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La chiusura dell’infanzia

In relazione a quello che è stato individuato come il tema centrale del romanzo, l’uscita dall’infanzia, le osservazioni sul linguaggio offrono alcune indicazioni di lettura. Il romanzo non si chiude con l’uscita

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di Ernesto dall’infanzia e con il suo accesso, grazie all’acquisizione del linguaggio e di un ordine simbolico, nel mondo degli adulti. La pioggia d’estate non è un romanzo di formazione. Si potrebbe dire, piuttosto, che l’infanzia di Ernesto, intesa come età in cui l’immediatezza della vita è più prossima e selvaggia, non si risolve, ma si chiude. L’infanzia, però, non è un’età estranea al linguaggio. L’infanzia si chiude con la pioggia d’estate, ma rimane come mancanza o come una regione di godimento nella lingua. Marguerite Duras sembra indicare, in questo modo, una delle sorgenti della sua scrittura.

Come abbiamo visto fin qui, la parola “infanzia” oscilla fra il suo significato letterale e un significato metaforico, messo in luce a partire da Giorgio Agamben. Ponendo in risonanza fra loro questi due significati si è cercato di evidenziare la compresenza, all’interno de La pioggia d’estate, di due diverse esperienze del linguaggio: una legata alla mancanza e una che, invece, insiste sulla contingenza di un evento presente.

Tale oscillazione non è estranea alla scrittrice: se, da un lato, l’infanzia ha costituito un periodo molto significativo della sua vita, su cui è tornata in moltissime opere, dall’altro Duras usa questa parola anche per indicare una particolare esperienza della realtà. Ne L’amante si legge:

«Per me la guerra ha i colori della mia infanzia. Confondo il tempo della guerra con il regno del fratello maggiore. Probabilmente anche perché è durante la guerra che è morto il mio secondo fratello: il cuore, come ho già detto, aveva ceduto, si era arreso. Il fratello maggiore, credo proprio di non averlo mai visto durante la guerra. Già non mi importava più di sapere se era vivo o morto. La guerra era come lui: invadeva, penetrava, imprigionava, rubava, c’era sempre, in tutto, mescolata a tutto, eterogenea, presente, nel corpo, nel pensiero, nella veglia, nel sonno, sempre, in preda all’inebriante passione di occupare l’adorabile territorio del corpo del bambino, il corpo dei più deboli, dei popoli vinti, perché il male è alle porte, ci sta addosso»48.

L’infanzia, dunque, ha lo stesso carattere dell’esperienza della guerra: l’impotenza nei confronti di eventi che si possono soltanto subire. Nella minuta de L’amante tale affinità è ancora più esplicitamente sottolineata:

«La guerra fa parte dei ricordi d’infanzia. […] non ha un posto suo nel tempo della mia vita, nella mia memoria. L’infanzia sopraffà la guerra. La guerra è un evento che bisogna subire per tutta la sua durata. Allo stesso modo, l’infanzia che subisce il proprio stato[…]»49.

Il fatto stesso che la scrittrice usi la parola “subire” segnala l’angoscia che queste esperienze suscitano, invadendo lo spazio fisico e psichico senza che sia possibile sottrarvisi o prenderne alcuna distanza. Sophie Bogaert e Olivier Corpet, che hanno curato la pubblicazione postuma di Quaderni della

guerra e altri testi, volume in cui sono contenuti quattro quaderni che Duras scrisse durante la guerra e altri testi mai pubblicati in precedenza, ma risalenti agli stessi anni, sottolineano che questa sofferenza spinge l’autrice «a una rivolta di cui la scrittura si fa strumento»50. Da un lato una simile affermazione è

sicuramente condivisibile, nella misura in cui la scrittura comporta una presa di distanza dal reale. Al di là delle numerose occasioni in cui Duras si sofferma sulla solitudine della scrittura, basta leggere quanto

48 Marguerite Duras, L’amante, cit., p. 70.

49 Manoscritti de L’amante nel Fondo Marguerite Duras/Imac, cit. in Sophie Bogaert e Olivier Corpet, Prefazione, in

Marguerite Duras, Quaderni della guerra e altri testi, tr. it. di Laura Frausin Guarino, Feltrinelli, Milano 2008, p. 10.

