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Cap V: La Titanus e il neorealismo

V.2. Roma ore

Come è noto, il film fa riferimento a un caso di cronaca avvenuto nella capitale il 14 gennaio 1951. In quella data, all’interno di un ufficio in un palazzo residenziale di via Savoia, si sarebbe tenuto un colloquio per l’assunzione di una dattilografa “di miti pretese”, come recitava il testo dell’annuncio pubblicato su di un quotidiano il giorno prima. Nonostante il posto offerto fosse uno solo, a causa della disoccupazione si presentò una folla di giovani donne, il cui numero non fu mai chiarito con certezza ma sicuramente superiore al centinaio. A causa della pressione cui fu sottoposta dalle aspiranti dattilografe, alle ore 11.00 la scala crollò, causando la morte di una giovane e il ferimento di 79 delle donne presenti. L’evento colpì notevolmente la sensibilità dei

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cittadini romani e non solo: basti pensare che, oltre al film di De Santis, nello stesso anno fu dedicato allo stesso episodio anche un film di Augusto Genina, Tre storie

proibite, sul quale si tornerà in seguito.

La genesi di Roma ore 11 fu piuttosto breve. Sebbene il film sia stato scritto, tra gli altri, anche da Rodolfo Sonego, Gianni Puccini e dal fidato assistente di De Santis, Basilio Franchina (anche aiuto regista), la maggior parte della letteratura critica si concentra soprattutto sul tentativo di quantificare l’esatto apporto di Zavattini all’economia complessiva del film. Se la recensione di Guido Aristarco (1952a) apparsa su «Cinema» tratta quest’ultimo al pari degli altri sceneggiatori, altri contributi più recenti come quelli di Farassino e Masi tendono invece a circoscrivere la natura della sua partecipazione. Masi afferma che «anche Zavattini vi mise mano, ma poi – ad un certo punto – fu costretto ad abbandonare l’assise perché pressato da altri impegni: in questo modo non si acuiva una possibile spaccatura tra elementi desantisiani ed elementi zavattiniani del racconto» (Masi 1982, 63), e individua come possibili lasciti dello sceneggiatore «certi riconoscibilissimi tratti di racconto […] come il clownesco personaggio del marinaio che corteggia Cornelia, esibendosi in un piccolo show alla fermata del bus [e che] restano nel film come condimento di una pietanza più sostanziosa»283; Farassino invece individua l’apporto di Zavattini principalmente in una serie di strategie, fortemente legate alla concezione neorealista della sceneggiatura, che però De Santis non avrebbe seguito fino in fondo:

Quattro mesi dopo [la tragedia] un giovane giornalista dell’“Unità” di nome Elio Petri iniziava la sua carriera cinematografica andando a intervistare per conto di De Santis, ma su consiglio di Zavattini, le ragazze rimaste coinvolte nel crollo. Zavattini, che poi non collaborò quasi più alla sceneggiatura, suggerì anche un altro esperimento preliminare: e fu pubblicata una offerta d’impiego simile a quella che aveva attirato le ragazze su quella scala, per riprodurre – naturalmente al pianterreno – la situazione che doveva essersi verificata quel giorno. Ma a De Santis interessava relativamente284». (Farassino 1978, 33)

Sebbene non vi sia modo di appurare con documenti di prima mano come si siano realmente svolte le cose in sede di sceneggiatura, bisogna rilevare come i contributi di Farassino e Masi siano stati realizzati in un’epoca in cui l’obiettivo principale della giovane critica era quello di rivalutare figure come quella di De Santis, a suo tempo ostracizzato dalla critica neorealista, in modo da fornire un’immagine meno monolitica e settaria del movimento: è possibile perciò che tale strategia abbia inteso sminuire, per compensazione, l’apporto del più blasonato scrittore emiliano. Il quale, da parte sua, anni dopo ha invece voluto precisare come in sede di sceneggiatura vi fosse effettivamente stata, a differenza di quanto affermato da Masi, una spaccatura tra «elementi desantisiani ed elementi zavattiniani». Per esempio, in un’intervista pubblicata nel 1979, Zavattini afferma:

Io vorrei che lei leggesse l’enorme materiale di discussione che è stato fatto per questo film. Io ho lottato, ho lottato molto. Peppe deve ricordare – con i suoi collaboratori – che siamo arrivati quasi alle lacrime, alla lite, ed era proprio il contrasto fra due modi di vedere. Io ero maturo per

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Anche FARASSINO (1978) nota come il marinaio sia uno degli elementi più evidentemente zavattiniani del film; va peraltro rilevato come Masi in gran parte si limiti a riproporre le letture operate dallo studioso torinese.

