SECONDA PARTE LA FOLLIA
4. IL RAPIMENTO DI LOL V STEIN
5.12. I gesti del viceconsole e la scrittura
Se torniamo all’associazione, proposta sopra, fra la finzione del viceconsole e la scrittura, dovremmo affermare che la scrittura si configura come una finzione, un’immagine che fa da schermo all’irrappresentabile e indicibile del reale. Tale immagine, però, non mostra nulla. La sua verità consiste nel suscitare al proprio interno un indicibile, riuscendo così a indicare al proprio limite l’irrappresentabile del reale. Nella finzione del viceconsole, la ricerca di una parola che possa dire questo sfocia nelle grida inarticolate, limite estremo del linguaggio, in cui il senso si perde.
Rimane anche un’altra questione: questa scena apre la possibilità di interpretare la follia del viceconsole come una finzione. Se così fosse, non potrebbe essere considerato come una finzione, intesa nel senso elaborato sopra, anche il gesto di Lahore? Anch’esso potrebbe essere stato un’ “invenzione”, una finzione creata perché qualcosa avesse luogo tra il viceconsole e i lebbrosi, fra il
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viceconsole e il loro dolore, per offrire un segno. Come è apparso dal primo dialogo con Anne-Marie Stretter, il rapporto tra il viceconsole e il dolore è impossibile come l’amore per lei. È possibile quindi rintracciare una certa corrispondenza fra i due gesti estremi dell’uomo.
Gli esiti dei tentativi del viceconsole di fare in modo che qualcosa abbia luogo, che rimanga un segno dell’impossibile, sono il grido e l’assassinio. Rapportati alla scrittura, questi due esiti rappresentano il primo il rischio di sfociare nel non-senso e il secondo la violenza insita nella scrittura.
Come va intesa quest’ultima? Come si è già visto a proposito del libro di Peter Morgan, la violenza del linguaggio consiste nella sua negazione dell’immediato, a cui strappare un’immagine, un concetto che serva poi a costruire un senso da imporre al reale stesso. Anche il gesto del viceconsole, nella lettura proposta, ha lo scopo di dare un senso o un segno al reale impossibile. Il potere di negazione è, però, potere di dare la morte all’immediato per estrarne un senso. Fissare il reale, impossibile da vedere, come sottolinea Loignon, in un’immagine (in uno schermo rettangolare) tradisce e nasconde il reale stesso, uccide la sua immediatezza. Il reale viene fissato per conoscerlo, per vederlo (come dall’esterno, senza essere visti, in una triangolazione voyeuristica). Ma l’immagine tradisce presto il suo carattere irreale e, dunque, essa deve darsi a vedere (esibizionismo) per mostrare la sua irrealtà e indicare così, al limite, verso l’irrappresentabile.
Se questa è la dinamica sottesa alla scrittura e ai gesti del viceconsole, bisogna concludere che davvero la scrittura, nel tentativo di dire l’indicibile, rischia di sfociare nel non-senso e di dare la morte.
I gesti del viceconsole, però, non sono scrittura: sono assassinio e grido. È forse possibile comprendere ora più a fondo in che senso l’esperienza dei limiti del viceconsole si trasformi in follia. Egli tenta disperatamente di infrangere il limite dell’impossibile, che lo separa dal reale, rendendoglielo incomprensibile e indicibile134. Tale tentativo sfocia nel non-senso e nell’assassinio, nel sacrificio del
reale135. La realizzazione dell’impossibile è un sacrificio del reale e del senso. Il viceconsole si consegna
disperatamente a questo sacrificio, ma ne rimane schiacciato. Non è, infatti, possibile realizzare l’impossibile a meno di non rinunciare a ciò che ne ha fatto sorgere l’esigenza stessa: il linguaggio e la separazione dal reale (la negazione del reale) che esso comporta. La separazione operata dal linguaggio è anche la separazione, all’interno del soggetto, di sé da sé e dal reale. In una prospettiva lacaniana, tale separazione è il motore del desiderio, che conduce il soggetto da un’immagine di sé all’altra, nel tentativo di ricucire tale separazione. Questo tentativo, però, è votato al fallimento e il soggetto è costretto a riconoscere di essere sempre qualcos’altro rispetto alle sue identificazioni immaginarie, di essere qualcosa di irrappresentabile e inappropriabile (impossibile).
