione del soggetto dell’enunciazione. Chi parla? Se chi parla in realtà è parlato, la singolarità di ogni atto di enunciazione perde qualsiasi valore in quanto tale, per assumere solo quello di una funzione linguistica, già stabilita dal linguaggio e ricompresa in esso? Tutto ciò che è fuori dalle possibilità del linguaggio

1 Zufälle è la parola che Georg Büchner utilizza per indicare i turbamenti del poeta Lenz, nel suo racconto omonimo. Questa

parola è stata ripresa da Ingeborg Bachmann nel titolo del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner nel 1964, Ein Ort für Zufälle, che è stato tradotto in italiano con Luogo eventuale. Come si legge nella postfazione all’edizione italiana del testo di Bachmann, questa parola all’epoca di Büchner, «indicava quel disturbo patologico, quel manifestarsi di uno stato morboso che oggi chiamiamo accesso (Anfall), ma anche l’avvenimento imprevedibile che si sottrae alla nostra ragione e intenzionalità: l’accidente, come oggigiorno ci è noto; e infine la possibilità impensata, l’eventualità». (Christine Koschel e Inge von Weidenbaum, Berlino – Simbolo di minacciosa disarmonia, in Ingeborg Bachmann, Luogo eventuale, tr. it. di Bruna Bianchi, SE, Milano 1992, p. 75) Probabilmente non è corretto usare questa parola per indicare i cambiamenti che sono avvenuti e che avvengono all’interno del discorso filosofico, ma pensare questi ultimi come degli accidenti e delle eventualità permette di rendere conto dell’effetto inquietante e, allo stesso tempo, creativo che l’esperienza e la riflessione di alcuni filosofi suscitano. Considerare come delle eventualità tali riflessioni, che aprono delle faglie all’interno del pensiero e dell’esperienza, significa riconoscere proprio la natura creativa e inaspettata del loro rigore.

86

rimane disperatamente indicibile? È forse possibile dire una parola “vera”, che non sia una di quelle già comprese tra le possibilità del linguaggio e che sia invece intimamente legata alla singolarità di chi la pronuncia? Questa parola “vera” è forse un silenzio delle parole? Ha un carattere solamente negativo? Come concepire la singolarità di un atto di enunciazione e la singolarità che compie questo atto quando si ha la consapevolezza dal fatto che siamo parlati dal linguaggio?

A partire da simili questioni si sono sviluppate alcune delle ricerche più profonde all’interno della filosofia contemporanea.

Questi interrogativi, però, proprio perché legati al linguaggio, hanno coinvolto anche la letteratura e l’arte, dando origine ad altrettante produzioni e ricerche.

Pur condividendo alcuni dei nodi problematici indicati sopra, la pratica della filosofia e la pratica della scrittura letteraria rimangono comunque differenti. Mentre la prima è orientata da una ricerca di comprensione e dei limiti della possibilità di questa comprensione, la seconda crea opere, “fa opera” di quegli infortuni del linguaggio.

Se le questioni che guidano questo progetto di ricerca sono: Chi parla? Tutto ciò che è fuori dalle possibilità del linguaggio rimane disperatamente indicibile? È forse possibile dire una parola “vera”, che non sia una di quelle già comprese tra le possibilità del linguaggio e che sia intimamente legata alla singolarità di chi la pronuncia? Questa parola “vera” è forse solo un silenzio?2, perché rivolgersi verso la

letteratura? Che cosa attrae uno sguardo filosofico verso un’opera letteraria?

Ciò che orienta questa ricerca non può essere l’intenzione di trovare l’esemplificazione e la rappresentazione di un percorso di riflessione filosofica condotto altrove e con altri strumenti rispetto all’opera letteraria stessa.

Si tratta piuttosto di qualcosa che accade nell’esperienza della lettura, quando in qualche modo ci si sente chiamati in causa dall’opera, ci si sente guardati da essa e presi all’interno del mondo che essa costruisce. In quella condizione lo sguardo è preso all’interno del percorso suggerito dall’opera e il lettore partecipa quasi involontariamente alla costruzione di un immaginario che non è il suo, ma a cui non può accedere senza concedere una parte della “materia” delle proprie immagini a quelle suggerite dallo scrittore. È così che, forse per una serie di fraintendimenti successivi, il lettore partecipa dell’opera letteraria. È così che lo sguardo non è più “dall’esterno”, non è più oggettivante. È così che, attraverso lo schermo di un’immagine, lo sguardo non vede più ciò che vuole vedere, ma si sente guardato, detto da parole estranee, ma che, nonostante questo, lo riguardano. Ciò che è importante da un punto di vista filosofico qui non è tanto il fatto dell’immedesimazione psicologica del lettore nella lettura, quanto la

2 E poi, perché parlare? Cosa significa qui parlare, tanto da risultare così importante? Essere, venire in presenza. Quindi

parlare per venire in presenza? Ma siamo già presenti e per questo parliamo. Perché parlare, anche inteso come venire in presenza? Perché è la sensazione o il sospetto di essere sempre altrove rispetto a dove siamo consapevoli di essere. È questo disequilibrio rispetto al reale che, forse, fa sorgere la necessità di parlare. E questo disequilibrio forma una cassa di risonanza, che non si può fare a meno di sentire risuonare. Senz’altra ragione che questa, forse.

87

deposizione di uno sguardo oggettivante per mezzo di uno schermo, che delude lo sguardo. Che cosa resta, infatti, dopo un’intensa lettura? È sempre difficile dirlo precisamente e più ci si ostina a cercare di definire “il fondamentale” di quell’opera, più esso sfugge. Perché “il fondamentale” probabilmente si trova nel momento della deposizione di uno sguardo oggettivante, quando, attraverso un’immagine, sembra che le parole dicano più di quello che dicono, dicano qualcosa di comune anche al lettore, che infrange la netta separazione tra ciò che è interno e ciò che è esterno.

Rivolgersi a un’opera letteraria, con uno sguardo filosofico significa scommettere su una possibilità di pensare alla questione del “chi parla?” secondo termini problematici diversi da quelli tradizionali, di opposizione fra soggetto e oggetto. Quello che si cerca di mettere in evidenza nel caso particolare di questo progetto di ricerca sull’opera di Marguerite Duras è quale scrittura sia ancora possibile a partire dalla disgregazione delle sicurezze rispetto al linguaggio e alla soggettività. Il fatto stesso che questa scrittura esista conduce a riflettere sul fatto che forse l’indicibile non è un al di là del dicibile, ma che piuttosto dicibile e indicibile si innestano l’uno nell’altro, l’uno come il rovescio inscindibile dell’altro.

Documenti correlati