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Blanchot: il passaggio dall’io all’egl

CONFRONTO TRA LA SCRITTURA DI MARGUERITE DURAS E LA RIFLESSIONE DI MAURICE BLANCHOT

3.1. Blanchot: il passaggio dall’io all’egl

Blanchot tematizza approfonditamente il passaggio dall’io all’egli della voce narrativa nel suo testo

Lo spazio letterario. La riflessione di Blanchot prende le mosse dall’elaborazione hegeliana della questione del linguaggio.

Per Hegel nominare una cosa significa negarla, negare la sua esistenza di cosa particolare e immediata per trattenerne il concetto universale. La parola diviene, così, uno strumento, un mezzo di scambio, che «serve anzitutto a metterci in rapporto con gli oggetti»77; «grazie ad essa, siamo al mondo, siamo rinviati alla vita del mondo, là dove parlano gli scopi e s’impone la preoccupazione di concludere»78. Il linguaggio, quindi, è lo strumento con il quale si costituisce il mondo umano, con il

quale gli esseri umani agiscono sul reale e lo rendono abitabile, familiare. Anche la parola del pensiero condivide la stessa logica, su cui si fonda il linguaggio ordinario; in entrambi i casi, infatti, il linguaggio è uno strumento, fondato sulla negazione dell’immediatezza, con il quale si interpreta il reale a partire dall’esigenza di senso e dagli scopi umani.

La parola poetica, invece, secondo Blanchot, si sottrae alla logica strumentale del linguaggio ordinario e del linguaggio del pensiero; essa non rinvia più al mondo, non ha alcuno scopo, ma si configura piuttosto come un estremo tentativo di dare espressione proprio a ciò che, con il linguaggio, è stato espulso dal mondo umano: l’immediatezza. La scrittura letteraria è mossa dalla nostalgia dell’immediato.

La parola poetica apre, così, a una dimensione estranea al mondo umano degli scopi: lo spazio letterario. Tale dimensione assume una grande importanza per Blanchot perché corrode la pretesa del pensiero di offrire un’interpretazione univoca del reale, che sacrifica al proprio orientamento di senso la singolarità immediata del reale stesso. Se lo spazio letterario si sottrae al mondo umano degli scopi, il linguaggio letterario non è più uno strumento, con il quale un soggetto impone un senso e un’interpretazione al reale; chi parla nel linguaggio letterario non è più un soggetto come quello elaborato nella tradizione filosofica occidentale. Proprio da questa deposizione del potere del soggetto sul linguaggio si origina ciò che Blanchot chiama il passaggio dall’io all’egli nella scrittura letteraria.

«La parola poetica non si oppone più allora soltanto al linguaggio comune ma anche al linguaggio del pensiero. In questa parola non siamo più rinviati al mondo, né al mondo come rifugio, né al mondo come insieme di scopi. In essa, il mondo arretra e gli scopi sono cessati; in essa, il mondo tace; gli esseri nelle loro preoccupazioni, nei loro progetti, nella loro attività, non sono più, in fondo, ciò che parla. Nella parola poetica si esprime il fatto che gli esseri tacciono. Ma come avviene tutto ciò? Gli esseri tacciono, ma è allora l’essere che tende a ridiventare parola e la parola vuole essere. La parola poetica non è più parola di una persona: in essa, nessuno parla e quel che parla non è nessuno, ma sembra che la parola soltanto si parli. Il linguaggio assume

77 Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, tr. it. di Gabriella Zanobetti, Einaudi, Torino 1967, p. 26. 78 Ivi, p.25.

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allora tutta la sua importanza; diventa l’essenziale; il linguaggio parla come essenziale, e, per questo, la parola affidata al poeta può dirsi parola essenziale. Ciò significa anzitutto che le parole, avendo l’iniziativa, non devono servire a designare qualche cosa, né a dare voce ad alcuno, ma che hanno il loro fine in se stesse»79.

Nello spazio letterario il linguaggio è sottratto alla sua funzione strumentale, non rappresenta più nulla, e si pone in una condizione di estraneità rispetto al mondo umano. Proprio in virtù di questa estraneità esso assume il carattere di un estremo tentativo di dar voce all’immediatezza dell’esperienza, negata ed espulsa dal mondo umano. Nel momento in cui si sottrae alla logica del senso e degli scopi, alla logica della rappresentazione e al controllo di un soggetto il linguaggio letterario si espone, però, al rischio di non riuscire più a dire qualcosa di definito, si espone al rischio di ciò che Blanchot chiama «l’interminabile, l’incessante»:

«è il punto in cui il compimento del linguaggio coincide con la sua sparizione, in cui tutto si parla […], tutto è parola, ma in cui la parola stessa è soltanto l’apparenza di quel che è sparito, è l’immaginario, l’incessante e l’interminabile»80.

Al limite, nella dimensione dello spazio letterario, il linguaggio non dice che se stesso: che il linguaggio è. L’opera letteraria, secondo Blanchot, tende a questo momento limite, che è il suo compimento e contemporaneamente il momento che la espone al rischio di non riuscire a dire più nulla, al rischio di dissolversi nell’incessante e nell’interminabile.

Per Blanchot, dunque, scrivere significa consegnarsi all’incessante mormorio del linguaggio. Ma questo significa anche perdere la possibilità di dire qualcosa in prima persona. È qui che si compie il passaggio dalla prima alla terza persona, che, in prima istanza, comporta l’impossibilità di dire “io”:

«Scrivere, vuol dire rompere il legame che unisce la parola a me stesso, rompere il rapporto che mi fa parlare a “te” […] Quando scrivere è consegnarsi all’interminabile, lo scrittore che accetta di sostenerne l’essenza perde il potere di dire “Io”»81.