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È interessante notare come un articolo apparso su «Cinema» all’epoca della lavorazione del film parli di una descrizione d’ambiente realizzata «sulla falsariga […] di ciò che l’inchiesta condotta da De Santis, Brancati e altri, prima di dare inizio al film» (MARTINI 1951, 360-361). Nessun altra fonte, tuttavia, conferma l’ipotesi di una partecipazione di Brancati alle indagini preliminari alla stesura della sceneggiatura mentre il nome di Petri, che non compare nei titoli di testa del film, ricorre invece più volte.

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un certo tipo di film, tanto è vero che la lotta fu tra una preesistente immaginazione del film e un’immaginazione che doveva invece nascere attraverso l’esame, lo studio di quel fatto. […] Peppe sentiva il fascino di un film con una base estremamente reale: però, la sua natura di narratore popolaresco gli aveva fatto amare degli episodi ai quali l’inchiesta non poteva che dare un contributo estremamente modesto, tanto tali episodi erano bloccati in avvenimenti di struttura pre-preparata. Io riuscii a ottenere un 50%: quello è il film dove il 50% è pensato da me e il 50% è pensato da Peppe e dai suoi collaboratori. Questa è la verità. (Pellizzari 1979, 75-76).

Inoltre, in un numero di «Bianco e nero» dedicato al carteggio di De Santis, viene riprodotta una lettera di Zavattini datata 14 agosto 1982 nella quale si legge:

Caro Peppe, senza dubbio involontariamente, ma quella frase, detta o non detta, messa così sembra un contrasto tra dei proprietari terrieri. Ma no, secondo me in Roma ore 11 specialmente ci sono due spiriti, uno tuo, quello del racconto e uno mio, quello dell’inchiesta. Del conflitto interessante, articolatissimo, ci furono anche delle registrazioni. (Zavattini 2002, 173).

Resta da chiarire, inoltre, se l’oggetto del contendere sia l’aspetto quantitativo o qualitativo del contributo di Zavattini: se cioè esso sia stato quantitativamente limitato – come affermano Farassino e Masi – ma sufficiente, secondo lo scrittore, ad attribuirgli l’impostazione stessa dell’opera e quindi un buon 50% della riuscita del film, oppure se Zavattini abbia partecipato all’intera gestazione dello script. In ogni caso, guardando il film, pare difficile pensare che il contributo di Zavattini si sia limitato alla fase delle inchieste preliminari e a quella della stesura del soggetto: verrebbe quantomeno da dire, con le parole di Aristarco, che «sue sono senza dubbio le abbondanti e precise osservazioni su ambienti e figure» (Aristarco 1952a, 147).

Sinossi: In una fredda mattina di gennaio una ragazza si sveglia dopo aver passato la

notte appoggiata al portone di un signorile palazzo romano. In quello stabile si terrà infatti a breve un colloquio per un posto di aspirante dattilografa, e la disoccupazione ha spinto la giovane a dormire all’addiaccio pur di non perdere quell’opportunità. Svegliatasi, la ragazza passeggia lungo i bordi della piazzetta antistante il caseggiato, per poi precipitarsi di nuovo di fronte al portone quando vede arrivare altre giovani donne. Quasi trecento aspiranti dattilografe si stanno infatti radunando davanti all’ingresso e all’apertura del portone sciamano all’interno dello stabile e si mettono in coda lungo le scale: tra di loro vi sono una giovane di Viterbo (Anna Maria Trepaoli), che da mesi lavora nella capitale e della quale non viene mai pronunciato il nome; Adriana (Elena Varzi), già segretaria di un prestigioso avvocato che però, dopo averla sedotta e messa incinta, l’ha licenziata; la ragazza che aveva dormito sul portone, Gianna (Eva Vanicek), orfana di padre, estremamente timida e costantemente seguita da una madre piuttosto ingombrante; Caterina (Lea Padovani), una prostituta che vuole cambiare vita; Angelina (Delia Scala), una servetta veneta che vuole abbandonare la casa dei padroni e per questo tenta di fare il colloquio anche se non sa battere a macchina. Alcune delle candidate provengono da situazioni familiari più complesse: Simona (Lucia Bosé) è una bella e giovane donna appartenente all’alta borghesia, che ha scelto però di condurre una vita di stenti per amore del marito Carlo (Raf Vallone), un pittore spiantato; Clara (Irene Galter) è invece la giovane figlia di un impiegato (Paolo Stoppa) il quale è costretto a far lavorare la figlia perché il suo stipendio non basta a sostenere l’intera famiglia; Cornelia (Maria Grazia Francia) è una giovane dalla sorella un po’ prepotente, e flirta con un giovane marinaio che staziona davanti all’edificio; infine Luciana (Carla Del Poggio), moglie dell’operaio disoccupato Nando (Massimo Girotti), è talmente esasperata dalla povertà che, quando scopre che non tutte le centinaia giovani accorse verranno prese in considerazione per

