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Un’esperienza del linguaggio non orientata dalla mancanza e l’amore

Il primo di questi elementi è costituito dall’episodio in cui Ernesto racconta al maestro come ha imparato a scrivere:

«Il maestro: E scrivere, signor Ernesto?

Ernesto: Uguale, signore. Ho preso un mozzicone di matita e poi ho scritto. Come lo spiega questo, signore?

Il maestro: È inesplicabile. Dunque non me lo spiego. E Lei, come se lo spiega, signor Ernesto?

Ernesto: Io me ne frego, signore.

Il maestro: Giusto! Silenzio. Si sorridono.

Tacciono a lungo come fanno a volte. E poi il maestro parla.

Il maestro: Cos’erano le prime parole che ha scritto? Silenzio. Ernesto ha un’esitazione.

Ernesto: Erano per mia sorella. Silenzio.

Ernesto: Scrivevo che l’amavo.

Ernesto parla molto lentamente, si direbbe che non veda il maestro, che sia solo.

Il maestro, esita e poi lo dice: Ma Sua sorella… all’epoca… si riteneva che non sapesse né leggere né scrivere.

Ernesto: Lei sapeva quello che avevo scritto sul foglio.

Il maestro: Com’è possibile?

Ernesto: Forse l’ha fatto vedere a qualcuno in paese. Ma io credo di no, credo che lei l’abbia letto come io l’avevo scritto, senza saperlo, in un certo senso…

Il maestro, esita e poi dice ancora: Ha ragione signor Ernesto. all’epoca, Jeanne sapeva già leggere. Silenzio. Il maestro riprende. Con voce un po’ più forte.

Il maestro: Jeanne sapeva leggere, signor Ernesto, come Lei, prima d’imparare a leggere.. Jeanne… è Lei, signor Ernesto… Lei. La stessa origine.

Ernesto non risponde.

Il maestro dice che se Ernesto se ne va, penserà lui a far continuare gli studi a Jeanne. Ernesto non risponde al maestro. Diventa distratto come all’avvicinarsi della follia.

Il maestro: Mi scusi, signor Ernesto… Che cosa le diceva in quella lettera… che l’amava più di quanto lei potesse credere?... che l’amava in un altro modo?

Ernesto: Sì. Che l’amavo d’amore. Le dicevo che era così che l’amavo, d’amore.

Il maestro, a voce molto bassa: Lo sapevo. (Esita, sorride, è in preda a una profonda emozione). Volevo soltanto sentirLe pronunciare questa parola»37.

Al di là del carattere quasi favoloso dell’episodio, in questo caso ci si trova di fronte a un’esperienza di linguaggio che non è più in relazione ad una frustrazione del desiderio, ad una mancanza necessaria per l’accesso all’ordine simbolico, ma a un’esperienza di linguaggio che è connessa proprio con il desiderio. Imparare a scrivere denota sicuramente l’acquisizione di un’abilità linguistica fondamentale in vista della condivisione dell’ordine simbolico di una società, come quella che si trova sullo sfondo del romanzo, in cui la lingua scritta prevale su quella orale; ma nell’esperienza di linguaggio, che è in

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questione nell’episodio citato, la dimensione simbolica del linguaggio non viene mancata, ma ad essa si accede non tanto per via di una frustrazione o di una mancanza, quanto piuttosto per un eccesso di presenza. La lettera, che Ernesto scrive alla sorella, in effetti, è preceduta dagli episodi in cui i due fratelli scoprono, sempre più inequivocabilmente, la natura del loro sentimento reciproco e la forza di questo desiderio. Tali incontri si chiudono sempre sul silenzio dei due amanti incestuosi e sulla tensione nei loro corpi:

«Le braccia di Ernesto si erano richiuse sul corpo di Jeanne. Essi erano rimasti così, in silenzio e con gli occhi bassi, segreti a se stessi come nuovi amanti appena emersi dalla notte.

Un lungo momento era passato, durante il quale una conoscenza silenziosa era dilagata in loro, incancellabile ormai.

