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7.4 «Lei cammina, scrive Peter Morgan»

L’incipit di Il viceconsole, citato nel titolo di questo paragrafo, è costituito da un chiasma che mette in relazione e, allo stesso tempo, dissocia il cammino della mendicante e la scrittura. Da un parte sembra che la scrittura segua la marcia, la racconti, la scriva, quasi che la marcia non fosse che il suo “oggetto”. D’altra parte, però, il chiasma crea un’associazione fra la scrittura e il cammino della mendicante tale che la distinzione fra la scrittura e il suo oggetto tende a sfumare.

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«Peter Morgan è un giovanotto che desidera prendersi il dolore di Calcutta, gettarvisi, una volta per tutte e che la sua ignoranza finisca con l’assunzione di questo dolore»173.

Peter Morgan, con la sua scrittura, vuole dar voce al dolore di Calcutta. Il dolore di Calcutta sono i lebbrosi e i mendicanti, di cui la mendicante indiana è emblema. Si tratta di persone che la sofferenza ha sopraffatto al punto da erodere ogni possibilità di liberarsi da essa e di darle voce. Essi sembrano identificarsi con il dolore stesso. È in questo senso che Peter Morgan, a un certo punto, si chiede come «separare la sua [della mendicante] follia dalla follia»174 in generale, il suo dolore dal dolore in generale, la

mendicante stessa dalla sua follia e dal suo dolore. Essere sopraffatti dal dolore ha, nell’esperienza dei lebbrosi e dei mendicanti, un carattere quasi definitivo. Eppure, nonostante essi abbiano perso tutto e siano diventati incapaci di comunicare il loro dolore, non sono morti, sono ancora vivi. La loro presenza viva costituisce l’enigma della sopravvivenza ai limiti del mondo umano.

Ciò che Peter Morgan vuole fare non è raccontare questo dolore come dall’esterno, ma “prenderlo” nella scrittura, assumerne il silenzio, l’indicibilità. Egli vorrebbe far spazio a questo indicibile nel linguaggio senza raccontarlo, senza ricoprirlo con una coltre di parole che cercherebbe di spiegarlo. Egli vorrebbe che questo silenzio parlasse come tale nella scrittura. Vorrebbe trovare una parola nuova, che fosse la parola propria di quel dolore, una parola che si sottrae al linguaggio. Egli vorrebbe infine gettarsi in questo dolore, perdersi in esso definitivamente. È così che la marcia della mendicante non è solo l’ “oggetto” della scrittura, ma il suo percorso è il percorso stesso della scrittura. Fra quest’ultima e il cammino della mendicante non vuole esserci un rapporto di rappresentazione, ma l’assunzione del movimento della marcia della mendicante nel movimento della scrittura stessa. «Bisogna perdersi»175 è l’indicazione comune alla mendicante e alla scrittura: essa vale per entrambe.

Si può notare che la condizione dei lebbrosi e dei mendicanti, interpretata come condizione limite dell’umano, ricorda, per certi versi, quella dei deportati nei campi di concentramento nazisti, tratteggiata da Robert Antelme nel suo libro La specie umana. Commentando il testo di Antelme, Blanchot scrive:

«L’uomo del campo di concentramento è ai limiti dell’impotenza. Tutto il potere umano è al di fuori di lui, ed è esterna a lui l’esistenza in prima persona, la sovranità individuale, la parola che dice: «Io». […] colui che non può più letteralmente nulla si afferma di nuovo al limite dove la possibilità cessa: nella povertà, nella semplicità di una presenza che è l’infinito della presenza umana. Il Potente è padrone del possibile, ma non di quel rapporto che non dipende dal dominio e che non è misurato dal potere: quel rapporto senza rapporto in cui si rivela «un altro»176.

