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Il ritorno alle radici della Lombardo Film: I figli di nessuno

Cap III: La trilogia di Matarazzo e la ricerca di una standardizzazione linguistica

III.2. Il ritorno alle radici della Lombardo Film: I figli di nessuno

L’eredità della Lombardo Film e l’influenza del cinema neorealista vengono invece riprese e ulteriormente rielaborate nel terzo capitolo della trilogia realizzata da Matarazzo per la Titanus. I figli di Nessuno, ancora una volta coprodotto dalla Labor film e scritto da Aldo De Benedetti, che costituisce il terzo adattamento del romanzo di Rindi e dell’omonimo dramma da lui scritto insieme a Salvoni, e racconta la storia di Luisa (Sanson), figlia del custode di una cava di marmo che ha una relazione segreta con il conte Guido (Nazzari), a sua volta figlio della proprietaria della cava (Françoise Rosay). Guido ha la testa sulle spalle e nutre intenzioni serie: vuole sposare Luisa e imprimere una nuova direzione all’azienda, che il disonesto direttore dei lavori Anselmo (Lulli) sta impoverendo; quest’ultimo, tuttavia, non ha alcuna intenzione di farsi da parte, e una volta sorpreso Guido in compagnia della donna amata elabora insieme alla contessa – che non vede di buon occhio un matrimonio interclassista – un piano per separare la coppia. Il conte viene perciò inviato all’estero con una scusa mentre, durante la sua assenza, Anselmo tenta di violentare Luisa spingendola così a fuggire dalla cava. Durante la fuga la giovane perde il proprio scialle, che finisce in un torrente, e i lavoranti della cava, che erano partiti in sua ricerca, una volta ritrovato l’indumento la credono morta. Ma Luisa ha invece trovato riparo in un casolare di campagna dove, mesi dopo, mette al mondo un bambino, frutto dell’amore tra lei e Guido. Quest’ultimo, che da tempo non ha più notizie dell’amata, torna di corsa in Italia e scopre l’inganno ordito dalla madre; tuttavia, dopo settimane di inutili ricerche, si rassegna anch’egli all’idea che Luisa sia morta. Gli unici a conoscere la verità sono invece la contessa e

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Anselmo, che hanno scoperto il nascondiglio della giovane e le portano via il bambino inscenando un incendio. Credendo che il figlioletto sia morto, Luisa prima medita il suicidio, poi decide di entrare in convento, dove prende il nome di Suor Addolorata: lì la verrà a trovare un’ultima volta Guido, che ha saputo che lei è viva solo ora che il loro amore è impossibile. Rassegnatosi, il conte sposa la sua pari Elena (Enrica Dyrell) e ha da lei una figlia (Rosalia Randazzo), mentre continua a essere all’oscuro dell’esistenza di Bruno (Enrico Olivieri), figlio suo e di Luisa, che è stato fatto allevare in un collegio svizzero dalla contessa. Giunto all’età di undici anni, il ragazzo si stufa di essere perseguitato dai compagni perché privo di genitori e, dopo avere scoperto una delle lettere con le quali Anselmo provvede al pagamento della sua retta, fugge dall’istituto e si reca a Carrara. Nel frattempo la contessa, da tempo malata, in punto di morte svela al parroco l’intenzione di riparare ai propri errori lasciando a Bruno il proprio patrimonio; ma la nuora Elena, che ha sentito la confessione, ruba il testamento e si accorda con Anselmo affinché questi continui a mantenere il segreto. Quest’ultimo ha trovato Bruno, gli ha mentito sulle sue origini – dicendogli che è un trovatello – e l’ha spedito a lavorare alla cava, dove continua a defraudare tanto i padroni quanto gli operai. Mesi dopo Guido va a fare un’ispezione insieme alla moglie e alla figlia: il cantiere è preda del malcontento e quando il conte, finalmente, licenzia Anselmo, quest’ultimo prende ad arringare gli operai e organizza un pericoloso attentato dinamitardo, del quale è a conoscenza anche il piccolo Bruno. Intanto la figlia di Guido ed Elena cade in uno stagno e rischia di annegare, ma viene salvata da Bruno, ignaro di essere suo fratello: commossa, Elena svela a Guido la verità ma il ragazzo, prima ancora che il padre possa riabbracciarlo, decide di tentare di evitare l’attentato, corre a spegnere la miccia e viene investito dall’esplosione. Mentre tutta la famiglia è china al capezzale del piccolo, arriva anche Luisa/Suor Addolorata, che fa appena in tempo a veder spirare il figlio. Nell’epilogo, la donna assiste al funerale del bambino dalle finestre sbarrate del convento, e dopo aver chiesto perdono alla Madonna, prende i fiori che adornano la sua statua e li lascia cadere sulla bara di Bruno, poi si accascia in preda al dolore.