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scrive l’autrice in un breve testo, pubblicato postumo in Quaderni della guerra e altri testi, sulla propria infanzia:

«Che cosa resta [dell’infanzia], vi domanderete. Resta mia madre. Perché nascondermelo.

È di lei che voglio raccontare, della sua storia, del prodigioso mistero mai svelato, quel mistero che è stato molto a lungo la mia gioia, il mio dolore, in cui sempre mi ritrovavo e da cui spesso fuggivo per poi ritornarvi. […]

Qui mi fermo perché vorrei poter dire quello che è stata e quello che è sempre questa maternità – e le parole mi sembrano vuote, illusorie. Vorrei, per vederla, allontanarmi da lei, respingere per un momento quella sua attualità sempre così assorbente»51.

D’altra parte, però, parlare di “rivolta” a proposito della scrittura durassiana potrebbe risultare fuorviante: una rivolta, infatti, oltre a indicare una presa di distanza dal reale, suggerisce anche la possibilità o, almeno, la speranza di una catarsi rispetto alla sofferenza. Invece la scrittura di Duras, come ha sottolineato Julia Kristeva52, non offre alcuna possibilità di catarsi. Il rapporto che essa

intrattiene con l’esperienza del dolore, pur comportando una presa di distanza per dare origine alla scrittura stessa, non è quello della rivolta, ma piuttosto consiste nell’atteggiamento di stare presso il dolore, senza mai superarlo, o, addirittura, come scrive ancora Kristeva, di propagarlo53. L’impossibilità

di superare il dolore è segno del fatto che l’evento doloroso non viene mai completamente rielaborato e assorbito a livello simbolico. L’evento si chiude senza risolversi completamente in una sua interpretazione e va a costituire una zona d’ombra della memoria, che non cessa di ritornare oppure viene momentaneamente dimenticata. Nel breve testo sulla sua famiglia, pubblicato postumo, che è stato citato in precedenza, Duras esprime chiaramente l’idea della chiusura dell’infanzia senza una via d’uscita, del suo isolamento all’interno della storia personale della scrittrice:

«Vorrei vedere nella mia infanzia solo l’infanzia. E tuttavia non riesco a farlo. Non ci vedo addirittura alcun tratto caratteristico dell’infanzia. Vi è in questo mio passato qualcosa di compiuto e perfettamente definito – e a proposito del quale nessuna illusione è possibile.

Non mi ci ritrovo in alcun modo. È il periodo della mia vita che sento come il più arido, con l’eccezione di pochi anni dai quali, come un tabernacolo, ho attinto forze per tutta la mia vita. Niente di più chiaro, di più vissuto, di meno sognato di tutta quanta la mia infanzia. Nessuna fantasia, niente di quelle leggende e di quelle fiabe che circondano quella prima età di un’aureola di sogni.

Non vado a caccia di spiegazioni. È così per me e per i miei due fratelli, che hanno vissuto gli stessi anni. Eppure quell’infanzia mi tormenta, e accompagna la mia vita come un’ombra. Non mi attrae per il suo incanto, poiché non ne ha molto ai miei occhi, ma al contrario per la sua stranezza. Non ha mai condizionato la mia vita. È stata solitaria e segreta – ferocemente custodita e molto a lungo chiusa in se stessa.

Lo dirò a seconda del vento che soffia in me quando la sento invadermi come un’avventura dimenticata - e mai chiarita»54.

Come è noto, su questa «avventura dimenticata» Marguerite Duras ritorna molto spesso nella sua opera, offrendo testimonianza proprio dell’incessante presenza di una simile zona d’ombra, che non viene mai portata alla luce completamente, che non viene mai assorbita del tutto nella dimensione simbolica e che genera un continuo ritorno della scrittura sui medesimi luoghi.

51 Ivi, p. 272.

52 Cfr, Julia Kristeva, Sole Nero, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1989, pp. 192-194. 53 Cfr. ivi, p. 193.

