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Cap IV: Per un mélo-noir post-matarazziano: la fascia medio-bassa del melodramma Titanus

IV.1. Il “gioco del produttore”

In questa fase, infatti, queste ultime sono pienamente riconducibili a quelle che Rick Altman indica come caratteristiche della Hollywood classica: Goffredo Lombardo, infatti, sembrerebbe giocare a quello che Altman chiama il “Gioco del produttore”. Queste le regole:

1. Identificare un film di successo in base ai risultati del botteghino.

2. Analizzare il film per scoprire quali elementi ne hanno decretato il successo. 3. Produrre un altro film puntando sulla presunta formula vincente.

4. Controllare i risultati di botteghino del nuovo film e riesaminarne di conseguenza la formula vincente.

5. Utilizzare la formula revisionata come premessa di un altro film. 6. Seguire indefinitamente tale procedura.225

Evidentemente, non si tratta di una formula in grado di sorprendere: è perfettamente intuitivo che un produttore basi le proprie pellicole future sul successo delle precedenti; tuttavia essa risulta esemplificativa dei rapporti che le case di produzione intrattengono con i generi. In altre parole, se la Titanus ha tratto buoni profitti da una serie di film – il trittico Catene, Tormento e I figli di nessuno – la stessa compagnia ha prevedibilmente il massimo interesse a battere il ferro finché è caldo, imponendo al regista e agli interpreti di ripetere se stessi finché non muta il vento e parallelamente dando vita ad altre serie che abbiano caratteristiche simili. È bene notare come una tale pratica non porti di per sé alla creazione di un genere cinematografico, il quale è per sua natura il risultato di un’operazione critica condotta a posteriori su di una

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scala più vasta. Per chiarire il concetto, è utile avere presente la differenza tra cicli e generi cinematografici, che viene più volte evidenziata da Altman nel corso della trattazione. Mentre i primi sono degli insiemi di film realizzati da uno stesso studio utilizzando dei comparti artistici e tecnici sotto contratto – sui quali cioè, quest’ultimo ha l’esclusiva – i secondi sono invece delle categorie più vaste che spesso hanno origine dalla pratica, in uso presso le compagnie minori ma non solo, di imitare i cicli di successo di proprietà di altre case di produzione: in questo caso avviene il definitivo passaggio da un ciclo – un gruppo di film che presentano affinità formali ma anche peculiarità tecnico-realizzative protette da copyright – a un genere – un più ampio gruppo di film realizzati da diverse compagnie e che sono legati gli uni agli altri principalmente da affinità testuali:

Per definizione, i generi non sono mai pienamente controllabili da una sola casa di produzione, mentre i singoli studios hanno accesso privilegiato ad attori sotto contratto, registi della casa, personaggi esclusivi e processi brevettati. Mettendo in evidenza, nelle campagne promozionali di ciascun film, queste qualità esclusive, una casa di produzione si assicura automaticamente la stessa star di punta della casa, o lo stesso personaggio, oppure lo stesso stile. Invece di ricominciare di nuovo, i pubblicitari del film successivo possono garantirsi un pubblico stabile puntando solamente sulla qualità del film stesso rispetto al precedente. Seguendo questa pratica, Hollywood evita sistematicamente la logica del genere, asservendosi alle decisioni dei produttori e dei pubblicitari, i quali sono maggiormente inclini alla produzione di serie, cicli, remake e seguiti.226

