7.5 «Bisogna perdersi»: la marcia e la scrittura
7.6. Un viaggio iniziatico, un viaggio di espiazione o la ricerca dell’origine?
Nelle varie “tappe” del suo cammino la mendicante esplora e corrode via via diverse possibilità di senso, che tale viaggio può assumere in relazione all’evento da cui ha preso origine: la cacciata da parte della madre. È principalmente in relazione alla figura della madre che si giocano queste possibilità di senso. Il centro della questione è sempre l’enigmatica ingiunzione di doversi perdere. Rispetto alla relazione con la madre, Marcelle Marini, nel suo studio su Il viceconsole, si chiede:
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«“Il faut se perdre”, mais se perdre, est-ce quitter ou retrouver l’Origine? Et se sauver?»190.
La giovane mendicante indiana esplora tutte queste possibilità di senso.
L’ingiunzione della madre fa apparire questo viaggio come l’espiazione del fatto di essere rimasta incinta. Come in ogni viaggio di espiazione, l’unica indicazione è quella di seguire il dolore, di dirigersi verso il punto in cui il dolore sembra più acuto, verso il punto più ostile dell’orizzonte:
Alla fine di questo viaggio di espiazione ci sarà, però, una ricompensa? Si sarà raggiunto un guadagno? La madre non lo dice, ingiunge solo di perdersi. Nel testo la madre non mostra mai altro volto che quello severo del dolore e della collera. Al termine del viaggio non è prevista alcuna riconciliazione, nessun riconoscimento dell’esperienza della figlia. La madre costringe la figlia a un viaggio di espiazione senza fine, senza meta. La figlia ha qualcosa da espiare infinitamente.
Perché il fatto di essere rimasta incinta deve essere espiato infinitamente, senza che questa “colpa” possa mai essere estinta? Perché questa gravidanza non è accettabile in nessun modo? Dell’origine del viaggio della mendicante Peter Morgan scrive:
«A parte qualche incidente, per esempio quando si ferisce il piede su una scheggia di marmo, lei tende a dimenticare l’origine, che è stata scacciata perché ci è cascata, incita, come se fosse cascata da un albero altissimo, senza farsi male»191.
In questo brano l’essere rimasta incinta viene paragonato alla caduta da un albero, a un evento tanto probabile quanto involontario per chi si trova su un albero altissimo. Questo carattere allo stesso tempo tragico e inevitabile del desiderio e della sessualità rimanda all’immagine che la scrittrice ne dà nel suo racconto Il boa, precedente a Il viceconsole. In questo breve testo Duras racconta delle sue uscite domenicali con la signorina Barbet, presso la quale soggiornava nei primi tempi del suo arrivo in Francia. Ogni domenica la signorina Barbet le proponeva due “spettacoli”, che il racconto mette in relazione fra loro: prima lo “spettacolo” del boa, che la domenica divorava un pollo allo zoo e poi quello della signorina Barbet che le mostrava la sua biancheria. In quest’ultimo gesto si esprimeva tutta la solitudine e tutto il rimpianto della signorina Barbet per non aver essersi mai concessa all’amore:
«Il boa divorava e digeriva il pollo, il rimpianto divorava e digeriva allo stesso modo la Barbet»192.
La scrittrice mette in relazione questi due “spettacoli” attraverso un accostamento molto significativo:
«Certo, con il suo divorare il boa mi terrorizzava tanto quanto mi riempiva di orrore l’altro divoramento di cui la signorina Barbet era la vittima, ma il boa non poteva fare a meno di mangiare il pollo a quel modo. […] La Barbet doveva la sua infelicità al fatto di essersi sottratta alla legge, imperiosa, e che lei non aveva saputo intendere, del farsi – scoprire – il – corpo. Così il mondo, e dunque la mia vita, si apriva su una doppia strada, che costituiva un’alternativa secca. Da una parte c’era il mondo della signorina Barbet, dall’altra il mondo dell’ineluttabile, il mondo fatale, quello della specie considerata come fatalità, ed era il mondo dell’avvenire,
190 Marcelle Marini, Territoires du féminin, cit., p. 161. (“«Bisogna perdersi», ma perdersi significa lasciare o ritrovare l’origine?