Per la scrittura, il problema è come dar voce a questo «infinito della presenza umana» che si sottrae al linguaggio. Che cosa significa, inoltre, dargli voce? Di che natura è questo tentativo? Giacché “dar voce”, da una parte, può significare accogliere e ascoltare, ma, dall’altra, può voler dire anche costringere a parlare chi non parla più, spingere la sete di conoscenza fino alla costrizione. Per rimanere

173 Ivi, p. 22. 174 Ivi, p. 116. 175 Ivi, p. 9.

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nell’ambito del commento di Blanchot al testo di Antelme, si può dire che un tentativo di natura simile corrisponderebbe alla tortura:

«far parlare, anche con la tortura, equivale a tentar di controllare quella distanza infinita, riducendo l’espressione a quel linguaggio di potere in cui il parlante offre nuovamente una presa alla potenza – e il torturato da parte sua rifiuta di parlare per due motivi: perché le parole estorte non lo facciano entrare nel gioco della violenza avversaria, e anche per proteggere la vera parola che in quel momento, come egli ben sa, si identifica con la sua silenziosa presenza, con la presenza, in lui, di un altro»177.

La scrittura di Peter Morgan, tuttavia, non sembra avere il carattere attivo e persecutorio della tortura, di uno spietato desiderio di conoscenza privo di pudore nei confronti del dolore. Essa appare piuttosto connotata da una certa passività, da un desiderio di ospitare in sé il dolore e il suo silenzio.

Rimane, comunque, la questione di come dar voce a questo dolore. Blanchot scrive:

«Perché un moto siffatto cominci veramente ad affermarsi bisogna che, indipendentemente da quell’io che ormai non sono più, nella comunità anonima risorga l’istanza di un Io-Soggetto, non più come potere di dominio e di oppressione rivolto contro gli altri, ma come qualcosa che possa accogliere l’ignoto e l’estraneo: accoglierlo nella giustizia di una vera parola»178.

Seguendo il percorso della riflessione di Blanchot, si dovrebbe dire che la scrittura di Peter Morgan voglia farsi luogo di accoglienza di questo dolore indicibile. Lo scrittore si porrebbe quindi come un Io- Soggetto pronto a ospitare in sé il silenzio del dolore di Calcutta, per dargli voce all’interno di una comunità, di cui egli si farebbe rappresentante. Nella riflessione di Blanchot, inoltre, tale accoglienza è finalizzata a un riconoscimento collettivo della sventura e del dolore, del quale fare «il punto di partenza per una rivendicazione comune»179.

Confrontando queste riflessioni con ciò che succede in Il viceconsole, da una parte si potrebbe riconoscere che il libro di Peter Morgan si fa portavoce del dolore di Calcutta presso la “comunità” di coloro che vivono nell’ambasciata. La tensione che guida la sua scrittura, però, non ha affatto la stessa finalità che dovrebbe avere l’accoglienza della «vera parola» dell’estraneo nella riflessione di Blanchot. La scrittura di Peter Morgan è allo stesso tempo più radicale e più ambigua. Peter Morgan non vuole essere un Io-Soggetto esterno al dolore, di cui egli si farebbe portavoce; egli vuole assumere radicalmente quel dolore e perdervisi dentro. Allo stesso tempo, però, egli, che appare come uno scrittore molto generoso, verso la fine del romanzo dice:

«Mi esalto sul dolore in India. Lo facciamo tutti più o meno, no? È un dolore di cui si può parlare solo se ce ne assumiamo il respiro in noi… Scrivo pezzi immaginari su quella donna»180.

Prendere il dolore di Calcutta si di sé sembra essere, in questo passo, una macabra fonte di esaltazione intellettuale, artistica e poetica.

177 Ivi, p. 178. 178 Ivi, p. 180. 179 Ibidem.

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Il confronto con la riflessione di Blanchot, rispetto alla possibilità di dar voce a un dolore muto, consente di rendere conto di alcuni tratti peculiari della scrittura e della poetica durassiana a partire da diversi punti di vista.

Si è già visto che Il viceconsole è un’opera che suscita una riflessione politica sui meccanismi di esclusione della società e del potere. In questo senso, scrivere del dolore dei mendicanti e dei lebbrosi di Calcutta, esclusi dalla società coloniale dell’ambasciata, ha sicuramente un significato politico. La scrittura di Peter Morgan, però, nel romanzo, non ha affatto quel compito che sembra affidarle Blanchot, di dar voce alla parola dell’estraneo davanti a una collettività che si prenda carico della sua sventura per farne una «rivendicazione comune», da portare al centro della «lotta dialettica»181 della

politica. Peter Morgan vuole confondersi, attraverso la scrittura, con la sventura. Questa tendenza a perdersi nella sventura, allontanandosi drasticamente dalle mediazioni sociali e dalla dialettica politica, è il segno di una disperazione politica, che in Duras si approfondisce nel corso degli anni fino a trovare la sua espressione più autentica nel Premier projet di Le Camion:

«Ce n’est plus la peine de nous faire le cinéma de l’espoir socialiste. De l’espoir capitaliste. Plus la peine de nous faire celui d’une

justice à venir, sociale, fiscale, ou autre. […]

On croit plus rien. On croit. Joie: on croit: plus rien. […]

Que le cinéma aille à sa perte, c’est le seul cinéma.