Questa sinossi non può rendere conto della miriade di episodi che si incrociano nel film, nonché di numerosi personaggi secondari come Poldo (Alberto Farnese), mansueto operaio innamorato (ma non corrisposto) di Luisa, che tenterà nonostante tutto di salvare lei e il suo bambino; tuttavia è sufficiente per illustrare le differenze che intercorrono rispetto ai precedenti adattamenti del romanzo e della piéce. La versione del 1921, diretta da Ubaldo Maria del Colle, ha una durata di circa tre ore, è strutturata in tre parti – intitolate rispettivamente L’inferno bianco, Suor dolore e Balilla – ed è caratterizzata, rispetto all’opera di Rindi, da un’interpretazione assai più conflittuale dei rapporti di classe219. Gran parte del film è infatti dedicata alla rappresentazione del lavoro nelle cave, effettuata mediante sorprendenti riprese in esterni – che contrastano grandemente con le scenografie degli interni, visibilmente dipinte – e filtrata da un’iconografia di matrice verista che investe specialmente la raffigurazione dei “figli di nessuno” del titolo, i trovatelli che sopravvivono lavorando nella cava come gli adulti. Il film di Del Colle sottolinea più volte come la responsabilità delle terribili condizioni in cui versano i lavoranti – e dei frequenti incidenti in cui questi perdono la vita – non siano solamente di Anselmo, baffuto e crudele cattivo da melodramma che si arricchisce facendo la cresta sui materiali e pregiudicando così la sicurezza del cantiere, ma anche dei conti Carani, una classe padronale debole e disinteressata alle persone che danno la vita per arricchirla. In particolare il personaggio del conte, che qui si chiama Arnaldo, non ha alcun momento di riscatto e rimane un uomo vile, inerte, succube della madre e

219 Per un esame del rapporto tra le istanze sociali del film di Del Colle e dei lavori di Rindi si veda R

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completamente disinteressato al lavoro, incapace di amare davvero o di venire in aiuto della donna che ha sedotto o dei propri operai. Anche la caratterizzazione del figlio di Luisa, che qui si chiama Gualberto come nell’originale letterario, è coerente con l’atmosfera socialisteggiante del film: presentato inizialmente come un povero orfanello angariato dai compagni del collegio, il giovane fugge ogni notte per andare in una locanda a sentire un vecchio operaio che parla delle sopraffazioni di classe. In breve il ragazzo diviene il suo discepolo e viene ribattezzato dagli avventori “Balilla”, come il giovane iniziatore della rivolta antiasburgica di Genova del 1746. Quando successivamente va a lavorare alla cava, Balilla guida la ribellione dei lavoranti: i suoi discorsi sui pericoli insiti nel lavoro operaio vengono raffigurati da sequenze extradiegetiche, nelle quali si assiste a diversi esempi di incidenti sul lavoro – l’esplosione di una miniera per una fuga di grisù, una frana in una cava causata da una miccia troppo corta – attraverso una sintassi insolita per il cinema italiano dell’epoca. Sebbene il finale sia fedele all’opera di Rindi – volto quindi a dimostrare che la soluzione migliore per gli operai sarebbe una cava guidata contemporaneamente dal conte Arnaldo e dal piccolo Balilla, così che imprenditoria e istanze sociali andrebbero di pari passo – è tuttavia innegabile che il trattamento della materia acquisti in più momenti sfumature decisamente radicali, in linea con le simpatie socialiste della famiglia Lombardo e completamente assenti dal più moderato originale letterario. Sono proprio questi gli elementi che, per opportunità politica, vengono rimossi dalla già citata versione successiva, L’angelo bianco, diretta dal conte Antamoro e da Sinibaldi e uscita sei mesi prima della caduta del regime fascista: da questo secondo adattamento spariscono completamente la cava, i suoi lavoranti e Anselmo, in modo che la vicenda si concentri esclusivamente sulla dimensione amorosa. Luisa (qui ribattezzata Maria) diviene figlia del proprietario di un mulino, il che contribuisce a trasportare la prima parte della vicenda in un’atmosfera idillica e campestre, allontanando così da una dimensione storica i conflitti rappresentati. Tuttavia vi è un obliquo e patriottico riferimento al presente, nella sequenza in cui la protagonista, subito dopo aver preso i voti, va a fare per undici anni la missionaria in Africa orientale220: viene così introdotto un immaginario colonialista, che include bizzarre riprese on location di sabbie, tende e cammelli mescolate alle inquadrature – visibilmente realizzate in Italia – nelle quali compare la protagonista.

