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Il fantasma che invade il reale

7.7 «Le pare di crescere in un certo senso come all’interno»

7.9. Il fantasma che invade il reale

La paura che incuterebbe lo sguardo della madre, nel momento in cui si trovasse davanti a sé la figlia, blocca la mendicante in uno stato di profonda confusione:

«Ha paura. La madre stanca la guarderà venire avanti dalla porta della capanna. La stanche zza nello sguardo della madre: Ancora viva, tu, che credevo morta? È quella la paura più forte, il suo viso quando guarderà farsi avanti la figlia che è tornata.

Per un giorno intero lei esita. In una baracca di guardiani di bufali, sulla riva del lago, rimane sotto quello sguardo, immobile»210.

La madre incute troppa paura. Non sembra possibile tornare mantenendo una distanza da lei e, dunque, nemmeno instaurare un rapporto diverso con lei. Nonostante questo, la mendicante “prende coraggio”, si mette in cammino verso quella che lei crede essere la direzione del villaggio natale:

«Solo la notte successiva lo fa. Risale il Tonlé-Sap, sì. […] Lo fa. Ah! La madre ignora che ne ha il diritto? Ebbene adesso lo saprà. Le impedirà di entrare con un bastone in mano, perché ricorderà. Ma questa volta, bada a te.

Rivederla e tornarsene via nel monsone. Vomitarle questo figlio»211.

Il proposito della mendicante, però, non si realizza. A un certo punto del suo cammino le pare di riconoscere, dagli odori di un mercato, il villaggio natale. Si siede allora vicino a una capanna e aspetta di vedere la madre. La mendicante vede dei bambini, che lei pensa siano i suoi fratelli e le sue sorelle, che l’avrebbero riconosciuta e la starebbero indicando con le dita. Qualcuno le porta del cibo: lei mangia e si addormenta. Pensa che non può essere stata che la madre a donarle quel cibo. Al suo risveglio, però, il mercato non c’è più. La mendicante allora immagina che la madre l’abbia lasciata fuori un’altra volta. A quel punto lei comincia a dubitare di aver visto sua madre e i suoi fratelli:

«Si risveglia verso sera. Non ricorda più, le vien da pensare che non era affatto la madre quella che ha visto, né la sfilza dei fratelli e delle sorelle. Perché avrebbe dovuto vedere proprio la madre? Proprio i fratelli e le sorelle? Quale può essere adesso la differenza fra gli uni, gli altri?»212.

209 Ivi, p. 39. (“Non è senza pericolo il gesto di seguire gli uccelli: hanno condotto Jacques fino alle notti deserte della vita

che si è scelto, Lol V. Stein ad abbandonarsi alla follia, la mendicante fino all’oblio totale e indistinto, Anne-Marie Stretter alla morte. In fondo alla strada, diversa per ogni personaggio, si trova sempre il deserto”. Tr. mia”)

210 Marguerite Duras, Il viceconsole, cit., p. 19. 211 Ibidem.

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La mendicante, dunque, si risveglia e dubita della sua visione. Ancora una volta, come era avvenuto quando la madre aveva cacciato la mendicante, il testo colloca questi avvenimenti fra la veglia e il sonno, caricandoli di una forte valenza onirica e fantasmatica, che tende a erodere la distinzione fra ciò che è reale e ciò che non lo è. Non c’è più nulla di definito e di riconoscibile, non c’è più alcun punto di riferimento.

La comparsa del dubbio sulla natura della propria visione sembra essere il segno di una rinnovata lucidità della mendicante. In realtà, però, questa lucidità non fa che spostare il problema: la questione importante non è più capire se quelli che ha visto siano i suoi veri familiari, ma accorgersi che non farebbe alcuna differenza sapere se lo siano o meno. Il loro comportamento con lei sarebbe uguale in entrambi i casi. Tutti sono sostituibili nel fantasma dell’abbandono, nessuno gode più di un’identità fissa. Il fantasma dell’abbandono ha completamente invaso l’esperienza della mendicante. La madre l’ha cacciata, l’ha cancellata, le ha tolto ogni possibilità di situarsi nel reale e ora lei vive sospesa in quella scena. Il momento di quella violenza, d’altra parte, è stato l’ultimo in cui la mendicante ha avuto una consistenza personale, almeno come vittima, sotto i colpi del randello e delle parole della madre. La scena dell’abbandono diventa un fantasma, una scena mitica, che non cessa di ripetersi nel ricordo e che costituisce tutta la “realtà” della mendicante. Quest’ultima, dunque, si risveglia non tanto alla lucidità, a una presa di coscienza, quanto piuttosto a una radicale solitudine e, si potrebbe dire, a un sogno ancora più pervasivo, in cui non è più possibile distinguere nulla, perché il fantasma ha invaso tutto.

L’incontro con la madre non è avvenuto; non è stato possibile risalire oltre il villaggio natale, oltre l’origine. Non è stato possibile superare il verdetto della madre, andare a incontrarla nel luogo in cui lei nega se stessa e la figlia come donne. Risalire oltre l’origine avrebbe significato far risuonare quel luogo, quel vuoto della madre stessa. Ma come poteva riuscire a farlo la mendicante, che è stata a sua volta negata? L’impresa ha davvero i caratteri dell’impossibile.

Fallito questo incontro, la mendicante torna sui suoi passi:

«Nella luce rovente e livida, col figlio ancora nel ventre, lei si allontana, senza timore. La sua strada, ne è sicura, è quella dell’abbandono definitivo della madre. Gli occhi le piangono, ma lei, invece, canta a squarciagola una canzone infantile di Battambang»213.

