• Non ci sono risultati.

Una nuova tappa verso la standardizzazione: Tormento (1950)

Cap III: La trilogia di Matarazzo e la ricerca di una standardizzazione linguistica

III.1. Una nuova tappa verso la standardizzazione: Tormento (1950)

Il film racconta la storia di una giovane di nome Anna (Sanson) che vive insieme al padre e alla matrigna, la quale ha atteggiamenti vessatori nei suoi confronti. Dopo essere stata scoperta in compagnia del fidanzato Carlo (Nazzari) la donna abbandona la casa paterna e va a vivere con quest’ultimo. La coppia si accinge a sposarsi e per questo Carlo va a chiedere un grosso anticipo al suo socio in affari, che però lo sta defraudando: tra i due scoppia un violento alterco e, quando alcuni giorni dopo il socio viene trovato morto, l’innocente Carlo viene condannato a vent’anni di carcere per omicidio. I due fidanzati si sposano ugualmente in prigione, alla presenza della bambina che è stata concepita durante la loro breve convivenza. Nel frattempo Anna ha più volte chiesto aiuto al padre, che però non ha mai ricevuto le sue lettere – intercettate dalla perfida moglie – e per di più muore di crepacuore quando scopre la verità. Rimasta sola con la bambina, Anna inizia così un percorso discendente che neanche l’aiuto di persone care sembra riuscire a interrompere. La donna si riduce a fare la sguattera in un night

club, dove tuttavia si esibisce come cantante il suo amico di gioventù Enzo (Murolo)

che l’ha sempre amata e riesce a farla promuovere a guardarobiera. Anna è tuttavia costretta a licenziarsi poco dopo, in seguito a un tentativo di violenza perpetratole dal sordido proprietario (Nicodemi), e si trova così di nuovo priva di mezzi per sostenere se stessa e la figlioletta. Quando anche la piccola si ammala, Anna non ha altra scelta che

214 La canzone consiste nel lamento di una ragazza madre che, rinchiusa nel convento delle Pentite di

Napoli, rimpiange di non poter riabbracciare il proprio figlio, mentre la sceneggiata culmina in una scena madre che si ripete in maniera identica nel film di Matarazzo: la protagonista, reclusa in convento e perciò lontana dalla figlioletta in pericolo, tenta di fuggire nottetempo con il benestare della madre superiora, che aveva anch’essa avuto una bambina in gioventù ma l’aveva perduta. Questo passaggio del testo teatrale è riprodotto in NIOLA (2002, 36), che ne trascrive le battute finali traendole da un’incisione fonografica, e da DEL BOSCO (2002, 130s), che opera un confronto tra la canzone e il testo teatrale. VIVIANI (1969, 860s) riproduce invece le intere battute di dialogo dell’episodio, traendole dal testo di Di Maio.

215 Gaspare Di Maio, ‘E ppentite, Biblioteca e Museo Teatrale del Burcardo, Fondo Copioni,

Collocazione C 280:07.

216

136

chiedere aiuto alla matrigna, la quale accetta di prendersi cura della bambina alla sola condizione che la madre, oltre a promettere di non rivedere mai più la propria figlia, si rinchiuda in volontaria clausura nel riformatorio delle Pentite. Qui la donna viene angariata dalle compagne e dalle severe suore che gestiscono l’istituto di correzione: trova conforto solo nella religione, nell’adorazione della Madonna che come lei è madre. Venuto a conoscenza della situazione, Enzo organizza la fuga di Anna che tuttavia, mentre sta uscendo nottetempo dall’istituto, si imbatte nella madre superiora, Suor Celeste. La religiosa, in un primo momento minaccia di chiamare le guardie, poi si commuove di fronte alle suppliche della donna: anche la monaca aveva avuto una figlia, che aveva perduta, e lascia perciò fuggire Anna. Ma fuori infuria il temporale e la giovane madre ha un malore prima di riuscire a raggiungere la macchina di Enzo: due passanti la trovano e la riportano nell’istituto. Quando tutto sembra perduto, Carlo viene improvvisamente scarcerato, in quanto la polizia ha finalmente trovato il vero colpevole. L’uomo si reca dalla matrigna di Anna per recuperare la bambina e apprendere la verità, ma la malvagia donna oppone resistenza, così che si rende necessario l’aiuto della domestica Rosina (Teresa Franchini), la quale racconta a Carlo come si sono realmente svolti i fatti. Dopo che la crudele megera ha ricevuto una giusta punizione da entrambi, Anna viene raggiunta all’istituto dal marito e dalla figlia: la famiglia può così ricomporsi.

