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L’immagine durassiana dell’ombra interna

CONFRONTO TRA LA SCRITTURA DI MARGUERITE DURAS E LA RIFLESSIONE DI MAURICE BLANCHOT

3.4. L’immagine durassiana dell’ombra interna

Quando parla della scrittura Duras usa spesso un’immagine, che le è molto cara: quella dell’ombra interna. Attraverso questa immagine la scrittrice tenta di rendere conto del movimento più profondo della propria scrittura. Potrebbe essere utile avvicinarsi con attenzione all’immagine dell’ombra interna per comprendere più a fondo il ruolo dell’io e dell’interiorità nella scrittura durassiana, in relazione anche a quanto è emerso dal confronto con la riflessione di Blanchot. In un’intervista del 1967, rilasciata a Jean Schuster, Duras dice:

«Ti incontro, ti guardo, ti parlo, ti lascio. E poi: lei lo ha incontrato, lei lo ha guardato, gli ha parlato, lo ha lasciato. E poi:

cos’è successo? E poi alla fine: è successo questo perché si tratta di me. Nell’ombra interna dove l’io attraverso me si fomenta, nella mia regione scritta, leggo che è successo questo. Se non sono un professionista, prendo carta e penna e opero la conversione della

conversione. Cosa faccio facendo questo? Tento di tradurre l’intraducibile, di rendere leggibile l’illeggibile passando attraverso il veicolo di un linguaggio indifferenziato, egualitario. Mi privo dunque dell’integrità dell’ombra interna che, in me, bilancia la mia vita vissuta, controbilancia la mia vita vissuta con la mia vita rivissuta. Mi tolgo dalla massa interiore, faccio all’esterno ciò che devo fare dentro. Mi mutilo dell’ombra interna, nel migliore dei casi. Ho l’illusione di fare ordine e invece svuoto, di far luce e invece faccio scomparire. […] Noi scrittori, buoni o cattivi, siamo tutti mutilati dell’ombra interna, rattoppiamo l’ombra interna»106.

In un articolo raccolto in Il nero Atlantico, pubblicato nel 1993, Duras scrive:

«l’ombra storica di ogni individuo […] Continuerò a chiamarlo così, questo magma geniale, sempre, senza eccezione, che “rende” vive le persone, chiunque esse siano, in qualunque società e in ogni tempo. […] Con i

106 Marguerite Duras, Voci off, in Edda Melon (a cura di), Duras mon amour 2. Saggi italiani su Marguerite Duras, Lindau, Torino

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testi, si tratta di abbandonare all’esterno quello che per sua natura dovrebbe restare intrinsecamente legato alla persona e accompagnarla fin dentro la morte»107.

Attraverso la scrittura l’ombra interna viene spostata all’esterno. Non si tratta, però, solamente di portare alla luce dei contenuti nascosti della coscienza individuale, ma di esteriorizzare il movimento più intimo della vita soggettiva. Nell’intervista del 1967 Duras descrive una soggettività porosa, attraversata dagli eventi e dagli incontri, che vengono poi rivissuti all’interno, fatti risuonare e, in qualche modo, scritti con una scrittura “interiore”. Tale scrittura interiore non fa ordine, non descrive, non spiega gli eventi, ma, in fondo, dice solo il coinvolgimento del soggetto in quegli eventi, il suo coinvolgimento con l’esterno e con gli altri nel suo luogo più intimo. La soggettività, quindi, per Duras non è affatto chiusa, ma assomiglia piuttosto a una cavità aperta, in cui si forma un eco della vita vissuta, quello che lei chiama la “vita rivissuta”.

Attraverso l’immagine dell’ombra interna Duras permette di cogliere, all’interno della dinamica tra vita vissuta e vita rivissuta, il ruolo o il luogo dell’io. Un’ombra si origina quando qualcosa si frappone tra una fonte di luce e una superficie. È l’io che vive, che è illuminato e coinvolto negli eventi e negli incontri, che produce ombra. L’essere umano che dice io, anche con il suo corpo, è un’opacità che proietta un’ombra nel reale. Nel proiettarsi dell’ombra si origina qualcosa come un’interiorità, una cavità in cui la vita vissuta risuona e viene rivissuta, senza per questo essere fermata. La soggettività, di cui l’io è una componente, appare proprio come una cavità, una camera d’echi e si costituisce nella dinamica fra vita vissuta e vita rivissuta, luce e ombra, nella dinamica di una scrittura “interiore”. Duras stessa, in un’intervista concessa a Xavière Gauthier, parla di sé e del proprio essere scrittrice come di una «chambre

d’échos»108.