Si erano separati senza guardarsi. […]

Jeanne era rimasta in silenzio dopo quello che aveva detto Ernesto [che i genitori si chiudevano in camera non per morire, ma, forse, per amarsi]. Lui aveva guardato la sorella a lungo e lei era stata costretta a chiudere gli occhi. E anche gli occhi di lui avevano tremato e a loro volta si erano chiusi. Quando avrebbero potuto guardarsi di nuovo avevano evitato di farlo. Nei giorni che erano seguiti non avevano parlato. Non avevano dato un nome a quella novità che li aveva annientati e lasciati senza parola»38.

Questi silenzi non sono la mancanza di una parola davanti a ciò che non si può esprimere, davanti all’indicibile, ma sono coinvolti in un evento, in cui il desiderio irrompe in maniera molto forte e interrompe il linguaggio. È a partire da questi silenzi, in cui la presenza del desiderio viene percepita in maniera quasi violenta, che nasce la lettera di Ernesto a Jeanne. Le parole che il bambino scrive alla sorella non sono straordinarie, ma “abituali” in quella situazione e offrono testimonianza di un accesso al linguaggio in cui il desiderio non viene frustrato, ma risponde a un eccesso di presenza.

Dal momento che, nelle pagine precedenti, l’analisi di La pioggia d’estate in riferimento al problema del linguaggio si è intrecciata con una possibile lettura psicanalitica, potrebbe essere utile riferirsi ad alcune riflessioni, sorte proprio nell’ambito della psicanalisi, che fanno emergere i caratteri di un’esperienza di linguaggio non orientata dalla mancanza. Lo psicanalista Marco Focchi, nel suo articolo La Lingua

Indiscreta e l’Irripetibile, mette in evidenza la differenza fra due esperienze del linguaggio all’interno della teoria e della pratica analitica: da una parte la lingua connessa alla ripetizione, dall’altra la lingua legata all’evento pulsionale. Nel richiamare quello che interessa qui dell’articolo, si può partire dalla considerazione secondo la quale «il linguaggio è ciò che disorganizza l’istinto, che lo scardina dall’automatismo del proprio ciclo»39 e determina la differenza tra uomo e animale. A questo punto

Focchi mette in risonanza il linguaggio con i “concetti” di ripetizione e di evento.

«E' per ritrovare la continuità di quel che era l'essere che la ripetizione si muove e formula la propria domanda. La ripetizione si articola infatti sul piano del significante e ciò che si ripete è la domanda, che tende a far sorgere quel che era l'essere o, piuttosto, secondo il conio che l'idea prende con Lacan, quel che era lì lì per essere. Per questa via, la ripetizione può ritornare sempre solo al manque à être, la mancanza lasciata dal sottrarsi dell'essere, perché non c'è un prima a cui tornare, una sorta di paradiso perduto in cui rientrare. Nella prospettiva

38 Ivi, pp. 25-41.

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psicoanalitica data da Lacan, non c'è prima l'essere, poi la sua perdita, poi il tentativo di recuperarlo. L'essere è sempre solo ciò che sta per essere, quel che quasi c'era»40.

Lo psicanalista osserva che il sintomo, ad esempio, è un fenomeno di ripetizione che mantiene presente un’assenza, ma che può assumere i contenuti più diversi. L’interpretazione del sintomo rivela il desiderio che esso nasconde, ma, invece di abolirlo, lo vede riapparire in altre forme.

«Svuotare il sintomo di sofferenza nevrotica attraverso l'analisi non significa portare a compimento la ripetizione perché l'essere si manifesti al proprio colmo, ma toccare un limite in cui la mancanza si rivela necessaria. Tutto questo però non investe l'evento pulsionale»41.

L’ordine simbolico e il linguaggio, quindi, si rivelano dei dispositivi di ripetizione che tengono presente una mancanza, ma non riescono a raggiungere un contatto con l’evento pulsionale, che genera angoscia. Focchi sostiene che, se da un lato, l’interpretazione del sintomo può rivelare il desiderio che esso nasconde, dall’altro tale elaborazione simbolica non riesce a raggiungere l’evento pulsionale, che è coinvolto nel sintomo, e che non è completamente assorbibile all’interno dell’elaborazione simbolica, perché si riferisce ad una dimensione degli esseri umani che umana non è. Per lo psicanalista «ciò che accade nell'evento è che, per l'uomo, la vita si fa sentire nel momento in cui il linguaggio gli toglie l'animale immediatezza di contatto con essa»42. Da questo momento in poi Focchi cerca di individuare se c’è e quale sia un possibile contatto fra il linguaggio e l’evento pulsionale, giungendo a queste osservazioni:

