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LA RIFLESSIVITÀ DELLA SCRITTURA DURASSIANA: IL RITORNO DI TEMI, FIGURE E FANTASM

SECONDA PARTE LA FOLLIA

2. LA RIFLESSIVITÀ DELLA SCRITTURA DURASSIANA: IL RITORNO DI TEMI, FIGURE E FANTASM

Uno dei tratti caratteristici dell’opera di Marguerite Duras è l’emergere incessante delle stesse vicende e delle stesse scene, rielaborate ogni volta in maniera diversa.

Nella lettura proposta da Madeleine Borgomano in Duras. Une lecture des fantasmes, queste scene che ritornano e che strutturano i testi vengono considerate come fantasmi. Nell’Enciclopedia della psicanalisi di Laplanche e Pontalis, a cui si richiama anche Borgomano, il fantasma viene così definito:

«scenario immaginario in cui è presente il soggetto e che raffigura, in modo più o meno deformato dai processi difensivi, l’appagamento di un desiderio e, in ultima analisi, di un desiderio inconscio. […] Si tratta di scenari, di canovacci, anche se enunciati solo in una frase, di scene organizzate, suscettibili di essere drammatizzate in forma per lo più visiva. Il soggetto è sempre presente in tali scene. […] Non è un oggetto che è rappresentato come obiettivo del soggetto, ma una sequenza di cui il soggetto stesso fa parte e in cui si possono invertire i ruoli […]»8.

Il ritornare di questi fantasmi, secondo particolari e significative variazioni, è il segno di un incessante lavoro di rielaborazione di alcuni nuclei di esperienza cruciali. Leggere l’opera di Duras seguendo proprio queste costanze e queste variazioni consente da una parte di riconoscere gli elementi che compongono il suo immaginario e, dall’altra, di evidenziarne le differenti elaborazioni. Queste ultime, a loro volta, sono il segno e la messa in opera di una particolare esperienza di scrittura, che nasce da e che conduce verso una profonda interrogazione sul limite stesso della scrittura e dell’esperienza che è in gioco.

Françoise Barbé-Petit, nel suo testo Marguerite Duras au risque de la philosophie, dedicato al rapporto della scrittrice con la filosofia, sottolinea il carattere riflessivo della scrittura di Duras, legato proprio a questo incessante tornare sulle medesime vicende:

«Son écriture est réflexive, elle fait retour sans cesse sur les événements majeurs de sa vie […]. Et c’est par cette réflexivité

permanente sur sa vie qu’elle se trouve dans le voisinage de la philosophie. D’une certain façon, l’écriture réflexive de Duras s’inscrit dans le temps, non à la façon d’une recherche du temps perdu mais à la façon d’un temps recomposé, reconstitué, réélaboré sans cesse»9.

Barbé-Petit mette in evidenza la vicinanza di questo processo di riscrittura con la filosofia, dal momento che la ripresa delle medesime vicende mette costantemente in discussione ciò che è stato scritto, il rapporto della scrittura e dello scrittore stesso con ciò che scrive.

Si potrebbe dire che la scrittura durassiana partecipi di quel carattere critico e autocritico che Lévinas, nel saggio La realtà e la sua ombra, riconosce alla letteratura moderna. Secondo il filosofo

8 Jean Laplanche, J.-B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, vol. I, tr. it. a cura di Giancarlo Fuà, Laterza, Roma – Bari 1974,

pp. 161-166.

9 Françoise Barbe-Petit, Marguerite Duras au risque de la philosophie, cit., p. 177. (“La sua scrittura è riflessiva, torna

continuamente sugli avvenimenti più importanti della sua vita […]. È per questa riflessività permanente sulla sua vita che essa si trova nelle vicinanze della filosofia. In qualche modo, la scrittura riflessiva di Duras s’inscrive nel tempo, non nella modalità di una ricerca del tempo perduto, ma nella modalità di un tempo ricomposto, ricostituito, rielaborato senza posa”. Tr. mia)