Il terzo adattamento realizzato dalla Titanus, sebbene molto più fedele all’originale letterario di quanto non fosse L’angelo bianco, rimodella invece le figure dei due protagonisti sulla base dei personaggi dei film precedentemente realizzati da Matarazzo per la compagnia: la giovane Luisa, per esempio, si trova in situazioni molto simili ad Anna, la protagonista di Tormento, un’altra donna che veniva allontanata dall’uomo che amava subito dopo il fidanzamento e alla quale veniva tolto anche il bambino che stava faticosamente crescendo da sola. Anche la contessa Carani, sebbene le venga concesso un momento di riscatto in punto di morte, conserva molti tratti che erano propri della perfida matrigna del film precedente, così come il piccolo Bruno ha più di un elemento comune con Tonino, il giovane figlio della coppia di Catene. I personaggi che subiscono il trattamento più interessante, rispetto all’originale letterario, si rivelano però essere il conte Guido e Anselmo, in quanto nelle discrepanze con la pagina scritta e soprattutto con gli adattamenti precedenti si può cogliere la chiave

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«Nel 1943 l’Italia aveva perso quasi tutte le colonie africane, conquistate dagli inglesi. Non stonava quindi la nota propagandistica a dimostrare che nelle colonie italiane avevano operato missionari e suore, per portare ai “barbari” la “luce” della civiltà e della religione. E Maria, divenuta Suor Francesca, si imbarca e trascorre ben undici anni in Africa, ad alleviare le sofferenze degli indigeni.» BALDI (1986, 125).

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ideologica sulla quale è giocato il film. Il conte Guido, rispetto al conte Arnaldo del romanzo e delle due precedenti versioni cinematografiche, non è più un aristocratico debosciato, bensì un uomo del suo tempo, interessato al lavoro – nel quale è estremamente competente – e alla ditta di famiglia, non certo a fregiarsi di un titolo che non sembra colpirlo particolarmente. Piuttosto che come membro di un’aristocrazia, l’uomo sembra comportarsi come il rampollo di una famiglia alto-borghese che ha le idee chiare su come dimostrare il proprio valore nella ditta paterna. A ciò si aggiunga il fatto che, fin dalle prime inquadrature, l’uomo manifesta inclinazioni filantropiche nei confronti dei propri lavoranti le cui sventure, in questo caso, sono dovute esclusivamente alla miope fiducia che la contessa madre nutre per il disonesto Anselmo. Guido rappresenta così un capitalismo illuminato, che però è tale solo in quanto ispirato dall’amore per una giovane che proviene dal popolo, come Luisa: quando infatti i due vengono separati per sempre, il conte inizia a manifestare un estremo distacco nei confronti della cava – che vuole chiudere – e per le rivendicazioni dei suoi operai. Un atteggiamento che sembra mutare soltanto dopo la scoperta di essere padre di Bruno. Quest’ultimo, a sua volta, non dimostra di avere sviluppato né la coscienza di classe del Gualberto-Balilla di Del Colle, né la generica abilità oratoria che permetteva all’originale letterario di fare il portavoce degli altri lavoratori: Bruno è presentato semplicemente come un ragazzino onesto e orgoglioso, ma non manifesta alcuna inclinazione al comando, e l’unica reazione che riesce a provocare nel padre è legata all’affetto filiale. La versione di Matarazzo sembra perciò essere la più fedele all’ideologia di base del testo teatrale, espressa attraverso il personaggio del curato Don Demetrio, il quale prima afferma che: «I veri, i soli nemici del progresso sono coloro che seminano gli odii di classe, perché ci hanno il loro tornaconto»221, poi aggiunge: «Chi lavora duramente e soffre ha d’uopo di trovare la dolcezza, l’indulgenza, l’affetto in chi paga e comanda»222. In altre parole, la soluzione alla conflittualità sociale va cercata in una forma di mediazione improntata a una dimensione esclusivamente passionale, ed eventualmente modellata su sentimenti propri della carità cristiana.