E salvarsi?” Tr. mia)
191 Marguerite Duras, Il viceconsole, cit., p. 15.
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luminoso e bruciante, fatto di canti e di grida, ma alla cui crudeltà, se si voleva accedervi, bisognava abituarsi, come bisognava abituarsi allo spettacolo dei boa divoratori. E vedevo levarsi il mondo dell’avvenire della mia vita, del solo avvenire possibile della vita, lo vedevo schiudersi con la musicalità, la purezza di un serpente che si srotola, e mi sembrava che, quando l’avrei incontrato, mi sarebbe apparso così, nel dispiegarsi di una continuità maestosa, in cui la mia vita sarebbe stata presa e ripresa, e portata al termine, fra slanci di terrore, di rapimento, senza tregua, instancabilmente»193.
La dimensione della sessualità è associata al divoramento del boa e messa in opposizione al divoramento del rimpianto. La crudeltà dello “spettacolo” del serpente è un carattere ineluttabile della «vita», al quale non ci si può sottrarre. Allo stesso modo, la sessualità viene considerata come una dimensione inevitabile. Essa è luminosa, ma contemporaneamente tragica. Tale dimensione precede e sopravanza l’esperienza individuale, aprendola a una «maestosa continuità» della vita, cui essa sarebbe fatalmente consegnata.
Si può dire che, pur senza recuperare il tono di questo racconto, il brano di Il viceconsole citato sopra, in cui si parla del modo in cui la mendicante è rimasta incinta, rimandi a una simile rappresentazione del desiderio e della sessualità. I caratteri fondamentali di questi ultimi elementi sono l’inevitabilità e la “luminosa tragicità”. Il desiderio e la sessualità, dunque, si collocano fuori delle possibilità di controllo degli individui e si collegano piuttosto alla materialità della vita. L’ingiunzione della madre, che colpisce e allontana la figlia, vorrebbe dunque punire ed escludere questa dimensione dell’esistenza. La colpa della mendicante, allora, non può essere in alcun modo riparata perché è legata a qualcosa di cui lei non è responsabile fino in fondo. L’unica responsabilità che si può attribuire alla mendicante è quella di non essersi sottratta al movimento inarrestabile della «vita». Già in Il boa, però, consegnarsi a questo movimento era frutto della «scelta»194 di non escludere da sé e dalla propria esperienza questa
dimensione allo stesso tempo inumana e luminosa dell’esistenza. In Il viceconsole, questa “scelta” si è ormai approfondita fino al punto da mostrare i propri effetti inquietanti. Far posto in sé all’inumano significa, infatti, mettere in discussione l’intero ordine del mondo umano, di cui la madre della mendicante, in questa vicenda, è depositaria. Nel momento in cui l’ordine del mondo umano (della madre) e il disordine del desiderio e della sessualità (che hanno condotto la mendicante a rimanere incinta) si scontrano appare, da un lato, la forza e la carica di inquietudine del disordine, che è tale che l’ordine non riesce in alcun modo a rapportarsi con esso, se non escludendolo. Dall’altro lato appare anche la violenza dell’esclusione operata dall’ordine. La storia della mendicante giunge così a interrogare le origini e i meccanismi di formazione del mondo umano.
L’analisi di Marcelle Marini si concentra molto su questi aspetti, nel tentativo di smascherare la pretesa assolutezza di quell’ordine socio-simbolico che esclude e scaccia la mendicante. Secondo la studiosa, come si è visto, quest’ordine è un ordine socio-simbolico maschile; il disordine che esso
193 Ivi, pp. 79-80.
194 Il termine “scelta”, in questo caso, risulta forse inappropriato, dal momento che si tratta di non rifiutare una dimensione
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esclude è associato alla differenza femminile. L’interdizione che colpisce la mendicante colpirebbe, dunque, il sesso femminile: si tratta di quell’interdizione che quest’ultimo, identificato con un’immagine ambigua della maternità, subirebbe all’interno dell’ordine socio-simbolico maschile. Anche se una simile e netta identificazione del disordine con la differenza femminile nella storia della mendicante può risultare, a mio avviso, troppo schematica, essa ha, comunque, il pregio di aprire la strada per una lettura del viaggio della mendicante come un tentativo di rielaborazione del rapporto con la madre e con la differenza femminile.