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il colloquio, salta la fila ricorrendo a uno stratagemma. La violenta reazione delle giovani donne a questo sopruso causa un cedimento nell’edificio: si apre una crepa in uno dei pianerottoli e il vano scala inghiotte le aspiranti dattilografe. I soccorsi non tardano ad arrivare: alcune ragazze sono illese, altre vengono ricoverate in ospedale, dove dapprima vengono intervistate da una troupe radiofonica della RAI, poi scoprono di dover pagare per le cure che ricevono e scatenano una nuova rivolta. Da questo momento in poi le traiettorie delle protagoniste tornano a divergere: Angelina trova la forza di abbandonare la casa dei suoi padroni per tornare in Veneto, dove con ogni probabilità farà la contadina, mentre la giovane di Viterbo prende prontamente il suo posto; Adriana è costretta a svelare i dettagli della propria situazione al padre vetturino, che ha saputo dai medici che lei è incinta: dapprima questi tenta di cacciarla di casa, poi, commosso dai vicini che gli ricordano quanto sia stato fortunato a non perdere la propria figlia nella sciagura, ci ripensa; Simona, leggermente feritasi a un braccio nel corso del crollo, dapprima viene portata via dalla propria famiglia, poi fa ritorno a casa del marito, che ama davvero, come nulla fosse successo; il padre di Clara tenta inutilmente di allontanare l’operaio Augusto – che ha soccorso sua figlia e si sta innamorando, ricambiato, di lei – ma quando scopre che il giovane ha intenzioni serie – e, soprattutto, che è a suo modo un buon partito – si rassegna; Caterina torna invece nella borgata, dove non arrivano i giornali e dove nessuno ha ancora sentito parlare della sciagura; Cornelia, invece, più grave delle altre, non sopravvive. Al tramonto la polizia preleva Luciana, che per tutta la giornata ha vagato senza pace per Roma insieme al marito, in quanto è rosa dal senso di colpa. La donna viene portata sul luogo della tragedia, dove si sta tenendo un’inchiesta: all’interno dell’ufficio, di fronte al vano scala sventrato, un commissario interroga il costruttore del palazzo, i condomini, il padrone dell’edificio, il ragioniere che offriva il posto di lavoro: ognuno di essi tende a scaricare le colpe sul testimone successivo se non che, quando arriva il turno di Luciana, tutti sono concordi nel considerarla principale responsabile dell’accaduto. La donna non regge alla pressione e medita di gettarsi nel vuoto, ma proprio in quel momento il marito Nando indovina le sue intenzioni e accorre a salvarla. Quando la moglie è fuori pericolo, l’operaio si rivolge agli astanti, rimproverandoli per aver cercato a tutti i costi un capro espiatorio: le sue parole colpiscono l’ispettore che, dopo averlo mandato via, scioglie l’inchiesta e se ne va. Un giornalista, però, lo avvicina chiedendogli quale sia il vero responsabile del disastro e cosa dovrebbe scrivere sul giornale del mattino. Il commissario gli indica Gianna, che attende il ragioniere appoggiata al portone del palazzo sventrato perché, se nessuna donna è stata assunta, allora il posto forse c’è ancora: di questo dovrebbero scrivere secondo lui i giornali, della disoccupazione che è la vera causa di tutto. Il film si chiude, all’opposto di come era incominciato, su di un movimento di macchina verso la ragazza.

