• Non ci sono risultati.

Il viceconsole fotografato

SECONDA PARTE LA FOLLIA

6. IMMAGINI DEL VICECONSOLE E DI ANNE-MARIE STRETTER

6.1. Il viceconsole fotografato

La parabola del viceconsole nel romanzo si conclude con un dialogo con il direttore del Circolo europeo, alla conclusione del quale egli si immagina il proprio futuro a Bombay, dove probabilmente verrà inviato:

«“Penso che sarà Bombay in fin dei conti. Mi ci vedo indefinitamente fotografato su una sedia a sdraio in riva al mare di Oman”»137.

Fotografato, dunque, fissato in un’immagine.

Diversamente da quanto accade in tutta la parte del romanzo che precede questa scena, in cui il viceconsole cerca disperatamente di sottrarsi all’immagine con cui viene identificato dagli altri, in questo caso è lui stesso a immaginare di essere consegnato all’occhio di una macchina fotografica immaginaria e di lasciarsi fissare in un’immagine. Le sue speranze di uscire dal proprio isolamento e di essere accolto nel circolo degli amanti di Anne-Marie Stretter sono ormai crollate. Egli è schiacciato dal proprio essere «impossibile» per gli altri e anche per sé. La sua stessa esistenza gli appare bloccata, impraticabile: nella foto che lo dovrebbe ritrarre, infatti, il viceconsole è seduto, non fa niente, ha disertato la sua vita. Un relitto deposto in riva al mare? Questa deposizione ha il senso della morte, di quella morte di cui egli stesso parla con Charles Rosset a proposito della mendicante:

«“La morte che vi corre dietro nella vita,” dice infine il viceconsole, “ma che non vi raggiunge mai? È così?” È così, forse, sì»138.

La traduzione italiana di questo passo, a mio avviso, non restituisce efficacemente il senso del testo francese. Traducendo l’espressione «la mort dans une vie en cours»139 con «la morte che vi corre dietro nella vita» si tende a sciogliere l’ossimoro e la contraddizione presenti in queste parole del romanzo. La morte di cui si parla qui non è una minaccia per la vita, ma una presenza costante, che accompagna quest’ultima come un’ombra. La morte figura qui come il doppio in ombra della vita.

Il viceconsole si vede fotografato in riva al mare, seduto su una sedia a sdraio: inevitabilmente consegnato allo sguardo, che ritrae e fissa la sua immagine. L’obiettivo cattura e blocca un istante della vita, creando un’immagine. L’immagine, dunque, è un’immagine di vita, da cui, però, la vita è assente. L’immagine è l’ombra della vita del soggetto ritratto, è la morte che l’accompagna a ogni istante140.

L’immagine è la spoglia di ciò che è ritratto. Il viceconsole, dunque, cede e si consegna a un’immagine della sua esistenza, alla sua ombra, sulla quale ormai è rimasto schiacciato.

137 Ivi, p. 134. 138 Ivi, p. 111.

139 Marguerite Duras, Le Vice-consul, Gallimard, Paris 1966, p. 170.

140 Sull’idea dell’immagine come ombra del reale cfr. in particolare Emmanuel Lévinas, La realtà e la sua ombra, in Nomi propri,

145

Il fatto che egli “si veda fotografato”, però, segnala la presenza di una complessa articolazione di elementi attorno a questa foto, che rende ambigua la posizione del viceconsole. Egli, infatti, non aderisce completamente né al punto di vista della macchina fotografica, perché non sarebbe lui a scattare la foto, né a quello del soggetto della foto, che sarebbe lui stesso; sembra quasi che, nella consapevolezza di non poter sottrarsi allo sguardo dell’obiettivo, egli lo anticipi e lo inganni, ponendosi come “regista” e “compositore” dell’immagine: il viceconsole decide cosa consegnare di sé all’obiettivo.

Cosa consegna? Consegna la sua stessa esistenza bloccata (in un’immagine). Egli consegna di sé tutto ciò che l’obiettivo “vuole”: le sue spoglie. Il viceconsole si consegna all’obiettivo così come l’obiettivo, in fondo, lo vede: “morto”, «impossibile», un relitto arenato in riva al mare. Questa è la disperazione del viceconsole, il suo essere disperatamente schiacciato sulla propria immagine, in una vita ormai spenta, impossibile.

Tanta docilità da parte di quest’uomo nei confronti di un freddo sguardo esteriore, però, è sospetta. Probabilmente ha ragione Charles Rosset quando, in una scena precedente, dice che il viceconsole continuamente «fa la sua commedia, è infaticabile»141.

Si è già visto che egli, immaginandosi fotografato, si pone come “regista” e “compositore” dell’immagine. L’immagine in questione, però, lo ritrarrebbe così come gli altri o l’obiettivo lo vedono e lo vogliono. Egli, dunque, sarebbe il “regista” di un’immagine di sé già composta da altri per lui.