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Ci si può chiedere, a questo punto, da che cosa sia caratterizzata l’infanzia per Duras, che cosa la renda così inaggirabile. Si è già visto che l’infanzia è una sopraffazione che si subisce con il corpo, nel corpo. L’infanzia è uno stato di minorità e di impotenza in cui si cancellano le differenze individuali, si perdono i nomi propri per acquisire solo quello comune di bambini. L’infanzia è un’esistenza assolutamente materiale, «niente di più chiaro, di più vissuto, di meno sognato»: essa è dominata, per la scrittrice, dalla figura della madre. Sono molto significativi, in questo senso, alcuni passi del testo già citato prima e di un altro breve ritratto dell’infanzia, pubblicato anch’esso in Quaderni della guerra e altri

testi:

«Mia madre è stata per noi una grande pianura dove abbiamo camminato a lungo senza coglierne la misura. Non la vedo per niente circondata da quell’alone di dolcezza e di sollecitudine che si accompagna a ricordi di questo tipo quando se ne segue il filo. Del resto non è un ricordo. È una grande marcia senza fine.

Non so niente della sua vita di donna, di ragazza, di sposa. La vedo come nostra madre, è tutto.

E poi siamo venuti, noi tre: siamo stati il sale della sua vita, il sale di quella terra che fu, da allora, sontuosamente fecondata.

Lei ha vissuto quella passione per noi, senza alcun freno. L’ha vissuta attivamente. Senza quella pazienza, quella pace che è prodigata alle madri come una benedizione.

Ha sostenuto il peso della sua passione, sola, con una violenza mai placata, e le sue spalle sono sempre così belle sotto quel pesante fardello.

Fin da piccoli abbiamo partecipato alla sua vita. Siamo stati i suoi amici, e credo che abbiamo preso da lei il senso della realtà. La sua realtà era il nostro sogno. Siamo stati tutti nutriti di lei come gli altri bambini lo sono di chimere. Abbiamo condiviso le sue disgrazie e le sue gioie in tutta la loro pienezza.

Venivamo da lontano, sempre da lontano. Arrivi e partenze si susseguivano nella nostra vita come in altre scorrono, regolari e lenti, gli anni saldati gli uni agli altri. […] Avevamo stupori altrettanto puri e semplici di quelli di tutti gli altri. Le idee generali, le ignoravamo, non avevamo alcuna nozione del mondo e dei viaggi – perché vivevamo solo nell’attualità di tutti i giorni.

Vedo sempre noi tre in una luce altrettanto singolare. Sempre sparuti e stanchi, la mattina [illegg.] all’arrivo in certe stazioni strane e senza nome, tutti ammucchiati, rannicchiati contro mia madre, frutti di uno stesso grappolo, aggrovigliati gli uni agli altri con ancora la stessa carne e lo stesso sonno. La mamma ci teneva, ci covava senza distinguerci, e nella sua tenerezza c’era lo stesso disordine che nelle nostre carni»55.

Gli elementi che emergono più chiaramente da questo brano sono la passione della madre e il fatto che la scrittrice si sentiva indistinguibile rispetto ai fratelli. La madre è tutto il mondo dei bambini, la sua vita invade le loro vite: i bambini, nella loro impotenza, non possono che condividere tutte le gioie e tutta la disperazione della madre. Attraverso gli occhi della madre i bambini scoprono di essere anche una fatica, un fardello per la madre: per la madre i bambini sono “i bambini” in generale, senza distinzione.

Tutti questi elementi si possono ritrovare nei testi in cui Duras scrive dell’infanzia: Una diga sul

Pacifico, L’amante, L’amante della Cina del Nord. Il punto su cui tali opere si aprono è sempre un momento di tensione tra l’infanzia e l’accesso all’età adulta, un passaggio che non si risolve mai del tutto, ma che si interrompe bruscamente: nel caso di Una diga sul Pacifico con la morte della madre, nel caso degli altri due testi con la partenza della protagonista per la Francia. L’amore ha un ruolo determinante nella separazione della protagonista dall’infanzia, ma anch’esso non ha modo di svilupparsi, perché viene interrotto e assume così un carattere di impossibilità.