Scrivendo, lo scrittore perde paradossalmente la possibilità di parlare, di dire qualcosa in prima persona, perché l’esigenza dell’opera lo trascina fuori di sé, verso una dimensione in cui non c’è più nessuno che parla, ma è il linguaggio stesso a parlare interminabilmente. Di fronte al rischio di questa radicale dissoluzione, allo scrittore non resta che il potere del suo silenzio, che arresta il mormorio e gli dà una forma nell’opera:

«Scrivere, vuol dire farsi l’eco di ciò che non può cessare di parlare, - e, proprio per questo, per divenirne l’eco, devo in un certo modo imporgli silenzio. Porto a questa parola incessante la decisione, l’autorità del mio silenzio. […]

Nell’annullamento al quale è sollecitato, il “grande scrittore” resta in qualche modo presente: ciò che parla non è più lui, ma non è neanche il puro scorrere della parola di nessuno. Dell’”Io” cancellato, egli mantiene l’affermazione autoritaria, benché silenziosa»82.

79 Ivi, p. 27. 80 Ivi, pp. 29-30. 81 Ivi, p. 12. 82 Ivi, p. 13.

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La decisione di imporre il silenzio difende, anche se in maniera soltanto negativa, lo scrittore e l’opera dal rischio della dissoluzione. Rimane, però, il fatto che lo scrittore è escluso da ciò che scrive. Chi scrive non è più un “io”, ma un “egli”:

«L’ “Egli” che si sostituisce all’ “Io”, tale è la solitudine che è arrecata allo scrittore dall’opera. “Egli” non sta a designare il disinteresse oggettivo, la distanza creatrice. “Egli” non esalta la coscienza di un altro da me, lo slancio di una vita umana che, entro lo spazio immaginario dell’opera d’arte, conservi la libertà di dire “Io”. “Egli” è me stesso diventato nessuno, gli altri diventati altro, e vuol dire che, là dove sono, io non posso più rivolgermi a me stesso e che chi si rivolge a me non dice “Io”, non è se stesso»83.

Il passaggio dall’io all’egli si configurerebbe quindi come un movimento di sostituzione dell’io con un egli impersonale. Tale passaggio è legato all’esigenza dell’opera, che, nella sua tensione a dire e a essere tutto, si accosta al punto della sua stessa dissoluzione.

Blanchot, quindi, concede all’io dello scrittore una funzione puramente negativa, che è quella di imporre il silenzio al mormorio incessante del linguaggio e il compito di raccoglierlo nella forma di un’opera. Solo così è possibile che qualcosa venga detto, senza che la parola si disperda completamente nell’incessante. Come si è visto, però, ciò che un’opera dice di più essenziale è proprio la sua dispersione nell’incessante. Questo movimento verso la dispersione è ciò che interessa maggiormente a Blanchot, perché sottrae il linguaggio alla sua funzione strumentale, cui è stato vincolato nella tradizione filosofica occidentale. La filosofia, infatti, in particolare quella hegeliana, ha utilizzato il linguaggio come strumento di astrazione dal reale in vista dell’imposizione a quest’ultimo di un senso umano. Questa operazione ha una natura violenta, perché sacrifica la singolarità del reale stesso e dell’esistenza umana, la nega in quanto tale, per piegarla alle esigenze di un senso astratto. Se un contatto con l’immediatezza e la singolarità del reale è impossibile sul piano del concetto e del linguaggio, solidale con il mondo degli scopi, per Blanchot è precisamente da tale impossibilità che nasce la scrittura letteraria come nostalgia dell’immediato. La riflessione del critico francese si inserisce nella prospettiva di un tentativo di svincolare il linguaggio dalla sua sudditanza nei confronti di un senso, di una verità e anche del potere di un soggetto di imporre tale senso. Questo tentativo è ciò che anima la scrittura letteraria, nel suo tentativo di dare voce a un “fuori”, estraneo al senso e al concetto. A questo proposito Blanchot è molto esplicito in apertura del suo libro L’infinito intrattenimento. Saggi sull’insensato gioco di scrivere:

«Scrivere, l’esigenza di scrivere: non più la scrittura che (per una necessità inevitabile) s’è sempre messa al servizio della parola o del pensiero cosiddetti idealisti, ossia moralizzatori, ma la scrittura che, con la sua forza lentamente sprigionantesi (forza aleatoria d’assenza), sembra non consacrarsi ad altro che a se stessa, restando senza identità e aprendo poco a poco possibilità completamente diverse, un modo anonimo, distratto, differito e disperso d’essere in rapporto, modo che mette in discussione tutto e prima di tutto l’idea di Dio, dell’Io, del Soggetto, quella della Verità e dell’Uno, quella del Libro e dell’Opera, tanto che questa scrittura (intesa nel suo enigmatico rigore), ben lungi dal proporsi come scopo il Libro, ne segnerebbe piuttosto la fine: scrittura, si potrebbe dire, fuori del discorso, fuori del linguaggio»84.

83 Ivi, p. 14.

84 Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», tr. it. di Roberta Ferrara, Einaudi, Torino

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A Blanchot interessa quindi mettere in evidenza che la scrittura letteraria, al suo limite, sfugge alle maglie del senso e della verità; nel far questo essa si rivela come un estremo tentativo di dire l’indicibile immediatezza del reale. La parola poetica è una parola anonima, che non appartiene a nessuno. L’io che scrive non ha più una posizione di controllo rispetto al linguaggio, ma scopre paradossalmente, nel cuore della sua intimità, una parola estranea, che non gli appartiene. Essa disfa la sua stessa interiorità e la rovescia in un’esteriorità inaccessibile, estranea, in cui non c’è più nessuno di riconoscibile, ma un inafferrabile “egli” impersonale. Si tratta della dimensione dell’interminabile e dell’incessante.

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