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La fondazione del melodramma Titanus: la genesi di Catene

Cap II: La genesi del melodramma Titanus

II.2. La fondazione del melodramma Titanus: la genesi di Catene

Viste le alterne fortune del termine e la mancanza di una netta formulazione del genere fino agli anni ’70 inoltrati, sembra piuttosto improbabile che Catene (Raffello Matarazzo, 1949) fosse stato concepito con l’esplicita volontà di produrre un melodramma: tutto porta invece a pensare che l’operazione fosse stata condotta allo scopo di creare un prodotto che rilanciasse l’identità della casa di produzione e inserisse i suoi film in una posizione strategica all’interno del cinema e della mutata industria culturale italiana, senza però perdere i contatti con quelle tradizioni spettacolari che erano spesso state all’origine dei passati successi. Secondo quanto scrivono Bernardini e Martinelli ([1986] 2004, 92), la casa di produzione di Lombardo aveva infatti sofferto negli ultimi anni del muto dei contraccolpi della crisi che aveva investito il cinema italiano da quasi un decennio, ma soprattutto era stata danneggiata da una circolare dell’ufficio censura per il cinema del 1928, che sostanzialmente proibiva la realizzazione di quelle opere basate sulla raffigurazione dei bassifondi napoletani i quali erano stati fino a quel momento il vero cavallo di battaglia della Lombardo Film. Per la Titanus, fondata in quello stesso anno con sede a Roma, ne sarebbero conseguiti due decenni votati principalmente alla distribuzione, al rafforzamento delle proprie strutture produttive (studi e laboratori) e a una timida produzione – al massimo due film per anno – la quale, fino al dopoguerra, non si dimostrava capace né di intraprendere una linea particolarmente definita rispetto allo scenario italiano, né di proporre modelli per le proprie realizzazioni future.

Si può prendere come esempio di questo periodo di transizione L’angelo bianco (Giulio Cesare Antamoro e Federico Sinibaldi, 1943): si tratta per Lombardo di una realizzazione dai caratteri fortemente identitari, in quanto costituisce un nuovo adattamento di I figli di nessuno172, il romanzo di Ruggero Rindi che nel 1921 era già stato trasposto da Ubaldo Maria Del Colle per la Lombardo Film ed era diventato il principale veicolo divistico di Leda Gys, futura moglie di Gustavo e madre di Goffredo. Tuttavia, quest’operazione di recupero e di rilancio dell’opera simbolo dell’eredità della casa mescola elementi appartenenti al presente e al passato, ma che non sembrano riuscire a guardare al futuro. Per rendersene conto basta esaminarne i credits, sintomaticamente preceduti da un cartello con su scritto: «L’Org. Distr. S.A. Titanus presenta: una sua produzione», elemento che indica come all’epoca la Titanus fosse

172 Per aiutare la comprensione delle righe che seguono, si anticiperà qui il soggetto del film. Una sinossi

più articolata, e un elenco delle differenze che intercorrono tra i tre adattamenti verranno forniti in seguito, quando si parlerà della versione realizzata da Raffaello Matarazzo nel 1951. I figli di nessuno è un romanzo scritto nel 1908 sotto lo pseudonimo di “Falstaff”da Ruggero Rindi, già citato autore teatrale della seconda metà dell’800, specializzato in un repertorio melodrammatico e popolare ispirato a quello francese della prima metà del secolo. Esiste anche un adattamento teatrale del testo, realizzato dallo stesso autore insieme a Vittorio Salvoni e probabilmente antecedente al romanzo stesso, sebbene non risultino essere sopravvissute copie a stampa anteriori al 1915. Per i problemi inerenti alla figura di Rindi e alle sue opere si rimanda nuovamente a REDI (1986). Per quanto riguarda la trama del romanzo e dei suoi adattamenti, I figli di nessuno racconta in pressoché tutte le sue versioni – ma con importanti differenze dovute, come si vedrà, a questioni di opportunità politica – la storia di una giovane di nome Luisa che nella Lunigiana del primo novecento viene sedotta da un conte, proprietario delle terre dove lei vive e lavora insieme al padre, e genera un figlio. L’aristocratico sarebbe anche disposto a sposare la donna, ma la maternità gli viene tenuta nascosta dalla perfida madre di lui, che intercetta le lettere dei due innamorati e riesce a convincere rispettivamente il conte della morte dell’amata, e Luisa della morte del proprio figlio, che le viene sottratto con l’inganno e spedito in un orfanotrofio. A seguito dell’inganno la giovane entra in convento, il conte si sposa con una sua pari e il bambino cresce senza genitori. Quando, in punto di morte, la contessa si pente e tenta di riavvicinare Luisa e il figlio, un tragico destino fa sì che il piccolo, ormai divenuto adolescente, muoia tra le braccia della madre.

