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Il viceconsole e il direttore del Circolo

SECONDA PARTE LA FOLLIA

4. IL RAPIMENTO DI LOL V STEIN

5.7. Il viceconsole e il direttore del Circolo

Qualche capitolo dopo quello della scena della bicicletta troviamo Jean Marc de H. che parla con il direttore del Circolo. All’interno dell’ambasciata francese il direttore del Circolo è una figura ben inserita e acclimatata, ma, si potrebbe dire, insignificante, priva di incarichi importanti e di ambizioni: dirige il circolo, beve molto, si addormenta spesso. È una figura quasi invisibile, per quanto non esclusa o marginalizzata. In qualche modo, egli è meno distante, per quanto radicalmente separato, dal viceconsole rispetto agli altri uomini. Dai dialoghi fra il viceconsole e il direttore si vengono a conoscere le confidenze, di cui parlava Charles Rosset nel suo incontro con l’ambasciatore, che il primo fa al secondo. Tali conversazioni, però, non soddisfano affatto la curiosità di chi chiede al direttore di cosa parli il viceconsole né aiutano a comprendere questo “caso” così singolare. Non si tratta, infatti, di conversazioni in cui il viceconsole e il direttore cerchino di scambiarsi qualcosa. Anch’esse sono più uno «stato di cose» che dei dialoghi.

«Ogni sera il direttore del Circolo parla dell’India e della propria vita. E poi il viceconsole di Francia a Lahore racconta quello che gli garba della propria. Il direttore del Circolo ci sa fare con il viceconsole: racconta cose anodine che il viceconsole non ascolta ma che, qualche volta, finiscono per sciogliere la sua voce sibilante. A volte il viceconsole parla molto a lungo in modo incomprensibile. A volte il suo discorso è chiaro. L’eco che destano le sue parole a Calcutta, il viceconsole sembra ignorarlo. Lo ignora. Nessuno, tranne il direttore del Circolo, gli rivolge la parola»101.

Il direttore parla al viceconsole che non l’ascolta. Il viceconsole parla al direttore che non lo capisce. Non c’è curiosità, non ci sono né comunicazione né comprensione in questi dialoghi. In essi emerge piuttosto l’impossibilità di dialogare una volta che si sia raggiunto il limite dell’impossibile, di ciò che non può essere spiegato né detto. Nondimeno tali dialoghi avvengono e, forse, proprio l’assenza di curiosità e di comprensione fa di essi un’esperienza della libertà della parola. Probabilmente ciò che Maurice Blanchot scrive su un romanzo di Duras, intitolato La square, vale anche per questi dialoghi.

«ces deux personnes sont mises en rapport parce qu’elles n’ont rien de commun que ce fait même d’être, pour des raisons très

différente, séparées du monde commun où elles vivent cependant. […] Cependant ils parlent: ils se parlent sans être d’accord»102.

Per Blanchot, questo parlarsi di due persone che non hanno nulla in comune e che si trovano entrambe davanti all’impossibile del loro desiderio costituisce un’occasione rara di fare esperienza di una parola sottratta alla logica comune, alla ricerca della comprensione e del senso. Una logica, quest’ultima, che finisce per ridurre l’altro, l’interlocutore, al medesimo. Parlare a partire dall’impossibilità del proprio desiderio, rivolgendosi all’impossibilità del desiderio dell’altro significa sperimentare l’inaccessibilità dell’altro. L’estraneità e l’inaccessibilità diventano la forma del rapporto con l’altro al quale è possibile, così, rivolgere una parola che non pretende di comprenderlo, di ridurlo

101 Ivi, pp. 51-52.

102 Maurice Blanchot, Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959, pp. 192-194. (“queste due persone sono messe in rapporto

perché non hanno nulla in comune se non il fatto di essere, per ragion molto diverse, separate dal mondo comune, in cui comunque vivono. […] Comunque si parlano: si parlano senza essere d’accordo” Tr. mia)

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allo stesso. Tale parola, però, poiché parla a partire dall’impossibilità del desiderio, non è la parola di un soggetto, ma è una parola impersonale:

«nous trouvons cette parole de la solitude et de l’exil, parole de l’extrémité, privée de centre et donc sans vis-à-vis, impersonnelle […], par perte de la personne […]: parole de la profondeur sans profondeur»103.