134 È forse questa la ragione per cui egli attribuisce ad Anne-Marie Stretter (una donna) la facoltà di partecipazione fusionale
alla dimensione dell’indiscriminato e indistinto? Quello che il viceconsole cerca è un oblio di sé come rapporto fusionale con il reale?
135 L’assassinio del viceconsole può essere paragonato al sacrificio di cui parla Bataille? In Il viceconsole si può forse leggere un
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Il viceconsole ha cercato intensamente di ricucire la separazione, ma l’esito di questo tentativo è stato quello di rimanere schiacciato dal suo stesso gesto. Il viceconsole è profondamente segnato dall’esperienza dei limiti, ma non sopporta il peso dell’indicibile, non riesce a tenersi su quel limite; vuole fortemente dargli un senso. Il suo atteggiamento è sempre attivo. Così facendo, negando cioè l’indicibilità che egli stesso ha esperito e che egli stesso è, egli cade nella follia e nell’assassinio. Egli non riesce ad accettare e a tenere aperta, come una risorsa, la separazione di sé da sé, che da un lato lo scinde dal reale, ma che, dall’altra, lo costituisce come soggetto che può parlare e farsi risonanza dell’indicibile.
La scrittura si impegna sullo stesso limite dell’indicibile, contro cui si accanisce il viceconsole, ma, diversamente da lui, non cerca di realizzare la possibilità di effrazione del limite o, meglio, è costretta a riconoscere l’insuperabilità del limite. Se non ci fosse questo riconoscimento, la scrittura dovrebbe rinunciare a se stessa a favore del silenzio. A partire da qui, però, per cercare di non chiudersi all’interno dei suoi limiti, facendo scomparire, dopo averla negata, ogni traccia dell’immediatezza del reale, essa deve costantemente corrodere e minare la compiutezza delle proprie immagini e metterne in scena il processo di formazione stesso.
È da questo impegno che nei romanzi di Duras sorge la crisi della soggettività dei suoi personaggi, alle prese con l’esperienza dei limiti e la problematizzazione della posizione dello scrittore stesso. Da qui nascono le riprese di temi e figure, declinati in modo sempre differente da un’opera all’altra. Se l’esperienza dei limiti al cuore della scrittura durassiana si apre su un indicibile, infatti, non c’è più nulla di stabile, ma ogni figura si propone secondo inarrestabili differenze, nel sempre rinnovato tentativo di avvicinare l’indicibile corrodendo il dicibile. L’indicibile non viene negato; esso diviene piuttosto fonte inesauribile di rielaborazioni successive e di ripetuti tentativi di approccio.
Duras sembra indicare, inoltre, al di là della scrittura, nella figura di Anne-Marie Stretter una modalità di rapportarsi all’impossibile diversa da quella del viceconsole e legata alla differenza femminile. Tale modalità è forse estranea alla scrittura?
Il viceconsole viene definitivamente escluso; egli è inquietante, osceno. Peter Morgan lo allontana dalla sala del ricevimento dicendogli:
«il suo personaggio ci interessa solo quando lei è assente»136.
La sorte di tutto ciò che è impossibile ricade anche sul viceconsole stesso: egli risulta avvicinabile solo quando sia stata negata la sua presenza, diventando così oggetto di discorso tra gli uomini. Anne- Marie Stretter non parteciperà mai a questi discorsi, se non cercando di convincere tutti che non vale la pena parlare di lui, che lui non ha più bisogno di nulla. La donna continua a custodire il segreto della sua vicinanza al viceconsole, che, d’altra parte, è indicibile. Anche per questo non serve parlarne. Risulta
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evidente l’ambiguità dell’atteggiamento di Anne-Marie Stretter, su cui sarà necessario interrogarsi in seguito.
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