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ancora e soprattutto una ditta specializzata nel noleggio. Il cast del film è composto da attori che all’epoca godevano di una discreta fama: Beatrice Mancini, che interpreta la protagonista – la quale in questa versione viene ribattezzata Maria – negli ultimi anni aveva lavorato, sebbene interpretando ruoli di secondo piano, con registi del calibro di Poggioli (Ricchezza senza domani, 1940), Blasetti (Ettore Fieramosca, 1938) e soprattutto Alessandrini (Luciano serra pilota, 1938; Caravaggio, il pittore maledetto, 1941; Nozze di sangue, 1941). Filippo Scelzo, interprete del conte, in precedenza aveva lavorato con Gallone (Odessa in fiamme, 1942) e con Brignone (Passaporto rosso, 1935; Kean, 1940), mentre il piccolo Cesare Barbetti, che interpreta il figlio della colpa, era contemporaneamente nelle sale con Dagli Appennini alle Ande (Flavio Calzavara, 1943), suo primo ruolo da protagonista. Infine la star del film, la quasi settantenne gloria del teatro italiano Emma Gramatica – qui presente nel ruolo della contessa madre – aveva concentrato gran parte della propria carriera cinematografica negli anni ’30 e nel 1941 aveva riscosso un grande successo rispettivamente come sorella e madre del tenore Beniamino Gigli in due film diretti da Guido Brignone, Vertigine e Mamma. Il casting sembra perciò indicare la volontà della Titanus di agganciarsi a discreti successi delle recenti stagioni cinematografiche: alla luce di questa ipotesi la scelta del regista risulta allora in netta controtendenza. A dirigere il film viene infatti chiamato il conte Giulio Cesare Antamoro, attivo fin dagli anni ’10 prima con la Cines, per la quale aveva realizzato il Pinocchio con Polidor (1911) e Christus (1916), poi con la Lombardo Film, della quale aveva realizzato l’esordio produttivo L’avvenire in agguato (1916). La carriera del regista si era interrotta con l’avvento del sonoro, precisamente con l’uscita di Antonio di Padova, il santo dei miracoli, un film post-sincronizzato del 1931173, cui sarebbe seguito un decennale silenzio, interrotto soltanto da un’altra produzione Titanus, Fanfulla da Lodi (1940), diretto in coppia con l’attore Carlo Duse. Anche nel caso de L’angelo bianco, ad Antamoro viene affiancato un secondo regista, lo sceneggiatore Federico Sinibaldi. Osservando il film oggi, pare razionale pensare che a quest’ultimo siano state affidate soprattutto le scene di dialogo: infatti, la cosa che subito colpisce è l’enorme discrepanza stilistica tra queste ultime, nelle quali dominano il campo medio e la camera fissa, e le sequenze giocate su dati puramente visivi, per le quali vengono adottate soluzioni che rimandano esplicitamente al linguaggio del cinema muto – non solo italiano, ma europeo – degli anni ’20: si può citare come esempio la sequenza nella quale Maria, cui è stato fatto credere che il proprio figlioletto è defunto, medita propositi suicidi ma poi decide di entrare in convento. La donna viene mostrata vagare sola per la campagna, in un lento incedere che procede dal fondo dell’inquadratura verso la macchina da presa, quando una panoramica verso il basso rivela improvvisamente allo spettatore che la donna si sta spingendo verso il ciglio di una cascata. L’inquadratura successiva presenta un primo piano della donna in preda al dolore: all’improvviso si sentono dei rintocchi di campana e un dettaglio della fonte sonora appare in dissolvenza incrociata sul primo piano di Maria. Segue un campo lungo della donna, che sta entrando in una chiesetta di campagna: il commento sonoro è qui costituito da un arrangiamento strumentale di Tu scendi dalle stelle (de’ Liguori, 1755) che continua per tutta la sequenza. All’interno della chiesa Maria si avvicina a una colonna e il suo volto, ripreso in primo piano, sembra passare dal dolore alla rassegnazione e infine alla speranza. L’inquadratura finale è un campo lungo nel quale la donna, di spalle e in controluce, avanza verso un convento.