Oltre alle perplessità già evidenziate nel corso dell’introduzione del presente lavoro, è bene sottolineare il fatto che questo meccanismo non sempre si attaglia perfettamente al contesto produttivo italiano. In primo luogo Altman sottolinea il fatto che, come da un ciclo può nascere un genere, da quest’ultimo può a sua volta nascere un nuovo ciclo, il quale viene creato includendo delle variazioni all’interno del genere di partenza; da questo secondo ciclo, poi, può ovviamente nascere un altro genere, e così via all’infinito. Si tratta di una concezione assai lineare delle origini dei generi, che per certi aspetti funziona male in un contesto come quello italiano, all’interno del quale questi ultimi hanno spesso una vita brevissima, mentre in certi casi tendono a riapparire dopo molti anni di silenzio. Ci si può chiedere per esempio quali siano le relazioni tra il genere storico-mitologico italiano degli anni ’10 e il peplum della fine degli anni ’50: se si tratta cioè di due generi distinti, che hanno in comune solamente una serie di tratti testuali, oppure di un unico genere che è scomparso per riaffiorare dopo quasi quarant’anni; tuttavia anche nel primo caso riesce difficile pensare di poter ricostruire il processo teorizzato da Altman senza effettuare semplificazioni quantomeno brutali. In secondo luogo, all’interno del contesto italiano ci sono dei generi-ornitorinco, come li definisce Pescatore (2003), ovvero dei gruppi di film facilmente riconoscibili ma dei quali sarebbe arduo ricostruire la genealogia, come nel caso del film-opera diffuso in Italia tra l’inizio degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50. In terzo luogo, è evidente come Altman faccia riferimento a un sistema che, sebbene investito da numerose crisi e altrettanto numerosi riassetti societari, è rimasto sostanzialmente stabile fin dall’epoca classica: che appartenga a Zukor, alla Gulf + Western o alla Viacom, la Paramount Pictures esiste dal 1912 e potenzialmente, rinnovando i diritti al momento della loro scadenza, può conservare il copyright su tutto il proprio catalogo. Lo stesso discorso vale anche per le altre majors dell’epoca classica (tranne la RKO e la United Artists), ma non per le compagnie italiane, le cui sorti sono state assai più discontinue e legate alle diverse riorganizzazioni subite dal mercato nelle sue varie fasi. Senza contare che,

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come si è già sottolineato in precedenza, a partire dai tardi anni ‘40 la logica delle sovvenzioni statali favorisce operazioni speculative e una conseguente frammentazione del panorama produttivo, che sarà sempre più costituito da una miriade di micro-società dalla vita brevissima. Inoltre, come si è visto precedentemente, il fatto che una casa di produzione italiana leghi del personale artistico con un contratto a lungo termine costituisce un’eccezione rarissima.

Vi è infine un ultimo motivo che rende il meccanismo di generificazione descritto da Altman non sempre efficace se applicato al contesto italiano, ed è di natura specificamente linguistica. Nella lingua inglese la conversione da aggettivo a sostantivo avviene con straordinaria facilità, senza che venga intaccata la superficie del lessema. In altre parole, in base alla posizione che ricoprono nella sintassi della frase, dei sostantivi possono facilmente diventare degli aggettivi, dando vita a dei neologismi, così come degli aggettivi, isolati dalla parola della quale stanno specificando le qualità, possono facilmente trasformarsi a loro volta in sostantivi. Ciò ha indubbiamente costituito un vantaggio per la trade press anglosassone, che sentendo l’esigenza di classificare i prodotti recensiti, ha avuto a disposizione una lingua decisamente duttile. In Italia, al contrario, le etichette di genere nascono spesso da operazioni linguistiche più tortuose, e prendono la forma di perifrasi che più raramente si impongono nell’immaginario.

Tuttavia, su scala più piccola e in questo caso specifico, il processo illustrato da Altman può essere riscontrato perfettamente: è infatti evidente come, nell’ideare i cinque film sopra citati, la Titanus abbia giocato al “gioco del produttore”. Il dato più interessante di questo meccanismo consiste nel fatto che esso comporta una logica abduttiva: il produttore parte infatti da una regola implicita – il buon esito di un film è dovuto a elementi interni di natura pragmatica (cast, regia) e/o testuale (elementi semantici e sintattici) – procede poi con l’identificazione di un risultato – ovvero di una pellicola che al botteghino ha dimostrato una buona tenuta – e infine individua un caso: il successo di quella stessa pellicola è dovuto ad alcuni suoi elementi specifici e non ad altri, così che è possibile replicarne i punti di forza all’interno di un nuovo prototipo e poi sottoporre nuovamente quest’ultimo a verifica sperimentale, osservandone i risultati al box office. Emerge così la figura di un produttore-detective227 o anche di un produttore-critico cinematografico, il cui lavoro di pianificazione industriale si basa su di un’attenta rilettura dei film già realizzati. Questa strategia non è necessariamente garanzia di un sicuro successo: la logica abduttiva comporta un’alta percentuale di rischio e in questo caso specifico i cinque film menzionati non sono entrati nella top ten degli incassi; tuttavia si rivela una traccia insostituibile per tentare di ricostruire ex post le scelte produttive della casa. Nelle pagine seguenti si cercherà di ricostruire il percorso seguito dalla Titanus nella loro ideazione, sulla base dell’analisi effettuata da Altman ([1999] 2004, 62-67) della produzione Warner successiva a