Risulta chiaro allora come la soggettività non sia affatto una sostanza chiusa e definita, che elabora e custodisce al suo interno un senso e che può scrivere una storia orientata da questo senso. Le parole di Duras mettono in discussione questa visone sostanzialistica della soggettività e la possibilità stessa di costruire una storia, senza tuttavia negare il movimento di formazione di un’interiorità soggettiva, che avviene attraverso una scrittura “interiore”. Tale interiorità, però, è solo una camera d’echi e di ombre del reale, che si lascia attraversare dal suo passaggio e lo fa risuonare, senza fermarlo. Tale interiorità è scrittura. Secondo Duras tutte le persone “scrivono” la propria vita vivendola: «la natura dell’ombra interna porta a sapere questo: che è un dato comune»109. Questa “scrittura” legata alla vita, questo far

risuonare la vita, è «quel magma geniale, sempre, senza eccezione che rende “vive” le persone», è ciò che «dovrebbe restare intrinsecamente legato alla persona e accompagnarla fin dentro alla morte».

107 Marguerite Duras, Marguerite Duras, Il nero Atlantico, cit., pp. 53-55.

108 Marguerite Duras, Xavière Gauthier, Les Parleuses, Les Éditions de Minuit, Paris 1974, p. 218.

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Diversamente dalle altre persone, lo scrittore porta all’esterno questo movimento. Questa esteriorizzazione per Duras ha il valore di una «proclamazione dell’io»110, a rigore, poco degna di ammirazione, e, in fondo, di un tradimento della vita. Lo scrittore cerca di far luce nella propria ombra interna, di darle voce e «fare ordine» e, quindi, la mutila, la tradisce. L’aggettivo “propria” in questo caso non indica che lo scrittore parli della sua vita privata, perché, come si è già visto, da un lato la riserva di scrittura è della stessa “natura” in tutte le persone e, dall’altro, la regione più intima del vissuto si è rivelata aperta all’esterno. Cercando di scrivere la singolarità della propria eco lo scrittore dà voce a qualcosa che non è solamente suo, privato, ma che può entrare in risonanza con gli altri.

Lo spostamento all’esterno della scrittura non è, però, affatto semplice. Si tratta, infatti, di «tradurre l’intraducibile» della scrittura e della vita “interiori” in un «linguaggio indifferenziato». Con quest’ultima espressione Duras mette l’accento sulla dimensione strumentale e astratta del linguaggio, che appare come un utile mezzo di scambio incapace, però, di dar voce all’immediatezza e all’intensità di un evento singolare. L’immediatezza e l’intensità sono dunque assenti da questo linguaggio, che pretende comunque di poter descrivere e ordinare le cose. Come si sviluppa allora il lavoro letterario di Duras, nel tentativo di dar voce all’eco dell’ombra interna? La scrittura durassiana si sottrae alla funzione strumentale del linguaggio e al suo potere di organizzare un’elaborazione concettuale del reale, mettendo in discussione il rapporto di rappresentazione tra le parole e le cose. Quello che interessa a Duras non è descrivere il reale nella maniera più affidabile possibile, ma restituire la sua intensità in relazione al vissuto soggettivo; per questo motivo la scrittrice si allontana sempre più dalla forma del romanzo tradizionale e rinuncia alla descrizione, per affidarsi piuttosto a un’espressione scarna ed essenziale, che si avvicina alla poesia. La scrittura di Duras diviene evocativa: le parole e le immagini non vogliono più rappresentare qualcosa, ma evocare attorno a sé un’intensità, che sappia restituire, nella forma del ricordo e dell’immaginario, l’eco del vissuto. La parola poetica, quindi, non rappresenta la cosa, ma dice piuttosto la sua assenza, la evoca. A questo livello, in cui la parola non rinvia più alla cosa, ma alla sua assenza, il linguaggio è sottratto alla sua funzione strumentale; svincolato dalla logica referenziale, il linguaggio appare in quanto tale. In questa maniera, la scrittura durassiana mette in campo un estremo tentativo di dire l’indicibile; essa non può tradurre direttamente l’eco intraducibile dell’ombra interna, ma può restituirne indirettamente il movimento. Nel tentativo impossibile di dire l’indicibile la scrittura porta in superficie il suo stesso incessante movimento, che, al limite, non dice altro che se stesso, ma che diventa a sua volta eco del movimento intraducibile dell’eco dell’ombra interna, in cui continuamente si “scrive” il vissuto soggettivo.