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Anche in La pioggia d’estate ritornano gli stessi caratteri dell’infanzia, ma subiscono uno spostamento, perché Duras li proietta attorno alla figura di Ernesto, del bambino che non vuole imparare, e alla sua vicenda. Tale spostamento provoca dei cambiamenti a livelli diversi. Per quanto riguarda i personaggi, si può osservare che nella famiglia di Ernesto, oltre alla madre, c’è anche il padre; i fratelli e le sorelle del protagonista sono sei, ma, esclusi Ernesto e Jeanne, i bambini mantengono l’indistinzione evidenziata nel brano citato prima e vengono indicati con i nomi comuni “brothers and sisters”. Anche l’amore subisce due spostamenti di senso importanti. Il primo è relativo alla figura della madre, della quale viene messa in evidenza anche «la vita di donna, di ragazza, di sposa», diversamente dagli altri romanzi durassiani, in cui questa figura si caratterizza soltanto come madre: ne La pioggia d’estate anche la madre ha amato e ama un uomo, alleggerendo così la pressione sui figli, che negli altri testi risulta violenta e soffocante. Il secondo spostamento riguarda, invece, la relazione tra Ernesto e Jeanne. Tenendo conto del fatto che l’amore per un fratello è un tema a cui si accenna in tutte le opere di Duras relative all’infanzia e che, in generale, l’amore, per la scrittrice, costituisce un elemento di rottura rispetto alla condizione infantile, si può cogliere la portata dello spostamento che avviene in La pioggia d’estate: l’amore non viene consumato con una persona esterna alla famiglia di Ernesto, ma con la sorella Jeanne. In questo modo emerge il radicamento dell’amore nell’infanzia: mettendo al centro il rapporto incestuoso tra i due fratelli la scrittrice sembra voler creare o sottolineare un legame più forte tra l’amore e l’infanzia. L’amore costituisce anche in questo caso un elemento di rottura rispetto all’infanzia, ma, essendo un amore incestuoso e contravvenendo così al divieto di incesto, su cui, da un punto di vista psicanalitico, si fonda la possibilità di accesso all’ordine simbolico, esso non costituisce un distacco completamente riuscito dalla dimensione immaginaria infantile, in cui vengono realizzate continuamente identificazioni immaginarie con l’altro; di conseguenza l’identità del soggetto non riesce a definirsi. L’amore non fa uscire del tutto Ernesto e Jeanne dall’indistinzione indicata dal nome comune “bambini” o “brothers and sisters”.

Il fatto di aver proiettato questi caratteri dell’infanzia sulla vicenda di Ernesto comporta anche uno spostamento rispetto all’asse narrativo principale, che è proprio il tema dell’uscita dall’infanzia. Come si è visto, la storia di Ernesto è quella di un bambino che non vuole andare a scuola. Una delle riflessioni pedagogiche che possono aver guidato la scrittrice nella stesura del libro per bambini nel quale appare per la prima volta questa vicenda è quella secondo cui i bambini apprendono autonomamente seguendo un loro percorso di maturazione naturale e quindi non devono essere forzati a imparare. Questa osservazione potrebbe rendere conto del fatto che non è Ernesto a voler uscire dalla condizione infantile, ma che si trova a doverlo fare nel momento del distacco. Ernesto esce dall’infanzia, ma senza aver cercato il distacco, mentre negli altri romanzi la protagonista desidera questo cambiamento. Questo spostamento ha una conseguenza significativa, che è quella di enfatizzare ulteriormente la passività dei personaggi durassiani rispetto agli eventi, interiori ed esteriori, che li coinvolgono. Gli

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eventi vengono sentiti e sofferti in tutta la loro portata, ma raramente vengono organizzati o progettati. L’unica eccezione, in questo senso, è la figura della madre che solo in La pioggia d’estate non è un personaggio fortemente volitivo e nutrito da un’accanita speranza, anche nell’impossibile. Ernesto subisce tutto: l’infanzia, la crescita, la paura, la passione. L’unica cosa che il bambino rifiuta è la scuola.

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