Tale sintassi, incentrata su dati puramente visivi e perfino su di una sinestesia ormai superflua (il dettaglio della campana), stride evidentemente con quella in uso nel

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cinema italiano successivo all’avvento del sonoro – improntato a uno stile classico più vicino al contemporaneo cinema americano – e non costituisce certo un episodio isolato nel tessuto del film. Infatti altre situazioni narrativamente fondamentali sono spesso riassunte in un unico piano privo di dialoghi, come il duello nel quale perde la vita il conte: si tratta di un’unica inquadratura in profondità di campo nella quale due silhouette di uomini armati di pistola, riprese entrambe in controluce, sono collocate lungo una diagonale che attraversa l’intero spazio, così che la figura del primo tiratore occupa in tutta la sua altezza il margine sinistro della scena, mentre quella del secondo è soltanto un puntino dislocato nell’angolo inferiore destro della veduta. Il piano dura pochissimo, giusto il tempo necessario perché entrambe le figure tirino e perché quella più lontana dalla macchina da presa si accasci. Per informare lo spettatore dell’identità del morto, Antamoro e Sinibaldi fanno poi seguire questa inquadratura dalla ripresa di un telegramma, indirizzato alla contessa, nel quale si legge che suo figlio è deceduto.

Questi esempi evidenziano il senso dell’operazione e le incertezze strategiche di Lombardo nel gestire il comparto produttivo della Titanus prebellica: nell’effettuare un remake del film simbolo della propria produzione muta (sebbene con diverse modifiche che, come si vedrà in seguito, sono con ogni probabilità dovute alla volontà di evitare problemi con la censura), il produttore utilizza sì dei professionisti adeguati allo scenario contemporaneo, ma la realizzazione sul piano linguistico riproduce moduli temporalmente di poco successivi all’originale versione di Ubaldo Maria del Colle. Tenendo conto di queste premesse, la scelta di affidare a Matarazzo la regia di un film come Catene, che in maniera assai più convincente rilegge il passato catalogo della Lombardo film con un occhio alla contemporaneità e l’altro a un brave new world industriale, acquista un senso assai particolare. Catene conserva infatti profondi legami tanto con le radici geografiche (il golfo di Napoli) che con quelle spettacolari (le forme della sceneggiata) degli ultimi anni della produzione di successo della Lombardo film, ma al tempo stesso utilizza un cast che coniuga il passato prossimo dello star system italiano (Amedeo Nazzari) con il suo immediato futuro (Yvonne Sanson) e adopera un linguaggio profondamente moderno, sia per quanto riguarda il découpage che per quanto concerne la lingua parlata dagli attori. Quest’ultima infatti è costituita da un italiano privo di qualsiasi sfumatura dialettale, non tanto (o non solo) per un retaggio delle passate disposizioni fasciste, quanto per l’esplicita volontà di realizzare un prodotto che, a differenza del contemporaneo filone napoletano di Roberto Amoroso e Fortunato Misiano – un cinema che spesso non superava i confini della distribuzione regionale – potesse invece ambire a circolare con successo su tutto il territorio nazionale.

La scelta di affidare la regia a Raffaello Matarazzo rientra quindi pienamente in questo contesto. Bisogna innanzitutto considerare le origini del regista. La tradizione critica, ovviamente non senza forzature legate a una precisa presa di posizione in materia di politica culturale, lo ha fatto emergere dall’oblio facendone l’autore simbolo del melodramma italiano: la già citata “Operazione Matarazzo” del 1976, “remake” della rassegna di Avignone di due anni prima, costruisce una figura autoriale le cui funzioni – sebbene non le vengano attribuite gli stessi caratteri di brecthiana autoconsapevolezza – sono assimilabili a quelle svolte da Sirk nel contemporaneo contesto anglosassone, volte come sono a legittimare lo studio del cinema definito popolare a oltre vent’anni dalla conclusione dell’esperienza neorealista: ciò è particolarmente evidente nell’articolo che apre il volume realizzato per accompagnare la rassegna (Aprà, 1976a). Tuttavia, nonostante negli interventi migliori l’intera produzione del regista venga scandagliata con attenzione, l’approccio dei giovani critici coinvolti nell’operazione ha comunque generato tre ordini di problemi. In primo luogo –

