SECONDA PARTE LA FOLLIA
4. IL RAPIMENTO DI LOL V STEIN
5.2. Il libro di Peter Morgan
Il romanzo si apre con la storia della mendicante indiana, che Peter Morgan sta scrivendo. Peter Morgan è uno degli amanti di Anne-Marie Stretter, insieme con Michael Richard (in cui va
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probabilmente riconosciuto il fidanzato di Lol), con Georges Crawn e con l’ultimo arrivato Charles Rosset. Di Peter Morgan la voce narrante dice:
«Peter Morgan è un giovanotto che desidera prendersi il dolore di Calcutta, gettarvisi, una volta per tutte e che la sua ignoranza finisca con l’assunzione di questo dolore»81.
Verso la fine del romanzo egli stesso dice:
«Mi esalto sul dolore in India. Lo facciamo tutti più o meno, no? È un dolore di cui si può parlare solo se ce ne assumiamo il respiro in noi… Scrivo pezzi immaginari su quella donna»82.
La scrittura del libro di Peter Morgan si configura come un tentativo di infrangere la soglia che separa un uomo che vive nell’ambasciata dal dolore di Calcutta. Il movente della scrittura è il desiderio di “prendere” questo dolore, così grande e così assillante per tutti i bianchi dell’ambasciata, di gettarvisi e di confondersi in esso. Tale desiderio è anche un desiderio di morte, riconoscibile nell’espressione «una volta per tutte» («que ce soit fait»): prendere e gettarsi nel dolore di Calcutta ha i tratti di un gesto definitivo, che porta chi lo compie a confondersi con il dolore, a sparire nel momento stesso in cui gli dà voce. D’altra parte, però, nella citazione si legge che sarà l’ignoranza a cessare, una volta che il dolore sarà stato assunto. Il dolore, quindi, appare, come nell’espressione tragica di Eschilo, fonte di conoscenza. Di quale conoscenza?
Il libro di Peter Morgan racconta la storia di una giovane mendicante indiana che, da ragazzina, venne cacciata dalla madre perché era rimasta incinta. La madre le ordinò di andarsene e di non tornare più. La ragazza iniziò così il suo viaggio con l’obbligo di non tornare; per essere sicura di non tornare la ragazza doveva perdersi. Tutto il libro si concentra sul suo tentativo di perdere l’orientamento e di perdersi. Il suo continuo peregrinare conduce la ragazza alla follia, alla perdita di sé, della propria memoria e del linguaggio.
Peter Morgan, per il suo libro, ha preso ispirazione dall’episodio della vendita di una bambina da parte di una mendicante, raccontatogli da Anne-Marie Stretter. Il giovane scrittore associa questo racconto a una mendicante che vede e sente cantare ogni giorno fuori dall’ambasciata, in mezzo agli altri lebbrosi di Calcutta, e inizia a scrivere il suo libro.
Egli, però, ad un certo punto della composizione, incontrerà una difficoltà quasi insuperabile. La difficoltà nasce nel momento in cui Peter Morgan deve scrivere del fatto che, dopo dieci anni di cammino, la mendicante si ferma a Calcutta. Perché? Che cosa significa il fatto che si è fermata? Ha dimenticato anche il dovere di perdersi? Si è persa del tutto nella follia e nel silenzio? Cosa si può dire del silenzio e della follia della mendicante?
«Peter Morgan vorrebbe adesso sostituire alla memoria cancellata della mendicante la congerie della propria. Peter Morgan si troverebbe, altrimenti, a corto di parole per rendere conto della follia della mendicante di Calcutta.
81 Ivi, p. 22. 82 Ivi, p. 101.
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Calcutta. Lei rimane. Sono dieci anni che se n’è andata. Da quanto tempo è senza memoria? Che cosa dire al posto di quello che lei non avrebbe detto? di quello che non dirà? di quello che ignora di aver visto? al posto di ciò che si è cancellato da ogni memoria?»83.
Il dolore di Calcutta, di cui la figura della mendicante è un emblema per Peter Morgan, si chiude in se stesso. Di esso è impossibile offrire una narrazione. Come la medicante, esso è presente, ma non parla, è indicibile per la scrittura.
