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Il melodramma come modalità base del cinema hollywoodiano

Cap I.: Il melodramma Quadro teorico

I.3. Il melodramma come modalità base del cinema hollywoodiano

Nei due decenni successivi, ad essere protagonista della riflessione intorno al melodramma è la critica femminista, responsabile di due apporti fondamentali. In primo luogo, essa svolge un ruolo determinante nell’estendere il corpus di film del genere, che nella riflessione di Elsaesser era sostanzialmente limitata al mélo familiare degli anni ’50. Altman ([1999] 2004, 108-115) ricostruisce l’operazione critica attraverso la quale Mulvey (1986), Modlesky (1984) e Doane (1984) hanno stabilmente fatto rientrare i

women’s film degli anni ’30 e ’40 nell’ambito del melodramma, contribuendo

all’identificazione del genere con un corpus disparato di film, accomunati dal fatto di essere rivolti ad un pubblico femminile. Di essi fanno parte racconti gotici come

Angoscia (Gaslight, George Cukor, 1944) e Il castello di Dragonwyck (Joseph Lee

Mankiewicz, 1946), noir come Tragico segreto (Undercurrent, Vincente Minnelli, 1946) e Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, Michael Curtiz, 1945), film sentimentali come La donna proibita (Back Street, John M. Stahl, 1932), ma soprattutto un intero sottogenere etichettato “maternal melodrama” e che comprende film come

Stella Dallas, Perdutamente tua (Now Voyager, Irving Rapper, 1942) o Venere bionda

(Blonde Venus, Josef Von Sternberg, 1932). Quest’ultimo gruppo si rivela particolarmente importante all’interno della riflessione femminista, innanzitutto perché si tratta di un corpus dotato di figure (la madre determinata, il padre assente) e isotopie semantiche (l’auto-sacrificio) assai stabili e ricorrenti, ma anche nella misura in cui permette alle autrici di riflettere sulla rappresentazione della maternità all’interno della società patriarcale150, così che attraverso di esso l’intero melodramma diviene il campo di battaglia ideale per chiarire questioni di identità e identificazione del pubblico. Il legame tra women’s film e melodramma viene però messo in crisi in una seconda fase, nella quale la critica femminista riprende, estendendoli con conseguenze interessanti, spunti presenti nella riflessione di Elsaesser e Brooks. Studiando le origini del melodramma cinematografico, Christine Gledhill (1987) osserva come la nascita del cinema avvenga in un momento in cui si assiste ad un cambiamento di paradigma, al passaggio da una cultura femminilizzata come quella vittoriana – che si riconosceva negli eccessi sentimentali e nelle nette e semplicistiche polarità morali del melodramma – a una cultura ri-mascolinizzata e caratterizzata dal ritorno del realismo dopo quasi un secolo di silenzio della tragedia. All’interno di questo processo:

Il melodramma inizialmente è sopravvissuto nella capacità del cinema di racchiudere sentimento melodrammatico e idealizzazioni femminili all’interno del realismo fotografico. Tuttavia, il

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ROOKS ([1976] 1985, 9-11).

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tentativo dell’industria in espansione di conquistare il ceto medio, con la complicità della nuova critica sorta intorno al nuovo medium […] ha generato un’ambivalenza a carattere industriale attorno a un prodotto che era stato congegnato in funzione sia del prestigio che della popolarità. In breve il cinema è stato costituito come un medium intrinsecamente realista, ed è diventato un punto fermo della storia del cinema il fatto che, mentre il cinema delle origini produceva automaticamente melodrammi, il potere del parlato istituì uno iato critico tra un cinema destinato al realismo e le sue origini melodrammatiche. Allo stesso tempo si consolidarono le distinzioni di genere, in modo che al melodramma venisse concessa un’identità distinta […], il che facilitò alla critica l’operazione di tracciare dei confini in base al genere sessuale151.

Tuttavia, continua sempre Gledhill, anche i generi maschili improntati al realismo (come il western, il gangster e il war film) non sono necessariamente immuni da tracce della loro provenienza melodrammatica così che anche Gledhill, sulla scorta di Brooks, si chiede se nel caso del melodramma non sia il caso di parlare, piuttosto che di un vero e proprio genere, di una modalità presente in tutto il cinema hollywoodiano.

È su questa base che Linda Williams (1998) costruisce una teoria dirompente e fortunata, destinata a portare all’estremo l’approccio di Elsaessaer. Williams, partendo dalla differenziazione dei generi descritta da Gledhill, sottolinea come la distinzione interna a questi ultimi tra generi realisti e il melodramma sia basata sulla nozione di “eccesso”: un eccesso visto, sia a livello di contenuti che di messa in scena, come un’infrazione ai criteri di razionalità e misura propri dello stile classico. Tale distinzione ne riproduce quindi una più rozza, che contrappone alla razionalità narrativa una dimensione passionale incontrollata, la quale viene comunemente associata con i generi dedicati al pubblico femminile; inoltre, questa distinzione è fallace in quanto nasconde le infrazioni al realismo che sono presenti anche in tutti gli altri generi hollywoodiani e per estensione nell’intero cinema americano: si pensi alla comune presenza di elementi attrazionali152 che interrompono l’invisibile sviluppo della narrazione, allo scopo di fornire allo spettatore immediati elementi di soddisfazione visiva. Una volta venuto meno il discrimine dell’eccesso, secondo Williams è evidente come la distinzione tra il melodramma e gli altri generi hollywoodiani sia sempre più sfumata, tanto più che elementi narrativi cardine del melodramma, come la presenza di un eroe innocente che cerca riscatto, sono punti di partenza comuni a qualsiasi narrazione propria del cinema classico. Di conseguenza, qualsiasi film di Hollywood può essere definito un melodramma, e al limite può sopravvivere una distinzione tra i melodrammi che privilegiano il pathos (come i women’s film) o l’azione (i generi dedicati ad un pubblico maschile), sebbene si tratti di due componenti che sono sempre contemporaneamente presenti, anche se in diverse gradazioni153.