È sintomatico il fatto che, mentre Bruno in questa versione è quantomeno lontano dalla politica, l’unico a tenere un vero e proprio comizio sia invece Anselmo. La caratterizzazione di questo personaggio tiene conto di tutte le caratteristiche proprie del

villain del melodramma ottocentesco, a partire dall’aspetto vagamente animalesco (i

baffi, la corporatura tarchiata di Folco Lulli) per arrivare all’atteggiamento viscido e alla fluente eloquenza. Anselmo è responsabile di qualsiasi misfatto avvenga nel film, sia sul versante dei rapporti di classe – sono i suoi soprusi e le sue ruberie a scatenare il risentimento dei lavoranti nei confronti dei padroni – che su quello dei rapporti sentimentali tra i personaggi, in quanto egli è il responsabile materiale tanto dell’allontanamento di Guido, quanto della fuga di Luisa e del rapimento di Bruno. La malvagità del personaggio è tale da ridimensionare le colpe della contessa – che qui è decisamente un personaggio minore – della quale si serve per attuare i propri scopi: in questa versione infatti Anselmo mira addirittura a impadronirsi della cava, ricattando la madre di Guido e cospirando con personaggi equivoci. Perciò è particolarmente interessante il fatto che, una volta smascherato e cacciato da Guido, sia Anselmo a progettare l’attentato nel quale perderà la vita Bruno, nonché ad arringare i lavoranti – che lui stesso ha sfruttato fino a quel momento – e a spingerli alla rivolta contro il padrone.

La sintassi narrativa appare più frammentata che nel precedente Tormento: in questo caso la posizione di soggetto viene occupata da diversi attori, che si succedono

221 Rindi ([1915] 1992, 430. 222

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l’un l’altro nel corso del testo, mentre quella di antisoggetto è saldamente mantenuta da Anselmo. Lo scopo di quest’ultimo è di impadronirsi della cava tenendo disgiunti i diversi membri della famiglia Carani, Luisa e Bruno: in questo senso anche le trame della contessa – da lui manipolata – sono funzionali a fornire al sovrintendente le competenze necessarie a tenere lontano il pericoloso Guido dal cantiere. Sebbene Anselmo, nella parte finale, operi sulla dimensione pragmatica – come quando fa innescare la mina che distruggerà la cava, o quando tenta di fermare Guido per impedirgli di raggiungere e salvare Bruno – l’uomo agisce soprattutto a livello cognitivo, mediante inganni perpetrati sia in prima persona che in combutta con la contessa. La tragedia di Luisa, Guido e Bruno, i tre attori che occupano alternativamente la posizione di soggetto, consiste perciò nel non riuscire ad attuare un fare interpretativo che permetta loro di scoprire la verità e di rompere l’isolamento che li separa dalle persone amate: ciò vale per Luisa, che crede che Guido non le scriva più e l’abbia abbandonata; per Guido, che credendo morta la giovane smette di cercarla; infine per Bruno, che si accontenta della contraddittoria versione che Anselmo gli dà delle sue origini. Essendo questi personaggi incapaci di elaborare un programma narrativo che permetta loro di congiungersi con i rispettivi oggetti di valore, anche in questo caso è la dimensione passionale – specialmente per quanto riguarda il personaggio di Luisa – a regnare incontrastata. In quest’ambito, I figli di nessuno prosegue nella direzione tracciata da Tormento, almeno per quanto riguarda il ridimensionamento della dimensione canora, cui è concesso un solo breve sipario: infatti, sebbene questo sia l’unico film della trilogia a non essere tratto da una sceneggiata, viene comunque inclusa una sequenza modellata su quelle che nei film precedenti avevano come protagonista Roberto Murolo. Il piccolo Bruno, fuggito dal collegio per recarsi a Carrara, chiede un passaggio ad un camion e, una volta salito sul vano di carico, vi trova un altro viaggiatore munito di chitarra: si tratta di un musicista senza nome, interpretato da Giorgio Consolini, che di lì a poco esegue Mamma223. Prevedibilmente, la canzone provoca una profonda commozione nel ragazzo, che è appunto fuggito dal collegio nel tentativo di scoprire chi siano i suoi genitori; tuttavia, il découpage della sequenza è piuttosto misurato, più vicino alle riprese delle esibizioni canore di Tormento che a quelle di Catene, ed è incentrato su di un’alternanza tra i primi piani del camionista, che ascolta compiaciuto, dell’interprete e di Bruno il quale, sul finale del brano, fa il gesto di asciugarsi gli occhi con la manica del cappotto.