Disraeli (Alfred E. Green, 1929). Va però precisato che i dati qui utilizzati, ovvero gli

incassi riportati in Rondolino – Levi (1967), hanno un valore puramente indicativo: essi, come si è già specificato in precedenza, fanno purtroppo riferimento ai soli incassi lordi complessivi, totalizzati dai film al termine di un ciclo di sfruttamento più o meno quinquennale. È evidente come la Titanus non si potesse affidare su di uno strumento di rilevazione del genere, dotato di tempi troppo lunghi per i propri ritmi produttivi, ma dovesse invece basarsi su variabili differenti, come i risultati dei film nelle tredici città all’interno delle quali disponeva delle proprie agenzie distributive, ed eventualmente le performance di questi ultimi nelle tredici sale di sua proprietà, per la maggior parte concentrate nella sola città di Napoli.

227 Infatti l’abduzione è la logica prevalentemente adoperata dal detective letterario: si veda E

CO – SEBEOK (1983)

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IV.2. Menzogna

Sebbene nel 1952 la Titanus avesse iniziato a realizzare film appartenente a un numero maggiore di generi, la compagnia continua a riservare al melodramma almeno due delle sue sette uscite: la prima, il già citato Chi è senza peccato… è una realizzazione

routiniére che coinvolge nuovamente Matarazzo e la coppia Nazzari-Sanson; la

seconda, Menzogna, costituisce invece un evidente tentativo di generare un nuovo ciclo da una “costola” del primo. Si tratta dell’ultimo film scritto e diretto dal quasi settantenne attore e regista Ubaldo Maria Del Colle, inattivo dal 1929, che era tornato al cinema l’anno precedente quando aveva collaborato come assistente alla regia alla nuova versione de I figli di nessuno: un incarico ottenuto, secondo Bernardini e Martinelli ([1986] 2004, 94) «su invito della Gys, che non l’ha dimenticato». Tuttavia i due studiosi sottolineano anche come Menzogna sia un «film peraltro diretto da Basilio Franchina e da Giuseppe De Santis» ([1986] 2004, 104) e non da Del Colle: un’affermazione difficile da verificare, in primo luogo perché i due studiosi non citano alcuna fonte. Di certo Franchina risulta essere accreditato nei titoli di testa con una mansione troppo vaga per non destare sospetti – si parla di una «consulenza tecnico- artistica di Basilio Franchina», mentre De Santis, intervistato da Stefania Parigi, parla in questi termini del proprio coinvolgimento in questo film e nel successivo Legione

straniera: «Lombardo mi chiese in via molto amichevole di partecipare al film di Del