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4.

L’INFANZIA NELLE ULTIME OPERE

Nell’ultima fase della sua produzione letteraria Duras approfondisce i caratteri dell’infanzia: le figure dei bambini assumono un rilievo sempre maggiore, fino a diventare i protagonisti delle sue opere. Le protagoniste de L’amante e de L’amante della Cina del Nord sono bambine; attorno alle figure di bambini si scrivono anche le vicende di L’Eté 80 (1980), di La pluie d’eté (1990), di Yann Andrea Steiner (1992) e di

La Mort du jeune aviateur anglais (1993). Anche nelle sue interviste e nei suoi articoli la scrittrice torna con insistenza sulla dimensione dell’infanzia, offrendo la possibilità di cogliere il valore che essa prende all’interno della sua poetica.

Che l’infanzia sia sempre stata uno degli elementi fondamentali per la scrittura durassiana lo dimostra quanto l’autrice scrive in uno dei quaderni, pubblicati postumi in Quaderni della guerra e altri testi, ma scritti tra il 1943 e il 1949:

«Sono passati appena tredici anni da quando queste cose sono accadute e da quando la nostra famiglia si è divisa, […]. Solo tredici anni. Nessun’altra ragione mi spinge a scriverli se non questo istinto di riesumazione. È molto semplice. Se non scrivo a poco a poco dimenticherò. Questo pensiero è spaventoso. Se non sono fedele a me stessa, a chi lo sarò? […] È così terribile e allo stesso tempo non ha molta importanza. Giudicare insignificante la propria infanzia è prova, credo, di una miscredenza innata – definitiva, totale»111.

In questo passo scrivere dell’infanzia è un impegno preso per non dimenticarla, uno sforzo per raggiungere una dimensione dell’esistenza dell’autrice, dalla quale quest’ultima si sente già separata, anche se sono passati così pochi anni: «ho l’impressione, da quando ho cominciato a scrivere questi ricordi, di dissotterrarli da un insabbiamento millenario»112. L’infanzia assume fin dai primi scritti

dell’autrice i caratteri di una dimensione dell’esperienza molto importante, sulla quale la scrittura si affatica, ma che risulta separata e impenetrabile. La scrittura, il cui impegno cerca di porre rimedio al rischio «terribile» di dimenticare, percepisce già la propria debolezza, la poca «importanza» della sua operazione di fronte alla potenza e all’impenetrabilità dell’infanzia.

Il rapporto tra l’infanzia e la scrittura emerge nuovamente, molti anni dopo, in un’intervista, in cui Duras dice:

«Pour moi, l’enfant est une sorte d’antidote. Quand l’enfant arrive sur la scène du roman, il cache le drame: quel que soit ce

drame, il le cache. […] L’enfance […] est le point où le drame se meurt toujours, où le drame n’accroche jamais»113.

L’infanzia, dunque, per Duras è estranea ai drammi e, all’interno dei romanzi, costituisce una regione su cui il dramma e la scrittura non hanno presa, si arrestano. Anne Cousseau , nella sua analisi, nega che questa affermazione sia vera, osservando, come si è già visto, che i bambini nei testi durassiani hanno spesso una funzione contrappuntistica in relazione ai personaggi principali, quella di rivelare il dramma interiore dei personaggi. Se, da un lato, all’interno di un’analisi semiologica dei testi, questo può essere

111 Marguerite Duras, Quaderni della guerra e altri testi, cit., p. 58. 112 Ibidem.

113 Intervista con Madeleine Chapsal, in Madeleine Chapsal, Quinze écrivains, Julliard, Paris 1963, in Anne Cousseau, Poétique de

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vero, rimane il fatto che nuovamente, per Duras, l’infanzia appare come una regione contigua, ma estranea alla scrittura, che non le permette di chiudersi su stessa.

