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Gli anni ’50: il boom della produzione e dell’esercizio

Cap I: Quadro storico del panorama produttivo italiano (1919-1965)

I.3. Gli anni ’50: il boom della produzione e dell’esercizio

Il panorama produttivo italiano può dunque essere sommariamente suddiviso in due versanti. Da una parte ci sono quelle case di comprovata professionalità che aderiscono all’ANICA: soggetti imponenti come la Lux Film, la Titanus, l’Excelsa, la Scalera o le varie sigle che fanno capo all’editore Angelo Rizzoli, così come società più piccole quali la Ponti-De Laurentiis, la Romana Film di Giuseppe Amato oppure la Vides di Franco Cristaldi. A queste vanno poi aggiunte alcune piccole case di produzione, che realizzano prevalentemente opere di basso profilo dedicate ai circuiti distributivi regionali del meridione ma che manifestano una notevole continuità, come quelle dei fratelli Misiano o di Roberto Amoroso30. Dall’altra vi è una moltitudine di sigle, la

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maggioranza delle quali non produce più di un film all’anno: si tratta di un elemento caratterizzante la cinematografia italiana e destinato a durare nei decenni seguenti, dal momento che è frutto di benefici di legge che anche nei successivi interventi legislativi non verranno mai abrogati. Il meccanismo dei ristorni favorisce infatti operazioni speculative, allo stesso modo della generale scissione tra ditte produttrici e ditte distributrici: l’approvvigionamento dei capitali necessari alla produzione è infatti favorito, oltre che dal credito statale, anche dal meccanismo del finanziamento operato dai distributori attraverso i minimi garantiti – un anticipo che il noleggiatore concede al produttore, prima che avvenga la realizzazione del film, in cambio dei diritti di sfruttamento – mentre i premi sugli incassi consentono alla casa produttrice di poter contare su introiti gonfiati rispetto all’effettiva performance commerciale dell’opera; a ciò si aggiunga infine la pratica, in uso presso alcuni produttori, di ricavare un guadagno ancora prima della fase di realizzazione, sottraendo illecitamente risorse al budget del film31.

Questi meccanismi finiranno per favorire sempre più le operazioni a basso costo e il successo della produzione di film di genere (peplum, horror, western) nel corso degli anni ’60 e ’70. Tuttavia, negli anni ’50, le realtà industriali più solide aderenti all’ANICA premono per un panorama industriale ben diverso:

Nello specifico della produzione, alla fine degli anni ’40 si delineano nuove tendenze in direzione di un modello industriale mutuato sull’esempio di Hollywood, che prevede fra i suoi principi l’individuazione di un modello divistico italiano, l’uso di campagne pubblicitarie in piena regola per il lancio dei film più importanti e la ricerca del consenso del pubblico attraverso una maggiore attenzione ai suoi orientamenti. (Corsi 2003b, 144).

Nell’offerta cinematografica degli anni ’50 convivono così prodotti di tipo molto diverso, che vanno dalle operazioni di bassissimo profilo concepite per le platee delle regioni periferiche a realizzazioni di standard medio-alto, fino a quelle superproduzioni che, a partire da Fabiola (Alessandro Blasetti, 1949, prod. Universalia) tentano di calamitare l’attenzione del pubblico. Quest’ultima, a sua volta, è decisamente generosa, nonostante le preferenze vadano di norma al prodotto d’importazione. Fino alla metà degli anni ’50 si verifica infatti una crescita, tanto dei biglietti venduti quanto dell’apertura di nuove sale, che non sembra conoscere freni. I due fenomeni sono ovviamente legati: come sottolinea Bizzarri (1979) l’affluenza del pubblico è in verità in costante crescita già a partire dalla fine degli anni ’30 e segue una curva “anelastica”, priva cioè di oscillazioni e perciò più affine a quella delle spese per i beni di prima necessità che a quella propria dei beni voluttuari32; la conseguenza, già dalla metà del decennio successivo, è un aumento esponenziale del numero delle sale:

31 Come ricorda C

ORSI (2001, 52): «Il costo medio di un film nel 1955, secondo l’Ufficio studi dell’Anica, è di 170 milioni, ma in un articolo su “Cinema nuovo” Bizzarri e Solaroli lo valutano intorno a 100 milioni e stimano che la differenza fra le due cifre entri direttamente nelle tasche dei produttori». In merito alle possibilità di finanziamento e all’incremento di produzioni di basso profilo si veda anche la prima sezione di DI CHIARA (2009).