Colle, che era un remake di una vecchia opera interpretata dalla madre negli anni ‘20228. Leda Gys era rimasta molto affezionata a questo regista che l’aveva diretta ai tempi del muto e tentava di dargli una mano. La verità era che Del Colle aveva bisogno di lavorare. Anch’io mi lasciai trascinare da questi sentimenti. Fu forse una debolezza, non glielo so dire, ma lo feci senza ricevere nessun compenso.» (Barlozzetti 1986, 33). Alla luce di quest’ultima testimonianza, si tratta di appurare quali siano stati i termini della partecipazione di Franchina e De Santis al film: se cioè essi si siano limitati a collaborare alla regia dell’arrugginito Del Colle, o se abbiano piuttosto diretto il film nella sua totalità, come sostengono Bernardini e Martinelli. Chi scrive, in mancanza di altri documenti e pur avendo potuto visionare il film alla moviola una sola volta, ha più di una perplessità in merito a questa seconda ipotesi: Menzogna è un film composito, che affianca a un trattamento degli interni appiattito sul modello dei film di Matarazzo una raffigurazione degli esterni di taglio documentaristico, che in parte rimanda all’oleografia del meridione – e in particolare del golfo di Napoli – e in parte aspira a un realismo più genuino nelle sequenze incentrate sulla rappresentazione del porto e delle barche dei pescatori. Entrambi questi atteggiamenti non sono alieni al cinema muto napoletano degli anni in cui era attivo Del Colle: si può citare come esempio il trattamento degli esterni di Assunta spina (Gustavo Serena, 1915). Risulta invece più difficile riconoscere il marchio di De Santis, caratterizzato spesso da una fusione delle istanze realiste con un citazionismo che riporta a stilemi propri tanto del cinema classico americano quanto del muto sovietico. Perciò, sebbene si tratti di una semplice congettura, si può ipotizzare che il film sia stato realizzato almeno parzialmente da Del Colle, così come era accaduto per altri film Titanus che segnavano il ritorno di grandi registi del muto (si veda il caso, già citato, de L’angelo bianco di Antamoro-Sinibaldi). Comunque sia, la partecipazione di De Santis costituisce di per sé un dato interessante, perché dimostra come Lombardo nel giocare al “gioco del produttore”, non si limitasse a perpetuare i punti di forza delle proprie produzioni di successo, ma tendesse anche a riutilizzare parte dei comparti artistici di quello che probabilmente riteneva essere un

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insuccesso immeritato. De Santis e l’assistente Franchina avevano infatti appena realizzato Roma, ore 11, una coproduzione Transcontinental Films-Titanus, uscita appena sette mesi prima di Menzogna e che si sarebbe in breve rivelata essere un fiasco disastroso.

Menzogna è stato evidentemente progettato sulla base di una rilettura dei tre film

realizzati da Matarazzo tra il 1949 e il 1951. In primo luogo, il cast deriva in massima parte da quei film: Folco Lulli interpreta ancora un villain modellato sul personaggio dell’Agostino Bonfiglio di Non c’è pace tra gli ulivi, un pescatore che si è arricchito alle spalle della sua gente e che ora monopolizza i mezzi di produzione (le barche); inoltre, come nel film di De Santis e ne I figli di nessuno, l’uomo tenta di approfittare di una donna della quale si è invaghito. Il giovane protagonista ha invece il volto di Alberto Farnese, che interpretava un ruolo minore (Poldo) all’interno de I figli di

nessuno, mentre la sua amata è interpretata da Irene Galter, una giovane attrice che la

Titanus sta tentando di lanciare dopo averla scritturata quello stesso anno in Roma, ore

11, dove faceva coppia proprio con Farnese. Nel film appare anche Yvonne Sanson, in

un ruolo piuttosto distante dai personaggi da lei interpretati precedentemente; tuttavia, la funzione della diva sembra comunque essere quella di fungere da esplicito trait d’union con il cinema di Matarazzo. Quasi tutto il resto del cast è peraltro formato da caratteristi provenienti dalla trilogia conclusasi l’anno precedente: Enrica Dyrell (qui nel ruolo di Capena) era la moglie di Nazzari ne I figli di nessuno, Enrico Olivieri (che qui interpreta il piccolo Cucciolo) era Bruno, mentre Gualtiero Tumiati, che interpreta il parroco della comunità di pescatori, aveva già indossato l’abito talare ne I figli di nessuno e in Chi è

senza peccato…, e sarebbe apparso ancora nei panni di un sacerdote nel successivo Noi peccatori. Non manca neppure Roberto Murolo, che intona Nu quarto ‘e luna (Manlio-

Oliviero, 1951)229 all’interno di una sequenza dai meccanismi affini a quelli visti all’opera in Catene.