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anche e soprattutto a causa di difficoltà legate al reperimento delle copie – l’attenzione è stata rivolta principalmente alla produzione postbellica di Matarazzo, a eccezione dell’esordio Treno popolare (1933), forse anche per la presenza di alcuni elementi che in quel film sembrano anticipare la stagione neorealista174. In secondo luogo, si è creata un’identificazione tra il melodramma italiano e Matarazzo la quale ha forse ostacolato lo studio e la comprensione di contemporanei modelli alternativi, rappresentati da registi attivi anche nel periodo fascista (Brignone, Righelli) o attivi principalmente nel dopoguerra (Costa, Cottafavi). In terzo luogo, non sempre si è colta la dimensione internazionale della produzione del regista, rilevabile nelle atmosfere langhiane di alcuni suoi thriller come L’albergo degli assenti (1939)175 ma soprattutto in alcune commedie dei primi anni ’40 come Il birichino di papà (1943) o L’avventuriera del

piano di sopra (1941), a proposito dei quali vengono spesso fatti i nomi di Lubitsch e

McCarey176.

Per quanto riguarda la genesi del progetto di Catene, la letteratura critica offre indicazioni contrastanti, dovute all’inaffidabilità delle fonti che nella maggior parte dei casi sono costituite da interviste condotte molti anni dopo l’uscita del film. Alcune testimonianze attribuiscono l’ideazione del film al regista stesso, il quale in quel periodo aveva da poco costituito con Valentino Brosio una piccola casa di produzione, la Labor Film (1947). Intervistato da Barlozzetti, Goffredo Lombardo ricorda come fosse stato proprio Matarazzo a proporre il film alla Titanus, la quale accettò in quanto il progetto si adattava perfettamente alla loro tradizione177: si tratta di un’ipotesi accreditata anche da un’intervista a Riccardo Freda riportata da Prudenzi (1990, 45), nella quale il regista afferma: «una sera [Matarazzo] venne a casa mia con questo progetto in testa. Ne parlò a me e a Monicelli, vergognandosi quasi di aver pensato a un melodramma. A noi l’idea piacque, e lo convincemmo a dirigere il film»178. Tuttavia, lo stesso Freda in un’altra intervista fornisce una versione del tutto differente e attribuisce a se stesso – sempre insieme all’amico Monicelli – l’idea di partenza:

Del filone Catene posso dire che ne siamo responsabili io e Monicelli; [Matarazzo] in quel periodo – aveva appena finito di fare un film che si svolge a Marsiglia, fra il giallo e il poliziesco, La fumeria d’oppio – veniva spesso a casa mia e passava ore a cercare quali erano i film che lui poteva fare, non sapeva in quale filone indirizzarsi; quelli che lui avrebbe voluto fare, ripeto, erano esclusi da lui stesso in partenza, perché sapeva che avrebbero urtato contro delle difficoltà materiali, nessuno glieli avrebbe lasciati fare. E fummo proprio io e Monicelli che lo spingemmo a fare questo tipo di film popolaresco, a sfondo per così dire da feuilleton, e vincemmo la sua resistenza, perché lui non ne voleva neanche sentir parlare. Matarazzo così

174 Per una ricostruzione delle vicende produttive di Treno popolare e per una disamina dei suoi rapporti

con varianti “deboli” dell’estetica realista si veda BOSCHI (2007).

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«I modelli più vicini sono semmai da cercare nel cinema tedesco, magari in certe atmosfere da incubo care a Fritz Lang, sebbene L’abergo degli assenti sia privo degli sviluppi narrativi e delle tensioni psicologiche che caratterizzano i film prodotti in Germania.» PRUDENZI (1990, 30). Anche DELLA CASA

(1999, 46) fa riferimento alle «atmosfere alla Fritz lang [di] quel capolavoro misconosciuto che è

L’abergo degli assenti». Premure di carattere filologico spingono tuttavia a rilevare che i film sonori del

periodo tedesco di Lang non vennero distribuiti in Italia fino a molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale: se perciò si può parlare di legami con la produzione del grande regista, bisogna supporre che Matarazzo, già appassionato di cinema, abbia visto i suoi film polizieschi realizzati nell’ultimo decennio del muto.

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«I modelli, di alto livello, sono Lubitsch e ancor più Leo McCarey. La commedia non si fonda sull’intreccio e neppure sui personaggi, ma sull’improvvisazione, sulle situazioni, in una parola sull’attore e sul dialogo.» APRÀ (1976b, 19).

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«La carta che giocammo per contrastare il cinema americano fu quella del melodramma popolare con

Catene di Raffaello Matarazzo, che un giorno venne da noi proponendoci un genere che si inseriva

perfettamente nelle tradizioni della Titanus». BARLOZZETTI (1986, 29).