Tuttavia, come si è visto a proposito di Il boa, la riflessione che si sviluppa a partire dallo “spettacolo” del serpente apre a una dimensione inumana dell’esistenza, in cui le differenze, anche quella sessuale, sembrano confondersi nella «maestosa continuità» di una vita impersonale. Il disordine, che l’ordine socio-simbolico maschile esclude, forse non coincide del tutto con la differenza femminile. D’altra parte, però, esistono sicuramente delle differenze nelle modalità del rapporto con questa dimensione legate alla differenza sessuale e alla diversa posizione che i due sessi occupano all’interno dell’ordine socio-simbolico. L’analisi di Marini riesce a evidenziare approfonditamente questi ultimi aspetti.
Un’ulteriore particolarità della storia della mendicante è costituita dal fatto che l’interdizione della figlia viene pronunciata dalla madre; quest’ultima assume in questo caso anche il ruolo del padre. La madre si dimostra così complice, ma anche vittima del sistema socio-simbolico maschile. La madre, infatti, nega innanzitutto il disordine, al quale si è sottratta, mettendosi completamente dalla parte dell’ordine socio-simbolico. Negando l’esperienza della figlia, lei nega anche un’esperienza femminile diversa da quella prevista dall’ordine socio-simbolico; la madre nega la possibilità di un’esperienza femminile diversa da quella già prevista in un ordine maschile. In questo modo la madre nega anche se stessa in quanto donna e non offre alla figlia alcuna rappresentazione positiva della differenza femminile.
Alla luce di ciò, tuttavia, essere cacciata dalla madre potrebbe anche significare per la figlia intraprendere un viaggio iniziatico in direzione di un diverso destino femminile.
In La vita materiale Duras parla del proprio distacco dalla madre come di una fuga. Se nella storia della mendicante sono in gioco, anche se trasfigurati, alcuni elementi dell’esperienza biografica di Duras e del suo rapporto con la madre, quello che la scrittrice dice a proposito del distacco dalla propria madre potrebbe suggerire la possibilità di leggere il viaggio della mendicante come una fuga in vista di una liberazione dalla madre. In La vita materiale si legge:
«Fuggiamo perché la sola avventura è quella prevista dalla madre»195.
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La storia della mendicante è certamente diversa da quella della scrittrice, ma rimane il fatto che anche la mendicante, a un certo punto, non si attiene più ai consigli della madre per perdersi, seguendo i fiumi verso sud, ma si inoltra per un’altra via:
«risalire verso il nord, oltrepassare il suo villaggio, poi c’è il Siam, fermarsi prima del Siam. Nel nord [Nord] non c’è più il fiume e riuscirò a perdere quest’abitudine di seguire l’acqua, sceglierò un posto prima del Siam e rimarrò lì. Vede il sud diluirsi nel mare, vede il nord [Nord] fisso»196.
La ragazza inizia a descrivere un percorso non previsto da alcuno. Lei decide di cambiare direzione: non va più verso sud, verso il punto più ostile dell’orizzonte, ma torna verso nord, verso il suo villaggio natale. Non si fermerà lì, ma risalirà ancora di più verso Nord.
Il viaggio iniziatico verso un nuovo destino è allora anche un percorso verso l’origine, oltre l’origine? Il nord rappresenta l’origine e, dunque, la madre. Marini fa notare che nel testo francese «nord» è scritto con due grafie diverse: una minuscola (nord) e una maiuscola (Nord). Ci sarebbero allora “due madri” diverse. La prima, quella scritta in minuscolo, sarebbe una madre mitica e immaginaria. La seconda, quella scritta in maiuscolo, sarebbe una madre simbolica, «point de référence à partir duquel situer
tous les corps féminins, ordonner sa vie et établir la relation au pôle opposé, le Sud, où se placerait l’autre des sexes»197. Se
questo è vero, allora il viaggio della mendicante non è solo un viaggio della disperazione, ma anche un viaggio iniziatico verso quell’elaborazione simbolica del sesso e del desiderio femminili, che finora mancava. Tale viaggio, però, deve rimontare oltre il villaggio natale, oltre la madre, verso un punto di riferimento simbolico femminile, che la madre stessa ha negato, alla figlia a anche a sé.