Per esaminare quali tratti semantici e sintattici la produzione abbia deciso di prelevare dalla precedente trilogia, è utile raccontare brevemente la trama del film. Ambientato nel golfo di Napoli, esso narra dell’amore contrastato tra il pescatore Gianni (Farnese) e la giovane Mariella (Galter), che viene promessa sposa dal padre al ricco e infido Rocco (Lulli). La situazione si complica ulteriormente quando si stabilisce nella comunità di pescatori la ricca Luisa (Sanson), che sta fuggendo da una relazione proibita con il proprio maggiordomo. Gianni viene ingannato dai genitori di Mariella – che gli fanno recapitare una falsa lettera con la quale lei lo lascerebbe – e si consola perciò tra le braccia di Luisa, della quale diventa lo chauffeur. Un giorno ricompare però il maggiordomo, che con due colpi di pistola uccide la propria ex amante: Gianni viene così incolpato dell’omicidio di Luisa e condotto in carcere mentre Mariella, che è fuggita di casa e rifiuta di sposare Rocco, subisce un tentativo di violenza da parte di quest’ultimo, precipita da una scogliera e si riduce in fin di vita. A questo punto Capena, amante di Rocco, trova il coraggio di presentarsi ai carabinieri per far scagionare Gianni – la donna aveva visto il vero assassino allontanarsi da casa di Luisa – così che il giovane può correre al capezzale di Marinella: come per miracolo, la giovane guarisce improvvisamente.

Osservando il film, si può supporre che la Titanus abbia ritenuto che buona parte del successo delle opere precedenti fosse basato sui seguenti elementi: la presenza di un’eroina la cui onestà veniva messa in dubbio con l’inganno e che guariva in extremis dalla follia o da una pericolosa malattia (Catene, Tormento); di un villain incline allo stupro (Catene, Tormento, I figli di nessuno); infine di un eroe incapace di credere fino

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in fondo alla propria amata (Catene) e che finiva ingiustamente in carcere (Tormento), finché un testimone non trovava il coraggio di parlare svolgendo la funzione del deus ex

machina (Catene, Tormento). Per quanto riguarda la sintassi narrativa, nel film viene

riproposto il predominio delle dimensioni cognitiva e passionale su quella pragmatica, così come accadeva nell’intera trilogia; allo stesso modo, la presenza di sequenze attrazionali è piuttosto moderata, in linea con quanto accadeva in Tormento, sebbene alcune di esse – l’accendersi della passione tra Luisa e Gianni mentre Murolo sta cantando, o un bacio che i due si scambiano a bordo di una barca a remi – rimandino puntualmente all’iconografia di Catene. Sul piano del trattamento degli spazi vengono poi riprese in toto la connotazione regionale, la presenza di scenari da cartolina e infine la presenza di ambienti fortemente connotati dall’estetica neorealista, come il mercato del pesce (tutte caratteristiche proprie di Catene); tuttavia questi stessi elementi vengono alternati a un trattamento degli interni che invece rimanda al cinema noir americano. Se infatti all’interno di Catene i riferimenti al noir derivavano da un’iconografia legata al mondo della malavita – la sala da biliardo e lo squallido albergo abitato da Emilio – in Menzogna il richiamo a questo genere viene effettuato attraverso la caratterizzazione degli interni borghesi, sontuosi ma corrotti, abitati da Yvonne Sanson: questi ultimi contribuiscono inoltre a rafforzare l’opposizione, presente anche in altri luoghi del testo, tra un mondo popolare non privo di conflitti ma caratterizzato da valori positivi e una classe socialmente più elevata ma inquinata dal vizio.

A tale proposito basta osservare la caratterizzazione delle due dimore di Luisa – quella in città e quella sul golfo – e le situazioni narrative alle quali esse fanno da sfondo. Il film si apre sul campo medio di una ballerina indiana intenta a danzare, un elemento di per sé disorientante che viene contestualizzato grazie a una serie di raccordi sull’asse: si tratta infatti di uno spettacolo con il quale la padrona di casa, la ricca Luisa, sta deliziando i propri ospiti, un’esibizione lontana dalla cultura degli spettatori e che dimostra la necessità di questi personaggi di ricorrere a intrattenimenti esotici per vincere la noia. Inoltre la sequenza immediatamente successiva, nella quale la donna tenta inutilmente di interrompere una relazione proibita – perché interclassista – con il proprio domestico che la sta ricattando, rivela quanto essa sia prigioniera, piuttosto che padrona, del proprio ambiente. Allo stesso modo, quando Luisa si trasferisce nel solare golfo partenopeo, va ad abitare una villa fredda, distaccata dal resto del paese perché più in alto: una casa, di proprietà del viscido Rocco, buia e trattata con luci contrastate, al punto da ricordare le inospitali dimore dell’alta società del cinema noir, come per