A ben guardare, però, offrire un’immagine di sé ricalcata su quella che altri hanno imposto e consegnarsi, così, bloccato dallo sguardo dell’obiettivo significa mostrarsi completamente, ma non dare a vedere nulla. Più precisamente significa ingannare la curiosità e la volontà di conoscenza di quello sguardo: offrendogli esattamente ciò che esso si aspetta di vedere, così come si aspetta di vederlo, viene confermata la sua aspettativa, ma, allo stesso tempo, sono deluse la sua curiosità e la sua presunzione di perspicacia. Sembra che quello che c’è da vedere sia già stato visto e che non ci sia più nulla da vedere. Il fatto che sia il viceconsole stesso a presentarsi così fa sorgere il sospetto che quello che si vede non dia a vedere la verità, la vita, ma solo la sua ombra. In effetti, dell’uomo arenato in riva al mare l’immagine non fa vedere nulla: cosa pensi, cosa guardi, cosa faccia quell’uomo non è dato sapere. Il viceconsole si è consegnato “volontariamente” così come lo si voleva, ma egli “è altrove”. Dove? Impossibile dirlo: egli è dentro e contemporaneamente fuori dall’immagine, sfugge a quest’ultima.

A questo punto assume una grande importanza un elemento che compare nella foto e che, fino ad ora, non è stato preso in considerazione: il mare. Il viceconsole si vede fotografato davanti al mare. Nella foto, dunque, da una parte c’è un relitto arenato e immobile e dall’altra c’è il continuo movimento del mare. Il viceconsole potrebbe trovarsi in un luogo indefinibile al limite fra la fissità del relitto e il continuo movimento del mare.

146

Quest’ultimo, in contrasto con le “spoglie” dell’uomo seduto, evoca dialetticamente una dimensione di vita, di libertà assoluta, in cui tutto si trasforma e si mescola con tutto, senza che vi sia più qualcuno o qualcosa di identificabile con precisione. Si potrebbe parlare di una dimensione indistinta o impersonale dell’esistenza, in cui ogni particolarità soggettiva si perde, di un ritorno a un’origine indifferenziata, che racchiude ancora tutto il possibile. Si tratta di una regressione o della follia? Si tratta di una libertà, di una liberazione dalle immagini e dalle parole o dell’impossibilità di poter parlare ancora? Si tratta dell’accesso a una partecipazione fusionale e quasi mistica, a una dimensione impersonale della vita o di un desiderio di morte? Le letture della contraddizione inscritta nella foto del viceconsole possono essere molteplici. Le narrazioni che quell’immagine può suscitare sono infinite. Il romanzo stesso può essere considerato, da questo punto di vista, un ricettacolo di narrazioni possibili, accennate dalle varie voci e dai personaggi. Nessuna di esse, però, può saturare completamente il senso di quell’immagine perché il viceconsole sfugge, consegna all’immagine tutto il visibile per evocare l’invisibile. Il viceconsole è «impossibile».

È vero, dunque, che il viceconsole mente. Potrebbe fare diversamente? Attraverso la foto immaginaria egli si piega al desiderio di tutti di saperlo folle, ma inoffensivo, lontano da Calcutta e arenato davanti al mare d’Oman. Questa foto, questa morte civile e personale, però, è anche la conferma del suo essere inavvicinabile e insopportabile in vita, in presenza, è la conferma del suo essere altrove. La foto del viceconsole è tanto malinconica quanto ironica e inquietante. Potrebbe fare diversamente? Potrebbe non mentire?

Le vicende del romanzo mostrano il fallimento di ogni suo tentativo di uscire dal proprio isolamento, di ogni suo tentativo di elaborare un rapporto positivo e socialmente accettabile con gli altri e con il reale. Egli è e rimane «impossibile». La sua follia non è accettabile se non nella misura in cui sia neutralizzata, nella misura in cui, cioè, egli sia reso inoffensivo. La falsità del viceconsole consisterebbe, dunque, nell’accettare anticipatamente e attivamente questa “condanna a morte” per tenere aperto così, al limite, la suggestione dell’impossibile: immaginare la foto è l’ultimo gesto del viceconsole per dar voce, anche se in maniera soltanto negativa, all’impossibile142.

Con la foto immaginata dal viceconsole si chiude il romanzo. La foto arresta la scrittura, ammutolisce il viceconsole e lo chiude nel silenzio. Il viceconsole ora “farà il morto”, come Lol V. Stein143, fissato in un’immagine e in un’esistenza che non gli appartengono, ma rispetto alle quali non ha alternativa. Sulla sua sedia a sdraio, allora, egli potrà forse trovare un inquieto riposo dall’immane fatica

142 A questo proposito vengono in mente le parole di Simone Weil: «Qualunque essere grida in silenzio per essere letto

altrimenti». Simone Weil, L’ombra e la grazia, tr. it. di Franco Fortini, Bompiani, Milano 2002, p. 239.

143 Ci si riferisce qui all’espressione che Jacques Hold usa per ritrarre Lol negli anni di matrimonio con Jean Bedford, dopo il

ballo di S. Thala e prima dell’incontro con lui: «Poiché bisogna inventare gli anelli della catena che mancano alla storia di Lol V. Stein, mi sembra più giusto spianare il terreno, scavarlo, aprire tombe dove Lol fa la morta, che non innalzare montagne, costruire ostacoli, creare incidenti» [c. m.]. Marguerite Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, cit., p. 29.

147

di sopravvivere a questa lacerazione bloccata, vagheggiando di perdersi e dimenticarsi come le onde nel mare.

Documenti correlati