La strada della mendicante è quella di abbandonare definitivamente la madre, abbandonare questo unico punto di riferimento. Più precisamente, il punto di riferimento sono la collera e il randello della madre. L’ultimo momento in cui la mendicante può ritrovare se stessa come singolarità è il momento in cui la madre ha decretato la sua sparizione. Da quel momento in poi la madre non è più raggiungibile per lei; la madre diventa un fantasma. Nei termini dell’analisi di Marcelle Marini si potrebbe dire che è la madre simbolica a essere irraggiungibile, mentre la madre immaginaria infesta tutto il reale con il potere del fantasma.

212 Ivi, p. 20. 213 Ivi, p. 21.

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Quale significato può avere, allora, l’abbandono definitivo della madre se quest’ultima è ovunque e contemporaneamente da nessuna parte? Come abbandonare la madre, infine, senza essere qualcuno, essendo qualcuno che è stato cancellato? Dove conduce la strada di cui la mendicante è sicura che sia la sua? La ragazza è accerchiata dal fantasma della madre e dal fantasma che lei stessa si è trovata a diventare. Non è chiaro dove conduca la strada che le si prospetta davanti, ma nondimeno, va percorsa: la mendicante è ancora in vita.

I suoi occhi piangono, ma lei canta una canzone d’infanzia di Battambang.

La bambina, infine, nasce. Non è la madre che aiuta la mendicante, ma un’altra donna, che la nutre per due giorni e poi le dà un sacco di juta per ripartire. La scena dell’abbandono si ripete.

7.10. Battambang

La mendicante si rimette in cammino verso Sadec e Vinh-Long. Sono luoghi in cui nessuno parla cambogiano, la sua lingua. Lei è isolata anche da questo punto di vista. Più profondamente, però, questo isolamento linguistico è il segno del fatto che la mendicante è esclusa dal linguaggio intero, dalla possibilità di articolare un senso. Questa esclusione è così radicale che, dopo pochi giorni di cammino, la mendicante non si accorge nemmeno di non venir più capita. Il suo linguaggio è diventato incomprensibile. Alla mendicante non rimane che un’unica parola: Battambang.

«Va avanti, e poi si addormenta. Battambang, canzone stridula dei bambini appollaiati sui bufali e che si dondolano là sopra e che ridono, lei la canta prima di addormentarsi, dietro i fuochi di sterpi di un villaggio nella foresta, nella regione delle tigri, nel buio della giungla. […]

Canzone gaia di Battambang che dice che il bufalo mangerà l’erba ma che a sua volta l’erba mangerà il bufalo quando scoccherà l’ora. […]

Battambang la proteggerà, dirà solo quella parola in cui lei sta rinchiusa, lei e la sua casa sbarrata»214.

Battambang è dunque l’ultima parola che è rimasta alla mendicante. Non si tratta di una parola in grado di veicolare un senso. Essa è piuttosto un nome e un canto. Duras insiste fin dall’inizio del romanzo sulla qualità sonora di questo nome, al di là del suo significato. Tale qualità suggerisce ed evoca molto di più di quanto si potrebbe dire spiegando l’origine e il significato affettivo di questo nome per la mendicante:

«“Battambang.”

Le tre sillabe risuonano con la stessa intensità, senza accento tonico, su un tamburello troppo teso. Baattamambbanagg»215.

Si può dire allora che la mendicante sia fuori dal linguaggio, come possibilità di elaborazione simbolica di un rapporto con il reale, ma non che sia fuori del linguaggio come suono che articola la presenza di qualcuno. La parola della mendicante si situa in una dimensione del linguaggio in cui l’elaborazione simbolica del senso non è ancora iniziata o non è più possibile. La sua voce e la parola

214 Ivi, pp. 36-42. 215 Ivi, p. 16.

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“Battambang” sono là dove il linguaggio non veicola più un senso, ma dove emerge qualcos’altro: il corpo ferito, senza nome, ma vivo della mendicante. Una volta che il sistema socio-simbolico ha fatto in modo che la mendicante fosse distrutta e che cominciasse a diventare difficile scrivere di lei (giacché da ora in poi sarà sempre più difficile raggiungerla), rimane nondimeno questa parola, questa parola- evento che accade ogni volta che la mendicante la pronuncia.

Emerge nuovamente nei testi di Duras un’esperienza limite della parola, che stavolta non è orientata dalla mancanza né genera un movimento di ripetizione, ma piuttosto lo arresta. Come si è già visto a proposito dell’infanzia, esiste, nell’opera durassiana, una dimensione della lingua che non cerca più di veicolare un senso e che non si imbriglia più nella ripetizione che la mancanza di senso genera. Esiste un’esperienza della parola collegata direttamente a un evento, alla presenza viva di chi parla. Si tratta di una parola che è quasi una cosa. Davanti alla sua banalità e alla sua opacità il movimento della ripetizione si arresta. L’effetto di questa parola è, forse, simile a quello dell’infanzia, davanti alla quale Duras dice che il dramma si arresta. Non è certamente un caso che il canto di Battambang sia un canto «stridulo» e «gaio» dei bambini «appollaiati sui bufali e che si dondolano là sopra e che ridono». Questo riso fa pensare nuovamente alle parole che la scrittrice gli dedica nell’articolo Ho pensato spesso, già citate in precedenza:

«La vita è limitata alla vita. Come persuadersene? […] Non c’è risposta alla vita tranne viverla.

Le risate dei bambini, la loro allegria, i loro attacchi di ridarella, sono l’unica esigenza autentica, mi sembra»216.

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