Que le monde aille à sa perte, qu’il aille à sa perte, c’est la seule politique»182.

Nella scrittura di Duras, già durante la composizione di Il viceconsole, opera questa “disperazione politica”, che non vuole in alcun modo recuperare il dolore muto alla dialettica politica né tantomeno alla rivendicazione, ma tende piuttosto a seguirlo, fino a perdervisi dentro, aprendo, forse, così a una diversa dimensione, il carattere politico della quale risulta certamente problematico ma al tempo stesso estremamente interessante.

Benché il libro di Peter Morgan e la sua scrittura, come si è visto, costituiscano un “luogo” in cui Duras riflette sulla propria scrittura, sono solamente una parte de Il viceconsole. Questo potrebbe significare che non tutto ciò che vale per il libro di Peter Morgan valga anche per la scrittura di Duras. Peter Morgan non coincide con Duras, ma è uno scrittore fittizio, che l’autrice fa muovere nel suo romanzo. È molto significativo che Duras abbia scelto di affidare a un uomo il ruolo dello scrittore, a cui lei, in quanto autrice, concede una parte della propria esperienza biografica e di scrittura. Marcelle Marini, nella sua lettura de Il viceconsole, si sofferma molto su questa scelta, interpretandola come la denuncia di un sistema socio-simbolico maschile che, come si è già visto, associa il linguaggio, la scrittura, l’ordine e il senso al sesso maschile, mentre quello femminile sarebbe legato al silenzio, al disordine e alla dimensione materiale del corpo. È così, secondo Marini, che, mentre la mendicante

181 Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, cit., p. 181.

182 Marguerite Duras, Le camion, Minuit, Paris 1977, pp. 73-74. («Non vale più la pena di fare il cinema della speranza

socialista. Della speranza capitalista. Non più la pena di fare quello di una giustizia a venire, sociale, fiscale, o altro. […] Non si crede più a niente. Si crede. Gioia: si crede: più niente. […] Che il cinema vada a perdersi, questo è il solo cinema. Che il mondo vada a perdersi, che esso vada a perdersi, questa è la sola politica”. Tr. mia)

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cammina, Peter Morgan scrive. La studiosa arriva ad affermare che, in questa prospettiva, la scrittura di Peter Morgan, che sembra «ouvrir un espace à la marche de l’autre en soi»183, in realtà non fa che concedere spazio all’eterogeneo, in questo caso alla differenza femminile, ma solo per ribadirne l’esclusione.

Tuttavia le parole di Duras in Il viceconsole presentano a questo proposito una problematicità che, a mio avviso, non può essere ridotta a una conclusione così drastica. Da una parte si può dire che esiste il rischio, sottolineato anche da Blanchot, che, nel dar voce all’estraneo, vengano negate la sua estraneità e la sua eterogeneità. La parola dell’estraneo può venire quindi tradita e sfruttata in nome di un potere, di cui, invece, essa rappresenta il fallimento. D’altra parte, però, come si è visto, la scrittura di Peter Morgan non vuole affatto assorbire all’interno di un orizzonte di senso il dolore di Calcutta, ma desidera invece perdervisi dentro, annientarsi in esso. Nel caso del libro di Peter Morgan, piuttosto, il rischio, che Duras denuncia, è che questo tentativo si riduca a una vana e macabra esaltazione estetica del dolore, a una serie di immagini di fronte alla cui drammaticità si può diventare del tutto insensibili184.