Nell’intervento del 1981 Ho pensato spesso…, raccolto e pubblicato in Il nero Atlantico, Duras articola il rapporto tra la scrittura e la vita in relazione al problema del senso. Da questa articolazione emerge anche il valore che la scrittrice attribuisce all’infanzia:

«Lo scritto non mi aiuta a vivere, neppure per un attimo. Quello che aiuta a vivere è l’istante, in se stesso, arduo inafferrabile. Nessun’altra nozione. […] Il problema – l’ho detto, ricomincio a dirlo di nuovo – è occupare il tempo della vita. È meglio occuparlo che non occuparlo, perché, a volte, farlo è talmente avvincente che si dimentica la morte, questo margine stretto, questo fiume, questo filo d’acqua. La vita è limitata alla vita. Come persuadersene? Allora è meglio fare piuttosto che non fare quello che faccio, scrivere, è meglio fare questo piuttosto che niente. Se si può fare altrimenti, per esempio niente, forse è meglio non fare niente. […]

La disperazione gioiosa non è una ragione di vita, è una ragione per non uccidersi – uccidersi è ingenuo, è una forma di intelligenza mentale. La vita è lì, in sé, perché non coglierla, è lì, siamo ricchi, perché non prendersi il tempo di vivere, è lì, è dato anche se è semplicemente misterioso, perché rifiutare questa provocazione insolubile? Rifiutare la vita è crederci. Non si può uscirne, la vita è sopravvivenza, non c’è modo di viverla altrimenti. […] Non c’è risposta alla vita, tranne viverla.

Le risate dei bambini, la loro allegria, i loro attacchi di ridarella, sono l’unica esigenza autentica, mi sembra»114.

Il brano è molto affascinante e, forse, può avere anche un carattere provocatorio, ma in esso si possono ritrovare alcune coordinate fondamentali della poetica durassiana. Emerge, infatti, il problema cruciale del senso, che per Duras non si dà che come assente: il problema più importante per l’uomo è quello di non riuscire a persuadersi che «la vita è limitata alla vita», di non poter smettere di chiedere una ragione della vita. Da questa esigenza, da questa inadeguatezza rispetto alla vita, provengono tutte le sue creazioni, «gli dèi, i poemi, il suicidio»115 e anche la scrittura, ma esse non costituiscono comunque una risposta: «non c’è risposta alla vita, tranne viverla». La vita, dunque, appare a Duras come sopravvivenza e il vero problema è quello di occupare il tempo, dato che né la domanda né alcuna risposta che si possa dare sulla vita riescono a scalfirne il mistero; il dramma cruciale dell’uomo nelle parole di Duras assume un carattere tragicamente ironico. I bambini e l’infanzia, però, risultano nuovamente estranei a questo dramma; rispetto ad esso, infatti, anche i loro giochi e le loro risate sono «autentiche». Sembra quasi che essi non soffrano di quella inadeguatezza alla vita, da cui hanno origine il dramma dell’essere umano e la scrittura. L’infanzia, dunque, sembra costituire una dimensione di intimità con la vita, che è in grado di stabilire un rapporto diretto con il reale. Sull’immediatezza dell’infanzia si arrestano il dramma e il dubbio umani e anche il linguaggio; all’infanzia appartiene la dimensione del silenzio. Se la scrittura durassiana, soprattutto nella sua ultima fase, si rivolge con molta attenzione alla dimensione dell’infanzia, significa che essa è attratta da una dimensione che fa tacere la scrittura stessa, in direzione di un’autenticità del tutto eterogenea rispetto al problema del senso, ma piuttosto legata alla materialità dell’esistenza. Si potrebbe dire che la scrittura è attratta al limite dal silenzio dell’infanzia, dalla propria sparizione come esito negativo della ricerca utopica di una parola “vera” che sappia esprimere l’immediatezza dell’istante; in maniera del tutto paradossale, il silenzio

114 Marguerite Duras, Il nero Atlantico, cit., pp. 84-89. 115 Ivi, p. 84.

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corrisponderebbe a una parola “vera”. Una simile tendenza all’interno dell’opera durassiana entra in risonanza con il desiderio di sparizione, di cui si è già parlato a proposito dell’io. È necessario, però, tenere ancora sospesa questa possibilità di interpretazione per leggere più da vicino i caratteri dell’infanzia nei testi dell’ultima fase della produzione letteraria di Duras.