«si delinea così un'altra dimensione del linguaggio rispetto a quella studiata da Lacan nella prima fase, strutturalista, del suo insegnamento. Il fenomeno psicosomatico è un esempio particolarmente interessante perché mostra il significante che s'imprime nella carne, ma accanto a esso ci sono altre manifestazioni di linguaggio non separate dall'evento. C'è il delirio psicotico, dove la dimensione del linguaggio-evento invade quella del linguaggio referenziale. C'è quel che Lacan, negli anni Settanta, chiama lalangue fondendo l'articolo e il sostantivo per alludere alla lallazione infantile, per indicare il gioco d'equivoci del linguaggio, per evidenziare l'uso ludico e non semantico della lingua.

Non si tratta di un piano discorsivo in cui l'evento viene narrato, perché per essere narrato deve essere assente, deve essere mancanza. E' un piano dove il linguaggio è connesso con l'evento, e che proprio per questo non entra nel meccanismo della ripetizione. E' una lingua senza grammatica, senza parti articolate, una sorta di lingua indiscreta: che non è suddivisa in elementi e che non nasconde una verità da svelare perché ostenta piuttosto la propria intimità con il pulsare della vita.

Il piano strutturato del linguaggio, connesso alla ripetizione, insegue una parvenza d'essere che gli si sottrae. L'effetto dell'interpretazione — al di là dei codici su cui fa leva, dove l'Edipo è solo uno di quelli possibili — è un affioramento della verità nel momento in cui si disocculta la mancanza.

La lingua indiscreta si dispiega a partire da un irripetibile e non cela nulla, giacché l'evento non è qualcosa su cui si possa porre un velo, non ha risvolti reconditi, né senso, non è quindi trattabile attraverso l'interpretazione. Non è costituita infatti neppure come testo latente da riportare alla luce, perché è fatta di termini assolutamente generici, circolanti alla luce del sole, di cui si tratta piuttosto di determinare il nesso con l'evento pulsionale»43.

Seguendo queste indicazioni è forse possibile comprendere meglio l’esperienza di linguaggio implicita nell’episodio della lettera di Ernesto a Jeanne: le parole del bambino sorgerebbero dall’evento del suo desiderio, senza trasformarlo o rielaborarlo su un piano ulteriore di senso, ma inserendosi in

40 Ibidem. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 Ibidem.

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questo stesso evento. È sicuramente curioso il fatto che una simile esperienza di linguaggio emerga nel testo attraverso la scrittura: invece di scriverle, Ernesto avrebbe potuto dire quelle parole alla sorella. Una simile osservazione conduce a problematizzare l’evento stesso e il gesto della scrittura nella pratica di Marguerite Duras. Per il momento potrebbe bastare aprire lo spazio per una possibile considerazione: forse per l’autrice la scrittura si colloca anche a questo livello di esperienza di linguaggio, in cui le parole rispondono di un evento, senza raccontarlo o rielaborarlo completamente a livello simbolico.

In La pioggia d’estate c’è anche un altro elemento che mette in luce l’esperienza di linguaggio, che si sta cercando di individuare: le due canzoni, che attraversano tutto il testo, quella che si cantano Jeanne ed Ernesto e quella cantata dalla madre, La Neva.

Per comprendere il rapporto fra queste due canzoni e il problema del linguaggio occorre prestare attenzione al ruolo della parola “musica” nel testo. Questa parola appare per la prima volta durante la scena in cui Ernesto racconta ai genitori come ha lasciato la scuola e dice di aver capito qualcosa come la creazione del mondo e anche che questa è inutile. Dopo che il fratello ha elencato alcune delle creazioni inutili, Jeanne interviene:

«La sorella: La musica.

Leggero ritardo di Ernesto nel rispondere.

Ernesto: Inutile»44.

Nella scena in cui Ernesto, giunto agli ultimi giorni della conoscenza, dialoga con il maestro, torna la parola “musica”, carica, questa volta, dell’amore del bambino per Jeanne:

«Il maestro: […] Che cosa resta a Suo parere signor Ernesto…

Ernesto: L’inesplicabile all’improvviso… la musica… per esempio… Ernesto guarda il maestro con grande dolcezza, sorride.