A questo rischio, però, fa da argine l’impossibilità per Peter Morgan di concludere il libro: la mendicante è irrappresentabile, sfugge e distrugge tutte le immagini che cercano di raffigurarla. Si potrebbe dire, dunque, che il libro di Peter Morgan sia “sincero” in questo slancio verso l’ignoto che gli si sottrae, e che corrisponda in una certa misura al movimento della scrittura di Duras stessa. Questo non significa, però, che la scrittura di quest’ultima coincida con quella di Peter Morgan. In effetti, Il

viceconsole non si interrompe quando si interrompe il libro di Peter Morgan; Il viceconsole, anzi, non si interrompe affatto, ma si conclude. La scelta di affidare nel romanzo a un uomo la facoltà di una scrittura, che poi si blocca su un limite impossibile, a mio avviso, non ha tanto il senso, indicato da Marini, di denunciare la violenza di un ordine socio-simbolico maschile, che riduce al silenzio il dolore e la differenza femminile, quanto piuttosto quello di annunciare una parola altra, segnata dalla differenza femminile. Nella vicenda della mendicante e in quella del libro di Peter Morgan sicuramente è in gioco la differenza sessuale. Nell’affidare a un uomo una scrittura che fallisce (e che non può non fallire), Duras mette in risalto il fatto che, quando il linguaggio e il pensiero, tradizionalmente maschili, si trovano di fronte a un limite insuperabile, sono solo delle figure femminili a essere ancora in grado di “sopravvivere” e di abitare quel limite. È così, infatti, che la mendicante non scompare con il fallimento del libro di Peter Morgan. Di lei, invece, rimangono «il riso… come sbiancato… la parola che lei dice, Battambang, la canzone»185. Questi elementi, così come il silenzio di Anne-Marie Stretter, nell’opera di

183 Ivi, p. 89. (“Aprire lo spazio alla marcia dell’altro in sé”. Tr. mia)

184 Vengono in mente, a questo proposito, le parole di Ingeborg Bachmann in una delle sue Lezioni di Francoforte: « Ma oggi la

gente ha bisogno di cinema e rotocalchi come ha bisogno di panna montata, e le persone più esigenti (tra cui anche noi) hanno bisogno di qualche piccolo shock, un po’ di Ionesco e le urla dei beatnik per non perdere del tutto l’appetito. Poesia come pane? Un pane che dovrebbero stridere tra i denti come sabbia, e risvegliare la fame piuttosto che placarla. Una poesia che dovrà essere affilata di conoscenza e amara di nostalgia se vorrà scuotere l’uomo dal suo sonno. Dormiamo, infatti, dormiamo per paura di dovere percepire il mondo intorno a noi». Ingeborg Bachmann, Letteratura come utopia, tr. it. di Vanda Perretta, Adelphi, Milano 1993, pp. 29-30.

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Duras non sono degli scogli sui quali si arena la scrittura, ma sono piuttosto le risorse della sua scrittura, attorno alle quali si compongono i testi.

Youssef Ishaghpour, nel suo saggio La voix et le miroir riconosce chiaramente questa peculiarità della scrittura durassiana rispetto alla letteratura moderna; l’operazione di Duras non consiste nel fatto di erodere la compattezza della scrittura verso il silenzio, ma di scrivere proprio a partire da quel silenzio:

«L’écriture moderne trace un espace de mort, de solitude, de refus de la parole, de méfiance à l’égard de la fable, avec une volonté

harassante et laborieuse de sortir du sens, d’accéder au rien. Or Duras semble avoir accédé à ce rien, cet effacement, cet oubli ; elle en part, et n’a pas besoin d’y aller. C’est donc un autre mode qui s’ouvre devant elle : la modernité cherche la destruction de la forme, Duras donne forme à l’absence»186.

Quello che rimane della mendicante, quando Peter Morgan non ne sa più dirne nulla, però, mostra come ciò che Ishaghpour chiama “assenza” siano in realtà un riso, una presenza viva, una parola e un canto che, certamente, si situano fuori del senso, ma che non sono solamente “assenza” e “vuoto”. Si tratta piuttosto di gesti e parole banali, che non significano nulla oltre al loro accadere. Al cuore della scrittura durassiana di Il viceconsole si trova, dunque, anche un’esperienza della parola (e del corpo) che non è orientata dalla mancanza, ma è piuttosto legata alla presenza viva di chi la pronuncia. Tale esperienza e tale risorsa per la scrittura in Il viceconsole vengono affidate a delle figure femminili.

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