178 Bisogna segnalare il fatto che P

RUDENZI non riporta gli estremi dell’intervista, così che non è possibile verificare la fonte, né a quando risalgano le affermazioni di Freda.

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ricavò soldi e gloria da film che probabilmente vomitava facendoli, lontanissimi dal suo spirito crociano.179

Nella citazione non è tuttavia riportato l’esatto ruolo svolto dai due registi amici di Matarazzo: se cioè essi fossero ideatori del progetto di base ma non fossero stati accreditati nei titoli di testa del film per qualche ragione, oppure se avessero semplicemente svolto una funzione di mediazione tra la Titanus e il recalcitrante regista. La situazione non è più chiara sul versante opposto, quello delle testimonianze che attribuiscono la paternità dell’idea a Gustavo Lombardo: infatti la ricostruzione storica effettuata da Bernardini e Martinelli (1986) non sembra essere molto più attendibile delle affermazioni di Freda. Così i due studiosi raccontano la genesi del film:

[…] Matarazzo ha costituito con Tito Pirri una piccola Casa di produzione, la Labor. Ed è dividendo i rischi con questa casa che Lombardo decide di tornare a produrre, riprendendo quel filone del cinema popolare, del melodramma pieno di sentimenti e di commozione, che era stato il suo cavallo di battaglia ai tempi del muto. […] Il giornalista e poeta napoletano Libero Bovio ha scritto con Gaspare di Maio un soggetto, una vicenda di passione e di morte, che sembra adatta e che Lombardo affida per la sceneggiatura a un uomo di teatro e di cinema di cui ha molta stima, Aldo De Benedetti. […] Lombardo chiama quindi Matarazzo, offrendogli di realizzare il film; il regista tentenna, i suoi interessi vanno in altre direzioni, ma gli amici Monicelli e Freda lo convincono ad accettare.180

Il problema di questa ricostruzione consiste in primo luogo nel ruolo che viene attribuito a Bovio e Di Maio, accreditati nei titoli di testa del film come autori del soggetto. Il primo, nato nel 1883, fu giornalista, scrittore e soprattutto autore di canzoni napoletane: suo il testo di Lacreme napulitane (1925), scritta insieme al musicista Francesco Buongiovanni, la quale viene cantata da Roberto Murolo in una delle sequenze chiave del film e funge da tema dei titoli di testa. Bovio morì nel 1942, perciò sembra improbabile che potesse aver scritto un soggetto cinematografico che la Titanus avrebbe tenuto nel cassetto fino al 1949; lo stesso discorso si può fare per Gaspare di Maio il quale, nato nel 1872, era deceduto nel 1930 a Trieste, dove era stato mandato al confino dal regime fascista a causa delle sue simpatie socialiste. Figlio di Crescenzo Di Maio, una delle colonne portanti del teatro napoletano della seconda metà dell’800, Gaspare Di Maio fu a partire dal 1925 uno dei più importanti autori di sceneggiate. Tra i suoi lavori figura Lacreme napulitane (1926), una sceneggiata in tre atti tratta dall’omonima canzone di Bovio e Buongiovanni e portata originariamente sulle scene dalla compagnia Cafiero-Fumo181. Numerosi elementi porterebbero a supporre che

Catene possa esserne un adattamento, seppure assai libero: innanzitutto la trama di Catene ripercorre fedelmente il testo della canzone di Bovio, che consiste nel lamento di

un immigrato napoletano negli Stati Uniti il quale, rivolgendosi alla madre lontana, accenna anche a una moglie fedifraga182. In secondo luogo, Lacreme napulitane è soltanto la canzone principale del film, ma nel corso della proiezione ne vengono eseguite molte altre, come Torna! (Vento – Valente, 1930) o Comme facette mammeta (Capaldo – Gambardella, 1906)183, secondo il costume tipico della sceneggiata di affiancare al brano principale altre canzoni di minor successo. Infine, come si vedrà

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REDA (1975, 92). Nel volume in cui l’intervista è riportata non vengono esplicitati né l’autore di quest’ultima, né se si tratta di un’intervista originale, oppure riportata da un altro volume e/o rivista.

180 B

ERNARDINI –MARTINELLI ([1986]2004,93S).

181 Dati prelevati da V

ILLEVIELLE BIDERI (2002, 205).

182 Per un’analisi della canzone si veda S