Viene così completamente meno la necessità dell’esistenza di un genere chiamato “melodramma”, in quanto ad esso viene sostituita una modalità pervasiva, una categoria culturale diffusa a prescindere dal tipo di testo, in questo affine al concetto di melodramma elaborato da Brooks. Nelle parole di Williams:

Il melodramma è la modalità fondamentale del cinema popolare americano. Non è uno specifico genere come il western o l’horror; non è una “deviazione” della narrazione classica realista; non

151

GLEDHILL (1987, 34)

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Riconducibili cioè al «cinema delle attrazioni» teorizzato da GUNNING (1986).

153 «Perciò il vernacolo base del cinema americano consiste in una storia che generi simpatia per un eroe

che è anche una vittima e che conduce ad un climax che permette al pubblico, e solitamente anche agli altri personaggi, di riconoscere il valore morale del protagonista. Questo climax che rivela il valore morale della vittima può tendere in due direzioni: può consistere in un parossismo del pathos (come nei

woman’s film o nelle varianti dei melodrammi familiari) o può prendere quello stesso parossismo e

incanalarlo varianti più virili e incentrate sull’azione del salvataggio, della fuga e della lotta (come nel western e in tutti i generi d’azione)». WILLIAMS (1998, 58)

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può essere localizzata principalmente nei woman’s films, nei “weepies” o nei melodrammi familiari – benché questi ne facciano parte. Piuttosto, il melodramma è una forma peculiarmente democratica e americana finalizzata alla rivelazione drammaturgica di verità morali ed emotive attraverso una dialettica di pathos e azione. È il fondamento stesso del film classico hollywoodiano154.

Gli esempi utilizzati da Williams per corroborare le proprie affermazioni sono indicativi: vengono scelti melodrammi veri e propri – incentrati però su protagonisti maschili – come Philadelphia (Jonathan Demme, 1993) e Shindler’s List (Steven Spielberg, 1993), ma soprattutto viene provocatoriamente sottolineata la componente melodrammatica di film di azione violenta come Rambo (First Blood, Ted Kotcheff, 1982). In quest’ultimo caso, come in tutto il cinema del decennio successivo al ritiro americano dal Vietnam, il ricorso alla modalità melodrammatica permette di costruire il protagonista come vittima e quindi come degno oggetto delle simpatie e della compassione del pubblico, innescando così un’operazione che ad un livello più ampio punta alla riabilitazione morale di un’intera nazione in una delle pagine più nere della sua storia.

La teoria di Williams riesce perciò a risolvere il problema dell’indeterminatezza del concetto di melodramma, sulla quale aveva puntato il dito Merritt, ma lo fa a prezzo di creare un’entità astratta che resiste a qualsiasi articolazione diacronica e a qualsiasi tentativo di circoscrizione di un corpus definito. Se infatti quest’ultimo era in certi casi troppo limitato o troppo impreciso, nella formulazione di Williams esso arriva a coprire l’intera produzione cinematografica hollywoodiana, quindi poco meno che l’intero cinema. Sebbene formulata con acume e in base a premesse indiscutibili, la teoria del melodramma come modalità apre anche ad altri interrogativi cui non è facile rispondere: quante e quali altre modalità dovrebbero esistere? È possibile che esista solo quella melodrammatica, o dovrebbero esistere modalità proprie anche della tragedia o della commedia? Se la modalità melodrammatica è sostanzialmente identificata con il cinema hollywoodiano nel suo complesso, qual è il suo rapporto con le cinematografie europee e asiatiche, che spesso presentano dinamiche simili?

Nonostante l’ampio grado di indeterminatezza, la teoria di Williams, che ha però il merito di spezzare definitivamente nella percezione critica l’accostamento di generi e genere sessuale, ha comunque avuto un ampio successo: Elsaesser (2007) nel ritornare sull’argomento del suo celebre saggio del 1972, parla ormai del melodramma come di una «modalità del sentire», e significativamente arriva ad estendere la portata dell’immaginazione melodrammatica al di fuori del cinema, un medium che ha ormai perso la sua centralità; nelle ultime pagine del suo saggio egli si spinge così a rintracciarne le caratteristiche in ambiti quali il talk show di Oprah Winfrey o nelle dinamiche interpersonali proprie dei reality show televisivi.

Sebbene non manchino spunti interessanti, è difficile resistere alla tentazione di vedere gli sviluppi delle trattazioni di Williams ed Elsaesser come un estremo tentativo di estendere all’infinito la portata del proprio oggetto di studi, facendone un ingrediente base di qualsiasi forma di narrazione e di comunicazione. Ma è davvero utile alla teoria un genere che è stato ampliato al punto di non essere più tale? È probabilmente più proficuo fare un passo indietro, e provare a vedere, mediando tra il phantom genre di Merritt e il super-genere creato dalla teoria dell’ultimo decennio, quale possa essere uno strumento svincolato da secondi fini e utile alla storiografia del cinema.

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