Questa parola dell’estremo, al limite del silenzio, sorge, come si è visto, dall’impossibilità del desiderio, che è anche l’esperienza limite del senso: quando il desiderio si scopre aperto sull’impossibile, quest’ultimo pervade il reale, sottraendo al soggetto la capacità di attribuirgli un senso. In questo modo appare, però, la gratuità incomprensibile del reale, liberata dalle pretese del senso. Il dialogo di La square è l’esperienza di una parola gratuita, inutile e non comunicativa, pronunciata al limite dell’impossibile. Anche i dialoghi tra il direttore del Circolo e il viceconsole hanno, in parte, questo carattere. L’incomprensibilità dei discorsi del viceconsole è legata a un’esperienza dei limiti, dell’impossibile del desiderio (dell’amore) e del reale (del dolore di Lahore).

Nella prima parte della conversazione con il direttore, il viceconsole gli chiede molte informazioni sul conto di Anne-Marie Stretter, ma non parla ancora. «Il direttore aspetta che lo faccia ogni sera. Ed ecco, lo fa»104. Inizia così uno dei discorsi incomprensibili del viceconsole, questa volta sull’amore:

«“Non sono mai stato innamorato, gliel’ho già detto? […] sono vergine. […] Mi sono sforzato più volte di amare persone diverse, ma non ho mai raggiunto lo scopo del mio sforzo. […] Non riuscendo ad amare ho cercato di amarmi ma non ci sono riuscito. Pure, fino a poco tempo fa, mi sono preferito»105.

Il viceconsole parla con inquietante lucidità della sua incapacità di amare. Eppure egli dice anche:

«“Sono uscito da questo sforzo […]. Da qualche settimana”»106.

Il viceconsole si è innamorato? Di chi? È avvenuto un incontro con Anne-Marie Stretter qualche settimana prima di questo dialogo, di cui, però, il viceconsole, incalzato dal direttore, non riesce a dire che questo:

«“Si dirigeva verso i campi da tennis deserti. Era presto. Passeggiavo nel parco e l’ho incontrata. […]” “Questa volta,” dice il direttore, “ha detto che i campi da tennis erano deserti.”

“Significa qualcosa, certo,” dice il viceconsole. “In effetti i campi da tennis erano deserti.” “Ed è una gran differenza?”

Il direttore ride.

“Una gran differenza, in effetti,” riprende il viceconsole. “Quale?”

“Quella di un sentimento, forse? Perché no? […] Direttore,” riprende il viceconsole, “non mi ha risposto.” “Lei non aspetta risposte da nessuno, signore.”»107

Il viceconsole, in occasione dell’incontro con Anne-Marie Stretter, ha provato qualcosa come un sentimento. Tale sentimento si lega a un elemento che per lui è determinante, mentre per il direttore

103 Ivi, p. 191. (“troviamo questa parola della solitudine e dell’esilio, parola dell’estremo, privata di centro e dunque senza

faccia a faccia, impersonale […], per perdita della persona […]: parola della profondità senza profondità”. Tr. mia)

104 Marguerite Duras, Il viceconsole, cit., p. 52. 105 Ivi, pp. 52-53.

106 Ibidem. 107 Ivi, p.54.

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risulta buffo: si tratta del fatto che Anne-Marie Stretter si stava dirigendo verso i campi da tennis deserti. È proprio il fatto che i campi fossero deserti ciò che determina la comparsa del sentimento. Anne- Marie Stretter si stava dirigendo verso un luogo deserto, disertato da tutti nel periodo dei monsoni, un luogo impraticabile, dove non c’era più nessuno. È forse questo essere rivolti verso un luogo deserto ciò che fa scattare un sentimento nel viceconsole. Tale sentimento, però, è già votato all’impossibile perché, da un lato, esso è aperto appunto su un’assenza e, d’altra parte, proprio per questo, non può essere condiviso. La comune apertura all’impossibile del viceconsole e di Anne-Marie Stretter è una forma di comunanza che non è condivisibile, ma che esclude.

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