Altrove, la dimensione attrazionale e quella passionale si esprimono congiuntamente mediante sequenze di pianto in primo piano, affidate principalmente al personaggio di Yvonne Sanson, oppure attraverso complicate procedure intertestuali che fanno leva su di una presupposta cultura visiva di base del pubblico italiano. Nei casi relativi alla prima tipologia, in seguito a un evento traumatico, si registra un’infrazione della normale alternanza di primi piani e piani medi. Si può prendere come esempio il passaggio nel quale Luisa crede che il proprio figlioletto sia perito nell’incendio della capanna e di conseguenza, dopo aver meditato il suicidio, entra in convento. Il segmento inizia con un totale della campagna, immersa nelle tenebre e rischiarata dalle fiamme. Nella metà destra dell’inquadratura, Marta accorre trattenuta da due pastori: la donna alza le braccia al cielo e, guardando il casolare che brucia – che si trova alle spalle della macchina da presa – chiede gridando che venga salvato il bambino. All’improvviso, dal fondo della metà sinistra dell’inquadratura – completamente nera a causa dell’oscurità – sbuca in campo lunghissimo Luisa, che correndo raggiunge in pochi secondi Marta.

223 Canzone che appare per la seconda volta nella trilogia: come si è già detto, un suo arrangiamento

orchestrale accompagnava la scena di Catene nella quale a Rosa veniva brevemente concesso di rivedere la figlioletta.

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L’inquadratura successiva, in raccordo sul movimento, presenta la protagonista in primissimo piano, che con gli occhi fuori dalle orbite si porta le mani alla bocca spalancata ed emette un grido, mentre le mani dei pastori si stringono sulle sue braccia e all’improvviso arriva una dissolvenza in nero. Subito dopo, un’altra dissolvenza in apertura mostra una cascata ripresa dall’alto mentre, similmente, il concitato brano musicale a base di pianoforte e archi che ha accompagnato le due inquadrature precedenti sfuma e viene sostituito dal rumore dell’acqua. Questa ripresa della cascata inizia inquadrando lo strapiombo poi, con un lento movimento panoramico verso l’alto e a sinistra, fa entrare in campo Luisa che, a piedi nudi, si spinge sul ciglio roccioso con l’evidente intenzione di buttarsi. Nell’inquadratura successiva, un campo medio della donna in raccordo sull’asse, al rumore della cascata si accompagna il suono di un campanile: Luisa ode le campane e alza la testa, iniziando ad arretrare lentamente. Si torna al totale della donna sul bordo della cascata, quando un velocissimo movimento panoramico verso destra, tanto veloce da rendere l’immagine completamente confusa, va a soffermarsi sul campanile dal quale proviene la musica. In raccordo sull’asse, l’inquadratura successiva mostra un totale della chiesa, mentre un tenue accompagnamento musicale extradiegetico di arpe e violini si accompagna al suono delle campane. Parte un movimento panoramico verso il basso e verso sinistra, che va a inquadrare Luisa la quale, in campo lunghissimo, incede verso la porta di un convento posto a fianco della chiesa. In raccordo sull’asse la donna, ora a figura intera, bussa e viene fatta entrare da una suora. La chiusura della porta è accompagnata da una nuova dissolvenza in nero.

Al pari di Tormento, anche questo il film privilegia un linguaggio privo di particolari interventi di regia o di arditi stacchi di montaggio, ma, come nel caso appena citato, questa medietas espressiva può subire degli strappi in coincidenza di situazioni di