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francese, infatti, nella letteratura moderna esiste una tendenza dell’artista a smuovere e a corrodere la fissità delle proprie immagini e dei proprio miti, interpretandoli da sé. Questa tendenza deriva «forse» dai «dubbi che la pretesa morte di Dio ha seminato, dal Rinascimento in poi, nelle anime», che «hanno compromesso per l’artista la realtà dei modelli ormai inconsistenti e gli hanno imposto il peso di ritrovarli all’interno della sua stessa produzione»10. Per l’artista contemporaneo diviene, dunque, fondamentale il processo di creazione stesso del mito, più che il mito stesso che egli può creare. Quest’ultimo, infatti, non coglie della realtà che la sua ombra, fissandola in un’immagine, che, se viene considerata come la rivelazione più profonda del reale e non come la sua sospensione, diviene un idolo. In questo senso il lavoro dell’artista contemporaneo si avvicina molto al compito dell’esegesi filosofica e della critica, che, nella prospettiva di Lévinas, hanno proprio il compito di “mettere in movimento”, di “far parlare” il mito, l’immagine, al di là della loro fissità:

«L’esegesi filosofica ha il compito di misurare la distanza che separa il mito dall’essere reale, di prendere coscienza dell’evento creatore stesso […]. […] il mito è contemporaneamente la non-verità e la sorgente della verità filosofica, se è vero tuttavia che la verità filosofica comporta una dimensione propria dell’intelligibilità, che non si accontenta di leggi e di cause che collegano gli esseri tra di loro, ma cerca l’opera d’essere in quanto tale»11.

Rimane il fatto che, per Lévinas, il lavoro dell’artista e quello del critico sono differenti: l’arte per lui non «si identifica con la vita spirituale», «l’opera può e deve essere trattata come un mito»12, mentre la

critica e la filosofia mantengono il compito di smuovere la loro fissità in direzione della «dialettica»13

propria del reale, che si gioca, nella sua riflessione, sul piano dell’etica e «della relazione con l’atro uomo»14.

Lévinas evidenzia, quindi, il fatto che nella letteratura contemporanea gli scrittori mettono in discussione le loro stesse immagini, rivolgendosi radicalmente al movimento stesso della creazione delle immagini. Tale atteggiamento può essere considerato un’esperienza dei limiti della creazione stessa, che ne pone in questione ogni volta il senso, la possibilità e la natura.

La scrittura di Duras presenta sicuramente questo carattere “critico”. Attraverso le varie riscritture delle stesse vicende e delle stesse scene, la scrittrice elabora (e mette in opera tale elaborazione) diversamente i nuclei fondamentali della propria poetica.

È riconoscibile, dunque, all’interno dell’opera durassiana nel suo complesso, un percorso, che conduce da un’elaborazione e da un’opera all’altra.

Di tale percorso sono state offerte numerose interpretazioni. Madeleine Borgomano, ad esempio, come si può vedere anche nella raccolta di alcuni suoi articoli su Duras, intitolata De la forme au sens, riconosce una netta cesura all’interno dell’opera durassiana a livello della scrittura de L’amante: se fino a

10 Emmanuel Lévinas, Nomi propri, tr. it. di Francesco Paolo Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 190. 11 Ivi, p. 189.

12 Ivi, pp. 188-189. 13 Ivi, p. 185. 14 Ivi, p. 190.

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quel momento la scrittrice si era impegnata in una sperimentazione letteraria che tendeva a dissolvere la coerenza del discorso narrativo, per aprirla alle risorse di una scrittura delirante, in cui il senso si perdeva, con L’amante Duras sembra comporre il testo secondo un orientamento di senso che, per quanto fragile, è in grado di offrire una direzione al testo.

Anne Cousseau, nel suo Poétique de l’enfance chez Marguerite Duras, riconosce nella scrittura durassiana un movimento progressivo di «elaborazione mitica» della realtà, che acquisisce maggiore intensità mano a mano che gli elementi dell’esperienza dell’infanzia della scrittrice trovano spazio nei testi, soprattutto a partire da quelli del Ciclo Indiano. Tale elaborazione mitica conduce la scrittura verso un’espressione linguistica essenziale, più vicina alla sinteticità della poesia che alla lingua della prosa tradizionale. Cousseau conclude:

«Ainsi la forme n’a pas tué le sens. L’écriture durassienne, par ce rapport spécifique au réel [«l’appropriation du réel par le

discours mythique» qui «reconnaît au réel sa dimension de signe littéraire» et qui «permet de privilégier la mise en forme sans occulter

le référent»], a su tout particulièrement les concilier, redonnant leur place à des notions prétendues “périmées” pendant un temps, celles

d’histoire et de sujet notamment, mais sous un angle radicalement nouveau qui préserve l’élaboration scripturale comme objet premier du discours littéraire»15.