Riesce molto difficile raccontare la trama del film, che alterna le vicende di almeno una ventina di personaggi con una struttura a mosaico alquanto sofisticata. Nella sinossi sono stati privilegiate le figure più significative: alcune di esse rimandano evidentemente alla commedia – ad esempio Clara, che ha la passione del canto e amoreggia volentieri con il giovane Augusto, alle spalle del burbero padre che, seppur impregnato di orgoglio di classe piccolo-borghese, deve rassegnarsi ad accogliere come suocero un operaio che guadagna più di lui; oppure Caterina, che cerca di recuperare la propria borsetta accompagnata da un uomo d’affari che smania per andare a letto con lei e Gianna, ancora bambina perché trattata come tale da una madre ingombrante – mentre altre sono legate ai tòpoi del melodramma – Adriana, sedotta e abbandonata; Simona e

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Carlo, la coppia bohémienne; la sfortunata Cornelia e, soprattutto, Nando e Luciana. Altre figure poi si pongono al confine tra i due generi: nella prima parte del film vengono presentati i goffi tentativi di Angelina di imparare a scrivere a macchina anche se non ne è assolutamente capace, ma alla fine si intuisce che forse il padre e il figlio della paternalistica famiglia per cui lavora abusano di lei; allo stesso modo, la giovane e goffa ragazza di Viterbo interpretata da Anna Maria Trepaoli è pienamente disposta a prendere il suo posto pur di non soffrire più la fame. Come si può vedere, quasi tutti i personaggi di rilievo sono femminili: come osserva giustamente Masi

Roma ore 11 è un «film sulle donne» la [cui] sostanza narrativa […] si presta meglio di

qualunque altra storia desantisiana a portare in primo piano il coro, offrendo al regista l’opportunità di presentarcene i suoi membri, uno ad uno, sino a formare qualcosa di simile ad un album nel quale si riuniscono tante storie parallele. Le tante storie parallele di queste ragazze convergono in un luogo e in un momento […] per poi divergere nuovamente. Questo centro gravitazionale fornisce alla storia una perfetta e limpida organizzazione, dandoci modo di apprezzarne la densità, senza tuttavia venir sopraffatti da un senso di confusione. Anche in Riso

amaro c’era un vero esercito di donne, ma in quel caso il coro era coro e basta, parlava per bocca

di un personaggio che lo rappresentava […]. In Roma ore 11 il coro si frantuma continuamente: è un coro fatto di tante individualità e non un coro-massa. (Masi 1982, 62.)

La doppia identità di ciascuno dei personaggi femminili, in quanto individuo e al tempo stesso parte di un gruppo che trascende l’individualità, è un elemento importante per comprendere l’approccio di De Santis al melodramma. Si è visto nelle analisi precedenti come il genere, in Italia, faccia riferimento a quattro principali modelli femminili che gravitano intorno alle opposte virtù rappresentate dalla verginità e dalla maternità, quattro modelli – la “Madonna”, la “prostituta”, la “fanciulla” e la “madre” – che si definiscono in quanto opposti o contrari gli uni agli altri dal punto di vista assiologico e corrispondono a norme comportamentali che trovano riscontro sul piano tematico e figurativo all’interno dei film. Perciò, se all’interno di una di queste pellicole vi è un unico personaggio femminile, il problema principale consiste nell’individuare la sua collocazione all’interno di questo schema – ad esempio la protagonista può vivere una tensione interiore tra diversi ruoli, o essere percepita in maniera differente dagli altri personaggi, a causa di un equivoco – mentre se ve ne sono due o più, si genera invece una contrapposizione inconciliabile tra opposti modelli – la “fanciulla” o la “madre” si devono scontrare con la “prostituta”, come si è visto nel capitolo precedente. Non solo De Santis rifiuta la struttura di base del maternal melodrama italiano, che imperversa sugli schermi negli anni ’50, ma assorbe tutti e quattro questi possibili modelli integrandoli in un insieme più vasto, in un catalogo di ruoli che concorrono a creare un’unica e complessa immagine del femminile. Non c’è alcuna contraddizione tra chi in