Il maestro sorride a sua volta»45.

La musica ci introduce, dunque, nell’ambito del rapporto amoroso tra fratelli. Nel seguito del romanzo la musica dei fratelli diventa una canzone che, nell’ultimo loro dialogo, Jeanne chiede a Ernesto di cantarle: si tratta di una canzone le cui parole sono una dichiarazione d’amore. Dopo che il fratello ha cantato, Jeanne gli chiede di ripetere le parole, senza cantarle e lui «dice le parole della canzone nel respiro e le lacrime di Jeanne»46. In questo caso, dunque, la musica non appare come il mito

di un linguaggio senza parole, senza significato, che è in grado di esprimere un indicibile. Qui dalla musica vengono distillate le parole, sottratte alla cadenza della canzone per farne emergere una cadenza differente: quella del piacere di pronunciarle nel respiro dell’altro, il piacere di articolare l’evento di questa prossimità del respiro dell’amata e dell’amato. È importante sottolineare che le parole che vengono pronunciate non sono insensate, ma nonostante questo, ciò che emerge non è il loro

44 Marguerite Duras, La pioggia d’estate, cit. p. 29. 45 Ivi, p. 89.

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significato, ma il godimento della loro pronuncia. Tale godimento si collega a quella dimensione della lingua che, come si è letto nell’articolo di Focchi, Lacan chiama lalingua.

La Neva, invece, è una canzone che la madre canta lungo tutto il romanzo, in momenti particolari, come, ad esempio, quando cucina o quando torna ubriaca dal centro di Vitry assieme al padre. Di questa canzone la madre non ricorda le parole né la lingua, a cui sarebbero appartenute le parole, se le avesse ricordate. Tale dimenticanza deriva dalla vaghezza che la scrittrice ha costruito attorno al passato e alle origini della madre: nessuno sa da dove la madre provenga precisamente, dove abbia vissuto prima di incontrare il padre e come sia arrivata ad incontrarlo. Nel testo vengono narrati alcuni episodi della sua vita, che riconducono all’Europa orientale, ma nulla viene specificato in proposito. Nell’ultima scena, quando la madre è ormai consapevole del distacco di Ernesto dalla famiglia e guarda con terrore i figli, innamorati l’uno dell’altra, le parole de La Neva tornano:

«Quella sera, all’improvviso, le parole de La Neva erano tornate in mente alla madre senza che lei se ne rendesse conto. Dapprima sparse a frammenti nel canto, poi più continue e alla fine frasi complete, una legata all’altra. Come ubriaca era la madre, quella sera, forse di quel canto. Non erano russo, le parole ritrovate, era una mescolanza di idiomi caucasici ed ebraici di una dolcezza di prima delle guerre, delle carneficine, delle montagne di cadaveri»47.

Nell’evento della perdita le parole non sono venute meno alla madre, ma, anzi, sono tornate. Anche in questo caso la musica non si è sostituita alle parole, ma le parole sono tornate nella canzone. Nel testo non viene fornito né suggerito il significato delle parole, ma si sa con certezza che sono i versi della canzone: non si tratta neanche qui di un linguaggio privo di senso, ma del linguaggio nel quale l’immediatezza, invece di sparire come assente, irrompe nel momento in cui viene percepita in maniera eccessiva. È significativo il fatto che la scrittrice sottolinei che la lingua della canzone è una lingua che non ha dovuto affrontare il dolore delle guerre e delle carneficine: è una lingua che viene dal passato della madre, forse, dalla sua infanzia.

Quest’ultimo particolare suggerisce una discontinuità temporale nella lingua, connessa con l’esperienza dei suoi traumi. Tale discontinuità se, da un lato, espone la lingua al rischio del mutismo, dall’altro, proprio per il contatto fra linguaggio ed evento, consente il suo riapparire, ancora vitale, in alcuni frangenti dell’esperienza. Se, seguendo l’indicazione di Giorgio Agamben, chiamiamo infanzia l’esperienza muta dell’essere umano, l’evento che non si può riassorbire completamente in un ordine simbolico, si potrebbe dire che l’infanzia non è un “prima” del linguaggio, ma che il linguaggio è sempre a contatto con qualcosa come un’infanzia.

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