Sylvie Loignon, nel suo testo Le regard dans l’œuvre de Marguerite Duras, propone una lettura dell’opera durassiana a partire dal ruolo dello sguardo e dell’immagine. La scrittura di Duras, secondo Loignon, è intimamente legata alla fascinazione dell’immagine e alla dialettica dello sguardo, che essa instaura16. L’autrice riconosce nell’opera durassiana diverse “strategie” di iscrizione della funzione dello sguardo nei testi: se nei primi romanzi l’immagine rivela il suo legame con la figura della madre, nelle opere del Ciclo Indiano si può riconoscere una strategia che mette in discussione la fissità dell’immagine, sfumandone l’origine attraverso il gioco delle voci narranti, per far emergere piuttosto il rapimento e l’accecamento dello sguardo, che essa comporta. Tale accecamento e tale fascinazione operano anche nei testi autobiografici, in cui l’io stesso è preso nella fascinazione e nell’estraneazione della propria immagine. Del soggetto non rimangono che la «démultiplication de ses miroirs qui ne donnent à voir que sa

décomposition»17. La scrittura diventerebbe, dunque, un gesto performativo, solamente nell’accadere del quale il soggetto può trovare “consistenza”, perdendosi nei suoi specchi. Nell’opera durassiana, dunque, il rapporto fra immagine, scrittura e realtà viene costantemente rielaborato e approfondito, finendo per far emergere, secondo Loignon, una grande affinità con il “pensiero del Fuori” e dell’impersonale proprio della riflessione post-moderna e legato soprattutto alla figura di Maurice Blanchot.

15 Anne Cousseau, Poétique de l’enfance chez Marguerite Duras, cit., p. 433. (“Così la forma non ha ucciso il senso. La scrittura

durassiana, per questo rapporto specifico al reale [l’appropriazione del reale da parte del discorso mitico che riconosce al reale la sua dimensione di segno letterario e che permette di privilegiare la forma senza occultare il referente], ha saputo conciliarli in modo del tutto particolare, riconoscendo il ruolo di nozioni ritenute “superate”, quelle di storia e soprattutto di soggetto, ma in una prospettiva radicalmente nuova, che preserva l’elaborazione letteraria come primo oggetto del discorso letterario” Tr. mia)

16 I riferimenti di questo discorso sono principalmente Maurice Blanchot, Jacques Lacan e Georges Didi-Huberman. 17 Sylivie Loignon, Le regard dans l’œuvre de Marguerite Duras. Circulez, il’y a rien à voir, L’Harmattan, Paris 2001, p.329. (“la

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Nel testo di Sylvie Bourgeois, intitolato Marguerite Duras. Une écriture de la réparation, l’autrice cerca di cogliere l’esito della ripresa incessante di alcuni motivi all’interno dell’opera durassiana. Bourgeois mostra come il movimento della ripetizione acquisisca un senso diverso nelle varie fasi della produzione di Duras. Nelle prime opere «la répétition des scènes de bal et des gisants révèle donc une certaine tendance des

personnages, en particulier féminins, à se remettre indéfiniment dans les mêmes situations douloureuses. Cette répétition apparaît d’autant plus pénible qu’elle souligne l’impossibilité de toucher du doigt la scène modèle rêvée»18. Nelle opere

del Ciclo Indiano, invece, la ripetizione non ha più lo scopo di ritornare verso una scena che si dimostra irrimediabilmente perduta, ma quello di elaborare questo lutto, celebrando, nella forma del mito, la perdita. La riscrittura del romanzo familiare, nelle opere autobiografiche, appare come un tentativo di riconciliazione con l’origine, che installa il movimento della riparazione proprio nel cuore della ripresa e della ripetizione delle stesse scene. Bourgeois riconosce dunque, nella ripetizione, un movimento essenziale alla scrittura durassiana, che acquisisce un senso e un’efficacia diversi nel corso della produzione della scrittrice, orientati verso una riparazione.

Come si può vedere da questi brevi accenni a quattro interpretazioni del percorso creativo durassiano, all’interno di quest’ultimo sono riconoscibili dei cambiamenti radicali, che sono il segno di differenti esperienze della scrittura e di differenti elaborazioni dei nuclei problematici ad essa connessi.