Roma ore 11, come Gianna, Clara e Cornelia, potrebbe ricoprire il ruolo della

“fanciulla”, né tra chi, come Caterina, fa la prostituta, anche perché all’interno del film l’elemento della “maternità” non è centrale (lo è solo per Adriana), mentre quello della “verginità” non è affatto pertinente. Alle contrapposizioni tra ruoli femminili De Santis ne sostituisce altri, fondati sull’identità di classe: al gruppo formato dalle dattilografe si oppone l’opinione pubblica, che esprimendosi attraverso i media, i commenti dei passanti e l’inchiesta del commissario sembra in un primo momento non riuscire a cogliere i termini del problema e manifesta per le sventurate sentimenti ambivalenti285;

285 Si veda lo scambio di battute tra due anonimi spettatori mentre i vigili del fuoco prestano soccorso alle

ferite: «Mica tutte sa vanno perché hanno bisogno di lavorare: c’è quella che va per le calze, per le scarpe», dice un distinto signore, mentre un altro gli risponde: «Perché, solo lei deve camminà colle scarpe?». Tuttavia del macro-soggetto “opinione pubblica” fanno parte anche personaggi maggiormente

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su di un altro piano si contrappongono poi vicendevolmente quelle figure maschili che solidarizzano con il problema delle protagoniste – Romoletto, che soccorre Angelina; Nando, che protegge Luciana dai suoi stessi sensi di colpa; Carlo, che è disposto a sacrificare il proprio matrimonio per il bene di Simona – e quelle che viceversa tendono a opprimerle – la famiglia alto-borghese di Simona; il generale in pensione, che tratta la figlia come una reclusa in nome di un ipocrita decoro; il padre vetturino di Adriana, che non comprende a fondo la situazione della figlia e la vorrebbe cacciare286.

La maggior parte di questi personaggi maschili ricopre, nell’economia della narrazione, un ruolo ancillare rispetto a quelli femminili. L’unico di essi a godere di una sua autonomia, il commissario cui è affidata la conclusione del film, immette una nuova dimensione all’interno del racconto: l’inchiesta, un indagine che si tiene all’interno del teatro della sciagura e che segue la struttura della resa dei conti propria del romanzo giallo classico, nel quale il detective interroga i sospettati senza sbilanciarsi fino allo scioglimento finale del mistero. De Santis e i suoi collaboratori scelgono di utilizzare i diversi generi che si intersecano all’interno del film per supportarne la struttura a tesi: dapprima illustrano con i toni della commedia e del melodramma un mosaico di vicende che deve essere rappresentativo della situazione delle oltre centocinquanta disoccupate di quella mattina del 14 gennaio 1951, poi utilizzano la struttura della detection per svelarne le cause. L’“assassino” non è né l’architetto né il padrone di casa – che pure hanno risparmiato sui materiali e trascurato la manutenzione – non sono i condomini né è la giovane Luciana – che ha compiuto un atto ingiusto ma giustificabile in quanto dettato dalla miseria – bensì l’inarrestabile disoccupazione, che fa sì che all’offerta di un solo posto rispondano centinaia di candidate.

Per cogliere la misura in cui l’approccio di De Santis contrasta con il melodramma contemporaneo, basta fare un confronto con la versione che Genina dà dello stesso fatto di cronaca: innanzitutto Tre storie proibite – scritto dal regista insieme a Maccari, Brancati, De Feo, Patti e Perilli – abbandona la struttura a mosaico a favore di una a polittico, nella quale l’affresco delle protagoniste del dramma è racchiuso in tre sole storie a compartimenti stagni. Ciò riflette l’ideologia di fondo, secondo la quale è soltanto il destino ad aver portato le tre protagoniste sul luogo della sciagura, non un reale problema quale l’indigenza: il personaggio interpretato da Lia Amanda vi è arrivato in seguito alla vita di emarginazione che conduce da quando, ancora bambina, fu violentata da un amico dei genitori; Antonella Lualdi vi è stata condotta – al termine di un episodio che, a differenza degli altri due, fa riferimento ai moduli della commedia anziché al melodramma – a causa dell’impossibile convivenza con un macchiettistico marito, ricco ma insopportabile; infine Eleonora Rossi Drago, figlia del professore

individualizzati, come il ragioniere che offre il posto di lavoro e che sostiene che non è colpa sua se