32 «Bisognava considerare, però, che in quegli anni la domanda cinematografica si fondava soprattutto

sulla abitudine alla frequentazione dello spettacolo cinematografico, cioè su una accettazione pressoché passiva dell’offerta, con un carattere, quindi, di anelasticità che dava sicurezza a noleggiatori ed esercenti, smentendone di fatto le preoccupazioni. Fu appunto questo carattere abitudinario della domanda cinematografica (non ancora turbata dalle conseguenze della motorizzazione e della diffusione della televisione, come accadrà invece a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta) ad assicurare la stabilità delle frequenze e poi il loro progressivo aumento, nonostante l’improvvisa diminuzione di un prodotto, quello americano, al quale il pubblico si era abituato.» (BIZZARRI 1979, 40). È il caso di sottolineare tuttavia come l’idea di un pubblico caratterizzato da «un’accettazione pressoché passiva dell’offerta» sia un pregiudizio già smentito parecchi anni prima da una delle pochissime indagini

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Secondo fonti SIAE, nell’anno solare 1955 si registrano in Italia 819.424.000 spettatori cinematografici, record assoluto nella storia del cinema italiano. […] 10.570 cinema, sempre secondo le rilevazioni SIAE, aprono le porte almeno una volta l’anno, guadagnando all’Italia il record – incongruo, rispetto al numero degli abitanti – del secondo paese al mondo per numero di sale dopo gli Stati Uniti. Il boom delle sale è cominciato nell’immediato dopoguerra, in seguito a una liberalizzazione di fatto delle licenze, parzialmente limitata dalle regole introdotte con la legge del 1949. […] La proliferazione dei locali provoca, d’altra parte, fenomeni di concentrazione orizzontale dell’esercizio, specie nelle grandi città e nelle piazze cinematografiche più importanti, dove cominciano a formarsi i primi circuiti di sale controllate da uno stesso esercente. (Corsi 2004, 442-443).

Le sale sono organizzate in tre distinti circuiti: quello di prima visione, diffuso nel centro storico delle città più importanti; quello di seconda visione, diffuso nelle periferie delle grandi città o nei centri di medie dimensioni; infine quello di terza visione, il “mercato di profondità” (come viene generalmente definito) dei piccoli centri, che più degli altri soffre la concorrenza delle numerose sale parrocchiali sorte poco dopo la fine della guerra. Il percorso di un film, dalla sua uscita al definitivo ritiro delle copie, si compie quindi attraverso questi tre settori: all’uscita nelle più remunerative sale di prima visione fa seguito il passaggio nelle seconde – frequentate da cittadini di ceto medio-basso – e prima che il ciclo di sfruttamento venga completato all’interno del circuito di profondità possono passare anche quattro anni; tuttavia, ovviamente, non è detto che un film debba necessariamente iniziare il proprio percorso dalle sale cittadine, e infatti molti film prodotti da case a forte connotazione regionale come quelle dei Misiano o di Amoroso fanno spesso il loro esordio direttamente nelle sale di seconda e terza visione del meridione.

Da una simile strutturazione dell’esercizio si possono trarre due osservazioni. In primo luogo, le concentrazioni nell’esercizio sono orizzontali e non verticali: i grandi circuiti, quindi, sono il più delle volte slegati dalle case di produzione le quali, anche quando possono contare su un discreto numero di sale – è per esempio il caso della Titanus – difficilmente riescono ad ottenere una copertura a livello nazionale, così che la penetrazione del proprio prodotto è affidata principalmente alle proprie agenzie di distribuzione. In secondo luogo, non tutte le case puntano sullo stesso target, e orientarsi su di un circuito piuttosto che su di un altro ha conseguenze ben precise in termini di rientro degli investimenti: la politica di film destinati a un pubblico popolare perseguita dalla Titanus negli anni cinquanta permette guadagni anche molto alti ma più lenti di quelli di case (come la Lux Film) che puntano con più decisione alle sale di prima visione, dal momento che i prezzi degli ingressi nei circuiti minori sono più bassi e il ciclo di sfruttamento è più lungo.

Non bisogna d’altra parte pensare che la crescita dei biglietti venduti e l’aumentato numero delle sale siano sufficienti ad assorbire completamente l’offerta nazionale: fino alla metà degli anni ’50 la quota di film statunitensi importati in Italia non accenna a scemare e gli incentivi alla speculazione, impliciti nella legge del 1949, incoraggiano una costante crescita del volume produttivo che ha la conseguenza di far lievitare i costi di lavorazione. Sempre nel 1949 nasce però anche uno strumento volto a risolvere il problema dell’angustia del mercato interno, attraverso misure volte a favorire l’internazionalizzazione del cinema italiano. Come sottolinea in più occasioni Corsi (2001), le peculiarità dell’industria cinematografica italiana sono in realtà

condotte sul pubblico con criteri scientifici, promossa nel 1957 dal presidente del CSC Michele Lacalamita, svolta in due piccoli centri della Sardegna e della Toscana da Luca Pinna e Malcolm S. MacLean Jr., e i cui risultati erano stati pubblicati in PINNA –MACLEAN –GUIDACCI (1958).