18 Sylvie Bourgeois, Marguerite Duras. Une écriture de la réparation, L’Harmattan, 2007, p. 177-178. (“la ripetizione delle scene del

ballo e dei gisants rivela quindi una certa tendenza dei personaggi, in particolare quelli femminili, a rimettersi indefinitamente nelle stesse condizioni dolorose. Questa ripetizione appare tanto più dolorosa quanto più sottolinea l’impossibilità di raggiungere la scena modello sognata”. Tr. mia)

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3.

UNA SOFFERENZA SENZA SOGGETTO E SENZA CATARSI

Per avvicinare la complessità problematica dell’esperienza limite della follia, così come appare nei romanzi del ciclo indiano, può essere utile rintracciarne i precedenti all’interno dell’opera durassiana. Il più evidente fra questi è la caduta nella follia dell’attrice francese protagonista di Hiroshima mon amour, sceneggiatura scritta da Duras per il film di Alain Resnais.

Il film narra una breve e intensa storia d’amore fra un’attrice francese e un architetto giapponese sullo sfondo della città di Hiroshima, dove la donna si era recata per girare un film. Questo «amore casuale»19 costituisce la cornice all’interno della quale viene evocata la tragica storia d’amore dell’attrice

francese con un soldato tedesco al tempo della guerra. L’attrice, infatti, si era innamorata di un soldato tedesco che era stato ucciso, nel 1944, in occasione della liberazione della Francia dall’occupazione tedesca. La ragazza, a causa di questo amore per “il nemico”, era stata rasata e rinchiusa in una cantina, dove era diventata pazza, «pazza di cattiveria»20. Nel film avviene così una sovrapposizione di

personaggi, luoghi e storie, per cui il soldato tedesco si sovrappone all’architetto giapponese e Nevers, la cittadina francese in cui l’attrice era diventata pazza, si sovrappone a Hiroshima; infine questo amore “casuale” per il giapponese si sovrappone al primo tragico amore della protagonista. L’amore, la morte e la guerra pervadono e operano queste sovrapposizioni, grazie alle quali il film non descrive «l’orrore con l’orrore», ma fa «rinascere quest’orrore dalle proprie ceneri, inserendolo in un amore che sarà necessariamente singolare e “stupefacente”. E al quale si crederà molto di più che se si fosse verificato in qualsiasi altro posto del mondo, in un posto che la morte non ha conservato»21. Attraverso la storia di

questo amore “casuale”, Duras apre il vissuto soggettivo dei personaggi e lo intreccia con il dolore collettivo della guerra e di Hiroshima. Per la scrittrice è «impossibile parlare di Hiroshima»: le ricostruzioni, i musei e i documentari sono dei monumenti che, più che aiutare a conservare la memoria di quella tragedia, aiutano a dimenticare. È piuttosto il lavoro di una memoria involontaria, come quella che fa evocare all’attrice francese il suo amore per il soldato tedesco, che riesce a intrecciare delle relazioni fra il presente e il passato, fra luoghi diversi e fra amori diversi.

In Hiroshima mon amour il lavorio della memoria ha un esito “positivo” per la protagonista, nel senso che l’attrice riesce a evocare la sua vicenda e alla fine a consegnarla a un oblio liberatore:

«Ho raccontato la nostra storia.

Ti ho ingannato stasera con questo sconosciuto. Ho raccontato la nostra storia.

Come vedi si poteva raccontare.

Da quattordici anni non ritrovavo… il gusto di un amore impossibile. Da Nevers.

Guarda come ti dimentico… Guarda come ti ho dimenticato…

19 Marguerite Duras, Hiroshima mon amour, tr. it. di Pierre Denivelle-Serra, Einaudi, Torino 1965, p. 100. 20 Ivi, p. 38.

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Guardami»22.

Queste parole, che la protagonista, in un monologo interiore, rivolge al soldato tedesco, sono le stesse che l’attrice rivolge all’uomo giapponese prima di abbandonarlo definitivamente:

«Ti dimenticherò! Già ti sto dimenticando! Guarda come ti dimentico! Guardami!»23.

Dimenticando l’uomo giapponese, la donna dimentica definitivamente anche il tragico amore per il soldato tedesco; come scrive Duras, entrambi vengono annegati «nell’oblio universale»24.

Quest’oblio corrisponde, per la protagonista, anche a una liberazione definitiva dalla follia. L’evocazione della storia d’amore con il soldato tedesco, infatti, coincide nel film anche con l’evocazione della follia, in cui era caduta la ragazza in seguito all’uccisione dell’uomo. Consegnare quelle vicende all’oblio significa anche liberarsi dalla follia, che è loro connessa.