I personaggi (e i loro interpreti) riproducono i ruoli e le funzioni che avevano in

Catene, ma con importanti differenze. Queste ultime non investono tanto il personaggio

di Anna, che come Rosa paga con una serie di terribili peripezie una piccola infrazione – un rapporto prematrimoniale con il fidanzato – e deve anche sopportare che venga messa in dubbio la propria innocenza a causa dell’infamante clausura nel convento delle Pentite; è piuttosto la figura di Carlo – che pure presenta alcune affinità con Guglielmo, il protagonista maschile del film precedente – a essere notevolmente ridimensionata: non solo questi compare soltanto nella prima mezz’ora e negli ultimi dieci minuti del film, ma anche la dimensione passionale del personaggio – che come si è visto era uno degli elementi fondamentali della figura di Guglielmo – viene qui quasi totalmente abolita, se non per la collera che esplode nei confronti prima del socio disonesto, poi della malvagia matrigna di sua moglie. Il cambiamento più rilevante rispetto a Catene riguarda però la figura del villain, il quale in Tormento viene sostituito da una matrigna malvagia che contribuisce a proiettare un’aura favolistica sulla vicenda217. Roberto Murolo viene poi promosso a un ruolo di maggiore spessore: in Tormento canta ben tre canzoni e interpreta Enzo, antico spasimante e ora adiuvante dell’infelice protagonista. Vi è infine un buon numero di personaggi che svolgono funzioni minori: alcuni di essi sono interpretati da attori che svolgevano ruoli analoghi nel film precedente, come la piccola Rosalia Randazzo, che interpreta ancora la figlia della coppia, o Teresa Franchini, nella parte della governante della matrigna; altri sono interpretati da attori che avevano già lavorato con Matarazzo, come Suor Celeste (Giuditta Rissone), o che sarebbero apparsi nei successivi melodrammi Titanus, come il padre di Anna (Mario Ferrari).

La sintassi narrativa, pur avendo diversi punti di contatto con il modello di

Catene, se ne distanzia però sensibilmente: tutta l’azione è focalizzata su Anna, così che

questa volta lo schema del melodramma ottocentesco di Pixérécourt è seguito alla lettera. Mentre infatti il film precedente

217 Mentre Aldo Nicodemi, che in Catene interpretava il viscido Emilio, è qui ancora presente ma soltanto

in un ruolo di contorno, quello del vile proprietario di night club che tenta di imporre un ricatto sessuale – e di usare violenza – ad Anna.

137

seguiva una struttura chiusa, geometrica, e in qualche modo prevedibile, Tormento sembra invece seguire una direzione costantemente imprevedibile, i personaggi sono sospinti sempre verso nuove avventure o sciagure, il dramma sempre spostato in avanti, tanto che la conclusione ha gli accenti del miracolo […] La struttura del film non ha dicevo, il carattere circolare di Catene, ma quello ad itinerario della passione. (Aprà 1976b, 26s).

Anna parte infatti da una situazione nella quale la sua innocenza viene messa in dubbio – la matrigna scopre che lei è uscita con un uomo e fa allusioni su di una sua possibile condotta disonesta – e nel finale approda a un pubblico riconoscimento della propria virtù, grazie a un personaggio che svolge il ruolo di testimone (Rosina), così che può essere reintegrata nel nucleo familiare che stava tentando di costruire e che le era stato portato via. Il suo itinerario è strutturato in stazioni, come una sacra rappresentazione: alla fuga dalla casa paterna si succedono le peregrinazioni dall’avvocato e nel commissariato di polizia, il matrimonio in carcere, il lavoro nel

night club, la reclusione alle Pentite, il fallimento della tentata fuga. Si tratta di un