Questa difficoltà, in cui si imbatte la composizione del libro sulla mendicante, è forse il segno dello scacco a cui è votata la scrittura nel tentativo di dire l’indicibile? Una simile domanda non può avere una risposta univoca e definitiva, anche per il fatto che essa stessa rilancia inevitabilmente la “sfida” sulla quale fa sorgere il dubbio. La scrittura, proprio perché legata a un desiderio di conoscenza e comunicazione, non può rinunciare al linguaggio per il quale tuttavia il dolore di Calcutta rimane indicibile, a meno di non cadere nel silenzio. In questo senso la scrittura di Peter Morgan appare come un’esperienza dei limiti del linguaggio, un estremo tentativo di dire l’indicibile.
In uno degli ultimi capitoli di Il viceconsole, lo scrittore parla del suo libro con gli altri amanti di Anne- Marie Stretter. Il problema di Peter Morgan, come si è già detto, è come scrivere della follia della mendicante nel momento in cui lei si ferma, si perde, diventa irraggiungibile. Georges Crawn sostiene che, in fondo, la mendicante nel Gange ha trovato il modo di perdersi, dimenticando tutto. Peter Morgan allora chiede:
«Sarebbe a Calcutta come un… punto alla fine di una lunga linea, di fatti senza significato differenziato? Non ci sarebbero che… sonno, fame, scomparsa dei sentimenti, e anche del nesso fra la causa e l’effetto?»84
La difficoltà è enorme: come scrivere di questa donna che si sottrae a ogni logica che la narrazione potrebbe attribuirle? Michael Richard risponde:
«“Credo che quanto intende dire,” dice Michael Richard, “è ancora di più, vorrebbe darle un’esistenza solo in chi la guardasse vivere. Perché, lei, non prova nulla»85.
In questa risposta si misura il fallimento della scrittura nel tentativo di conoscere e di dar voce alla follia indicibile della mendicante, ma anche la sua violenza. Se la scrittura non può cogliere l’esistenza singolare di questa mendicante folle, la cui esperienza si sottrae alle possibilità di dialogo, di conoscenza e di comprensione, essa diviene insignificante in sé (nel senso che non è più in grado di produrre senso da sé), ma è abbandonata alla mercé di chi la guarda e al senso che costui le attribuisce. L’esistenza singolare della mendicante, sottraendosi alla logica del linguaggio, della conoscenza e della scrittura, risulta inerme, indifferente. Il linguaggio e la scrittura la abbandonano alla sua singolarità.
83 Ivi, pp. 49-50. 84 Ivi, p. 116. 85 Ibidem.
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Davanti a questo rischio, di perdere completamente di vista la singolarità della mendicante, gli uomini si chiedono che cosa sia rimasto di lei a Calcutta. Sono rimasti il riso, la parola Battambang e la canzone che canta, ma anche questi tratti non individuano nessuna singolarità particolare:
«“Come […] raccogliere anche la sua follia? Separare la sua follia dalla follia, il suo riso dal riso, la parola Battambang… dalla parola Battambang?»86
Anche questi elementi si perdono nell’indistinto della follia. La mendicante ha perso ogni tratto distintivo, che le permetterebbe di essere inscritta e di inscriversi nel linguaggio. Cosa può essere rimasto ancora? Si può supporre i suoi «figli morti», ma, appunto, sono morti, non sono rimasti.
«“Il suo scambio, insomma, quello che si chiama così, quello che lei dà se vogliamo, non si distingue da quello di un altro in fin dei conti. Eppure questo scambio ha luogo”»87.
Rimane, dunque, il semplice fatto che è in vita, che esiste, fatto che, comunque, non la distingue da altri. Eppure questa vita avviene, ha luogo.
La follia e il dolore della mendicante costituiscono un’ “esperienza” al di là del limite, che non può inscriversi nel linguaggio con cui Peter Morgan scrive il suo libro. Il giovane scrittore conclude:
«“L’abbandonerò prima della follia […] ne sono certo”»88.