Anne Cousseau, nell’ultima parte del suo testo, compie un’analisi molto dettagliata di questi caratteri. Innanzitutto l’autrice mette in evidenza l’intimità dei bambini con la vita materiale e con la natura: essi partecipano in maniera diretta e immediata alla vita materiale, conservando il rapporto selvaggio dell’animale con il reale. All’interno di un’opposizione fra natura e cultura, latente nei testi durassiani, l’infanzia si collocherebbe indubbiamente dalla parte della natura. La naturalità dell’infanzia non impedisce, però, che essa acquisisca un’importante valenza spirituale. Cousseau riconosce questa valenza a partire dal rapporto che i bambini nelle opere di Duras hanno con la morte: differentemente dagli adulti, essi accettano la morte come un fatto naturale, che si inserisce spontaneamente nella continuità della vita. Questa accettazione della morte rende l’infanzia una dimensione spirituale mistica. Cousseau scrive:

«L’intimité de l’enfance avec la mort participe donc de ce don de co-naturalité qui révèle le lien étroit unissant l’enfant à la nature

et le dialogue obscur qu’il établit avec le monde. Elle éclaire comment l’enfance constitue “un monde autre”: étroitement intégré aux forces de vie de l’univers, l’enfant semble cependant accéder à un connaissance mystique du monde. L’enfance réalise dans la pensée durassienne une véritable simplicité d’être teintée d’archaïsme, révélée comme une forme d’état primordial et idéal»116.

Che l’infanzia in Duras costituisca una dimensione di partecipazione e conoscenza mistiche del reale è sicuramente vero. Non è altrettanto sicuro, però, che questa valenza mistica nasca, nella poetica dell’autrice, in relazione alla morte e alla sua accettazione come fatto naturale. Questa impressione può emergere dalle pagine di Una diga sul Pacifico sui bambini della piana:

«Erano, quei bambini, come le piogge, come i frutti, come le inondazioni. Arrivavano ogni anno a maree regolari, o, se si vuole, a raccolti o a fioriture. […] Ne morivano così tanti che non li si piangeva più, e da gran tempo ormai non li si seppelliva neppure. Semplicemente, tornando dal lavoro, il padre scavava una piccola buca davanti alla capanna e vi adagiava il suo bambino morto. I bambini ritornavano semplicemente alla terra come i manghi selvatici dei monti, come le scimmiette della foce del rac»117.

Come si può vedere, in questo brano viene messa in evidenza la partecipazione dei bambini alla natura, anche in occasione della loro morte, che appare così come un evento naturale, inserito all’interno della continuità della vita. Nelle opere più tarde di Duras, però, i bambini non sembrano accettare in maniera così naturale la morte. Si pensi, ad esempio, al bambino protagonista di Yann

Andrea Steiner: nel corso del romanzo capita più volte che il ricordo della sorellina uccisa emerga violentemente, suscitando nel bambino una reazione di terrore:

116 Anne Cousseau, Poétique de l’enfance chez Marguerite Duras, cit., p. 394.(“L’intimità dell’infanzia con la morte partecipa

dunque di questo dono della co-naturalità che rivela lo stretto legame che unisce il bambino alla natura e il dialogo oscuro che egli stabilisce con il mondo. Lei rivela come l’infanzia costituisca ‘un mondo altro’: strettamente integrato alle forze dell’universo, il bambino sembra comunque accedere a una conoscenza mistica del mondo. L’infanzia realizza nel pensiero durassiano una vera semplicità d’essere tinta di arcaismo, rivelata come una forma di condizione primordiale e ideale’. Tr. mia)

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«Ha pianto a lungo, il bambino e la ragazza lo ha lasciato piangere. Lui se l’era dimenticata, la ragazza. E poi la ragazza ha chiesto:

“Cosa ricordi…”

Il bambino dice: Niente. E poi tace. E poi dice distintamente che la sorellina, il soldato tedesco le aveva sparato alla testa e la sua testa era esplosa. Il bambino non piangeva. Tentava solo di ricordare e ricordava. […]

L’età che aveva la sorellina era di due anni. Niente altro ricorda il bambino.

Tace e la guarda. È diventato pallido. Ha paura di dire una cosa che tiene nascosta. Dice di non ricordare. […] Il bambino ha detto che non gli piaceva [la ragazza] quando piangeva. Che sapeva che era per via della sorellina ma che non poteva fare a meno, talvolta, di parlare di Maria. […]

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