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condivise da molte delle cinematografie nazionali europee, le quali contestualmente varano affini strumenti di aiuto alla produzione sia sul versante delle misure protezionistiche, che su quello della detassazione e/o dei premi proporzionali agli incassi: questi interventi sono tuttavia insufficienti, così che le diverse cinematografie nazionali cercano forme di reciproca alleanza per aumentare le proprie possibilità commerciali. Più di dieci anni prima che con il Trattato di Roma (1957) venisse sancita la nascita della Comunità Economica Europea, l’Italia e la Francia nel 1946 siglano infatti reciproci accordi finalizzati alla realizzazione di prodotti in coproduzione, mentre nel 1949 viene inserito nella legge Andreotti un articolo che, nel definire i criteri di nazionalità italiana necessari per godere dei benefici previsti dalla legge, disciplina le modalità con le quali possono rientrare nel novero anche i film realizzati in coproduzione con stati esteri. Tali modalità contemplano principalmente l’esistenza di accordi pregressi con la nazione coproduttrice, i quali al loro volta hanno il compito di definire quali debbano essere «le percentuali dei capitali impegnati da ciascuna parte, le quote di nazionalità da rispettare nella composizione dei rispettivi cast artistici e tecnici e le procedure burocratiche necessarie a beneficiare della qualifica di “film coprodotto”» (Rossi 2004, 432). Attorno alla metà del decennio i regimi di coproduzione – che in seguito si appoggeranno anche ad accordi con cinematografie minori quali la Spagna o la Germania – subiranno una drastica trasformazione, passando dall’essere coproduzioni effettive – fondate cioè su di una collaborazione artistica, oltre che economica, tra due case di produzione appartenenti a diverse nazioni europee – a semplici collaborazioni finanziarie, finalizzate alla realizzazione di opere dall’identità nazionale unitaria (anziché mista) ma particolarmente dotate sul piano spettacolare e quindi adatte a mietere consensi su di un più ampio mercato. Si tratta di un aspetto controverso, in quanto questa seconda modalità non è inizialmente prevista dagli accordi ed è spesso inquinata da dinamiche puramente speculative33 – in questo periodo nascono infatti diverse case di produzione europee che svolgono esclusivamente l’attività di prestanome per permettere a produttori stranieri di godere dei benefici di legge – ma che si rivela essere uno strumento indispensabile per la realizzazione di progetti di ampio respiro.

Nello stesso momento, i produttori italiani coltivano l’ambizione di raggiungere altri mercati oltre a quello europeo, e in particolare desiderano tentare di trattare alla pari con le majors americane per disciplinare le importazioni italiane e riuscire allo stesso tempo a penetrare nelle sale statunitensi. Nel 1951 vengono per esempio siglati degli accordi bilaterali tra l’ANICA, la MPPDA e il governo italiano, i quali prevedono un parziale contingentamento delle produzioni34 e il congelamento, dovuto a questioni valutarie, del 50% degli introiti delle agenzie di noleggio americane, una parte dei quali possono però essere reinvestiti nella realizzazione di film italiani – l’accordo darà perciò il via alla realizzazione di film americani girati in Italia (come Quo Vadis, Mervyn LeRoy, 1951, o Ben Hur, William Wyler, 1959), detti “lavorazioni per conto”, e a film realizzati in coproduzione con capitale misto. Inoltre, nello stesso anno, un gruppo di case italiane operanti nel settore della produzione dà vita all’IFE (Italian Film Export), una società finalizzata a consolidare la penetrazione del film italiano sul mercato Usa. Si tratta di un’iniziativa che vede come protagonista la Lux di Riccardo Gualino: la casa infatti che più di ogni altra punta al mercato internazionale, come dimostra la sua rete di agenzie diffusa, oltre che in diverse nazioni europee, anche in nord Africa e nell’America Latina. Per la Lux gli Usa sono «il mercato più ambito, l’ingresso nel

33 Questo aspetto è discusso esaurientemente in R

OSSI (2004).

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UAGLIETTI (1980), tuttavia, sottolinea come esse non costituiscano minimamente uno sforzo da parte delle case americane, la cui produzione stava fisiologicamente calando.

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quale assume un valore simbolico assai superiore all’effettiva resa economica» (Farassino 2000b, 34), e per lo sfruttamento del quale la casa costituisce appositamente due società di distribuzione operanti sul suolo americano, puntando non tanto al pubblico degli immigrati italoamericani, quanto a «sostegni nell’intellettualità newyorkese [, così che la Lux] tenta […] la strada del doppiaggio, prima eseguito a Roma e poi sul posto. Riesce così a collocare tutta la sua produzione ma con deludenti esiti economici» (ibidem). Appare così naturale che sia proprio Renato Gualino, figlio del presidente della Lux, a dirigere la IFE, inizialmente costituita col capitale di alcune case di produzione e poi trasferita sotto il controllo dell’Unione nazionale produttori dell’ANICA e del Centro sperimentale di cinematografia35. L’esperienza della società si rivelerà fallimentare (verrà messa in liquidazione già nel 1957), ma è indicativa di come il mercato nordamericano acquisti per i produttori italiani un valore simbolico, sia cioè segno di una consacrazione sulla scena internazionale che in realtà non avverrà mai; inoltre è soprattutto importante per valutare l’operato di quei soggetti che, nella seconda metà degli anni ’50, prendono il modello hollywoodiano come fonte di ispirazione della propria gestione d’impresa e puntano a forme organiche di partecipazione con le

majors: l’indipendente Dino De Laurentiis, in primo luogo, ma anche e soprattutto

Goffredo Lombardo il quale, in più di un’occasione, sembra voler ripercorrere le orme di quella Lux che, alla metà degli anni ’50, subisce un forte ridimensionamento lasciando la Titanus sola al timone dell’industria italiana.