percorso discendente, nel quale ogni tappa è peggiore di quella che la precede, secondo quell’isotopia della degradazione che era già emersa in Catene e che qui viene portata avanti con maggiore sadismo. L’aspetto più interessante di questo processo consiste nel fatto che ogni movimento verso il basso è preparato da un’azione, compiuta da personaggi che svolgono la funzione di adiuvante dell’eroina, che dovrebbe invece migliorare le condizioni di vita di quest’ultima. Così, la donna rimane da sola proprio quando Carlo decide di procurarsi i soldi per il loro matrimonio, viene aggredita dal datore di lavoro subito dopo che Enzo l’ha raccomandata per farla uscire dalle cucine, si ammala a causa della decisione di Enzo di preparare la sua fuga, ecc. Da ciò si desume anche che Anna, a differenza della protagonista del film precedente, non mette mai in moto né un fare performativo (proprio della dimensione pragmatica) né un fare cognitivo, ma vive invece all’interno di una dimensione esclusivamente passionale. L’unica trasformazione che compie nel mondo che la circonda consiste infatti nella patemizzazione del personaggio di Suor Celeste che, un tempo madre anch’essa, si commuove quando Anna fa appello alla Madonna.

Il fare pragmatico viene invece lasciato a Carlo, che quasi ai limiti del testo ricongiunge Anna a sé e alla bambina: un evento che non è preparato da nessun programma narrativo d’uso e che sarebbe potuto accadere in qualsiasi momento – anche dopo trenta minuti di proiezione, se il personaggio fosse stato rilasciato in tempo. Il fare cognitivo è invece prerogativa dell’antisoggetto, la matrigna, che non fa che tessere inganni e tranelli ai danni degli altri personaggi.

Anche qui, come in Catene, la dimensione passionale assume perciò un ruolo centrale. Tuttavia in questo film essa è maggiormente integrata nella narrazione, diluita nel testo e non più concentrata nei picchi emozionali costituiti dalle sequenze canore. Non che queste ultime non siano presenti anche in Tormento, tuttavia invece di essere disseminate lungo il testo sono raggruppate in una sola macrosequenza – quella del locale notturno – che si presenta come un unico lungo intermezzo canoro. Il film, in altre parole, è maggiormente vicino al linguaggio classico, a un ideale grado zero della scrittura filmica: un’impressione confermata anche dal découpage, composto quasi esclusivamente di primi piani e campi medi, laddove Catene in determinate occasioni sfoggiava travelling shots e sovrimpressioni. Per quanto riguarda la lunga sequenza del

night club, è in primo luogo interessante osservare come, tra le canzoni eseguite da

Murolo, non figuri E’ ppentite: il film si allontana dalla struttura della sceneggiata, che qui diviene solo pretesto per il soggetto, perciò non compare quella che dovrebbe essere la canzone più importante; inoltre, i testi delle altre canzoni non si riallacciano più tanto

138

strettamente all’azione principale. Si tratta di tre classici della canzone napoletana218 che vengono eseguiti in altrettante esibizioni intradiegetiche del famoso interprete: esse divengono occasione per un sommesso sfogo passionale della protagonista, che anche qui sembra essere preda della nostalgia, questa volta per il marito in carcere. Tuttavia le modalità con le quali ciò avviene sono totalmente diverse sia dalla sequenza del ristorante che da quella del dormitorio del film precedente. Si può prendere come esempio l’esecuzione della seconda canzone, Dicitencello vuie!: alla protagonista vengono riservate pochissime inquadrature, all’interno di una sintassi che alterna totali della sala piena, campi medi degli spettatori ai tavoli, infine primi piani e campi medi di Enzo che canta accompagnato dalla propria chitarra. All’interno della sequenza la Sanson appare soltanto due volte in campo medio, intenta ad asciugare delle stoviglie: le sue reazioni sono molto contenute, tanto che usando la terminologia di Fontanille si potrebbe dire che, a livello figurativo, il personaggio non superi mai la fase della patemizzazione; tuttavia c’è un accenno della fase dell’emozione, quando nella seconda inquadratura sembra per un momento di vedere un groppo formarsi nella gola dell’attrice.