Nella storia di Hiroshima mon amour la protagonista attraversa l’esperienza limite della follia e, alla fine, riesce a liberarsene.

In Il rapimento di Lol V. Stein, che è il primo dei testi del Ciclo Indiano, invece, la protagonista non riesce a liberarsi dall’attaccamento all’avvenimento traumatico che l’ha colpita, cioè il tradimento del fidanzato, nemmeno dopo aver non solo evocato, ma anche riattualizzato il fantasma di quell’evento.

Tra un’opera e l’altra si è dunque verificato uno spostamento, un cambiamento all’interno della scrittura durassiana rispetto all’esperienza limite della follia. La chiave di questo cambiamento può forse essere rintracciata nell’espressione che in Il rapimento di Lol V. Stein “descrive” la sofferenza di Lol: «une

souffrance sans sujet».

Per provare a valutare la portata di questa enigmatica espressione può essere utile cercare di evidenziare alcune continuità e alcune discontinuità fra Hiroshima mon amour e Il rapimento di Lol V. Stein. Se si considerano le vicende delle due protagoniste nel loro complesso, esse appaiono molto simili. Entrambe hanno subito il trauma della separazione dal loro amato. Entrambe sono precipitate nella follia. Entrambe sono ritornate a un’apparente ragionevolezza. Entrambe, a un certo momento, si sono trovate nella condizione di riesumare quell’antico dolore. A questo livello la differenza più evidente è che, mentre l’attrice francese si libera del dolore attraverso la sua rievocazione, Lol V. Stein vi rimane immersa. Perché?

Questa differenza più evidente si costruisce a partire da differenze più piccole, che declinano elementi simili in maniera diversa.

Il periodo più acuto della sofferenza delle due donne presenta dei caratteri comuni: esso si svolge per entrambe in un luogo chiuso, all’interno del quale esse alternano momenti di rabbia, di cui è espressione il grido, e momenti di silenzio, quasi non fossero presenti a se stesse, dando l’impressione

22 Ivi, p. 69. 23 Ivi, p. 77. 24 Ivi, p. 78.

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di dimenticare. Bisogna osservare, però, che mentre la protagonista di Hiroshima mon amour grida il nome del soldato tedesco e la sua ira è rivolta contro tutti coloro che l’hanno separata dall’amato, Lol V. Stein invece grida con rabbia il proprio stesso nome.

La posizione dell’attrice e quella di Lol rispetto all’evento traumatico che hanno subito è diversa. La ragazza francese diventa pazza per il dolore di essere separata dal suo amante, che è stato ucciso; Lol, invece, diventa pazza per essere stata separata dalla nuova coppia di amanti, che si è creata sotto i suoi occhi, formata dal suo fidanzato e da Anne Marie Stretter. Lol, stranamente, non soffre per essere stata tradita dal fidanzato, ma per essere stata separata dalla nuova coppia di amanti. In La vita materiale, molti anni più tardi, Duras scrive:

«Al momento del ballo di S. Thala [T. Beach], Lol V. Stein è a tal punto attratta dallo spettacolo del suo fidanzato e di quella sconosciuta in nero da dimenticarsi di soffrirne. Non soffre d’esser dimenticata, tradita. Ed è per via di questa soppressione del dolore che Lol V. Stein impazzirà. Si potrebbe dirlo in un altro modo, si potrebbe dire che lei ammette che il fidanzato sia attratto da un’altra donna, aderisce completamente a quella scelta fatta contro di lei ed è per questo che perde la ragione. È un oblio»25.

L’attrice francese non si rimprovera nulla, soffre atrocemente per la morte dell’amato: la sua posizione rispetto al trauma è passiva, è quella di chi l’ha subìto innocentemente e in tutta la sua gravità. Lol V. Stein sembra invece rimproverarsi qualcosa: secondo il narratore, Jacques Hold, Lol si rimprovera di non aver trovato quella parola che avrebbe sospeso il tempo e murato la scena del ballo26, mantenendola per sempre nella posizione di esclusione e di voyeur in cui si trovava in quel momento. Il desiderio di Lol sembra dunque essere al tempo stesso desiderio di vedere e desiderio di esclusione, di morte. In qualche modo il trauma di Lol non si è compiuto del tutto e lei ne alimenta il fantasma.

Entrambe le donne, dopo il momento più acuto della follia, raggiungono una condizione più serena:

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