Il fatto che le canzoni siano concentrate in una macrosequenza e che la dimensione passionale, nel caso specifico, sia molto contenuta non significa che non vi siano altre sequenze propriamente attrazionali, che fanno leva proprio su espressioni patemiche le quali, in questo caso, sono affidate esclusivamente alla mimica degli attori e al commento musicale extradiegetico, senza che la macchina da presa enfatizzi la situazione mediante degli strappi nel linguaggio medio del film. Tutto il film punta infatti a una medietas espressiva che contrasta con i frequenti picchi di Catene: si pensi alla sequenza del matrimonio in carcere, nella quale sarebbe lecito aspettarsi un’emergere della dimensione dell’eccesso propria del melodramma e che invece è tutto sommato trattenuta, perfino quando a Carlo viene permesso di abbracciare un’ultima volta la figlia prima di tornare in cella, o quando gli altri detenuti fanno avere alla coppia un bouquet che hanno acquistato rinunciando alla propria paga. L’unica eccezione è forse costituita dal prefinale del film, nel quale si assiste alla sanzione negativa della perfida matrigna, il cui programma narrativo – mantenere la famiglia di Anna permanentemente disgiunta – è ormai fallito. La donna viene prima scaraventata a terra da Carlo, poi percossa, come nel finale di una commedia dell’arte, dalla domestica Rosina. Gli schiaffoni che vengono somministrati alla matrigna, vengono così ricevuti da quest’ultima all’interno di un’inquadratura in semisoggettiva che ha l’effetto di sollecitare la partecipazione emotiva dello spettatore.

Lo stesso processo di asciugatura che si è rilevato sul piano linguistico è all’opera anche per quanto concerne la dimensione spaziale: il film è quasi totalmente ambientato in interni, siano essi spazi domestici – la sontuosa ma poco confortevole casa paterna di Anna o la squallida camera nella quale quest’ultima si riduce a vivere con la figlia – luoghi istituzionali – il commissariato, il carcere, il riformatorio delle pentite – o infine spazi appartenenti alla sfera del lavoro – il night club, il cantiere edile diretto dall’infingardo socio di Carlo. In tutti questi luoghi vige quell’iperrealismo un po’ asettico cui faceva accenno il già citato Pellizzari (1999), con l’interessante eccezione rappresentata dal cantiere e dal night club, tra i pochi set a non essere privi di comparse: le riprese in esterni degli operai in attività e quelle degli avventori seduti ai tavolini hanno una qualità quasi documentaria se confrontati con l’atmosfera sospesa, da produzione in studio a basso costo, che domina nel resto del film. L’aspetto più

218 «Roberto Murolo canta in poco più di dieci minuti prima Reginella (Bovio-Lama), poi Dicitencello

vuie! (Fusco-Falvo), infine Canzone appassionata (E. A. Mario), perle della tradizione musicale

139

rilevante riguarda però l’assenza di due elementi che si erano rivelati fondamentali nell’economia di Catene, ovvero gli esterni da cartolina e il rapporto con l’estetica del neorealismo. In primo luogo, non si trovano più quei piani d’ambiente che aprivano ogni nuova sequenza nel film precedente: la città nella quale si trovano i protagonisti – Napoli – non viene mai neppure nominata e i rapporti spaziali o geografici sono soltanto abbozzati, come negli andirivieni di Carlo e Anna da Roma, raffigurati semplicemente attraverso la ripresa di uno scompartimento ferroviario o di una distesa di binari vista dalla coda di un treno; allo stesso modo, i pochissimi esterni sono costituiti da luoghi anonimi, e sparisce anche quel minimo ricorso alla parlata dialettale che aveva fatto capolino in un paio di sequenze di Catene. Non si può non collegare questa scelta al parallelo ridimensionamento del rapporto con la struttura della sceneggiata, che come si è appena visto coinvolge l’abolizione dell’alternanza narrazione-canzoni: il rapporto con la tradizione napoletana – presente nel corredo genetico della Titanus attraverso l’eredità della Lombardo film – diviene un elemento mediato dalla volontà di aderire maggiormente al linguaggio classico americano, a quello che Burch (1969) definisce grado zero della scrittura cinematografica, riducendo il numero di attrazioni presenti nel testo sia dal punto di vista linguistico che da quello del profilmico. Un discorso simile si può fare a proposito della presenza di elementi che rimandano al coevo cinema neorealista: in Tormento, i cui protagonisti appartengono alla piccola e media borghesia, gli ambienti prelevati dall’iconografia del movimento che erano stati rilevati in Catene svaniscono a favore di una rappresentazione degli spazi priva di particolari connotazioni.

Il risultato di queste ripetute rinunce agli elementi caratterizzanti il film precedente, a favore di una maggiore standardizzazione linguistica, è un melodramma più tiepido che aspira però, ancor più di Catene, a diventare un prototipo di mélo nazionale, ambientato in una contemporaneità astorica vissuta soltanto a livello privato.