• Non ci sono risultati.

Cap I.: Il melodramma Quadro teorico

I.1. La prima formulazione della teoria del melodramma

Gli interventi di Merritt e Neale dimostrano perciò come il significato corrente del termine, così come è attestato all’interno degli studi di carattere cinematografico o nel discorso critico, sia piuttosto recente e sia frutto di un’operazione critica iniziata al di fuori dell’ambito cinematografico nella seconda metà degli anni ’60: un periodo nel quale si assiste, nell’area anglosassone, al fiorire degli studi incentrati sul melodramma teatrale vittoriano136 nel quadro di una generale riconsiderazione dei fenomeni legati alla cultura popolare. A ciò va aggiunta la rivalutazione critica del regista Douglas Sirk, operata prima in Francia sulle pagine della rivista «Cahiers du Cinéma»137 (nel 1967), poi in Gran Bretagna su quelle di «Screen»138 (nel 1971) e sugli schermi dell’Edinburgh Film Festival (nel 1972). È in questo milieu che prende forma la proposta teorica di Elsaesser (1972), il primo e più celebre saggio sul melodramma cinematografico: qui lo

134

SALA (2007,114).Nel presente volume, per evitare confusione, si userà il termine “melodramma” per fare riferimento al mélodrame europeo ottocentesco e al genere cinematografico, e il termine “opera” per fare riferimento al teatro lirico.

135 Allo stesso modo di un altro genere dalla genesi complicata e soprattutto frutto di un’operazione critica

condotta a posteriori, quale è il film noir. Cfr. NEALE (2000,§4e5).

136 In proposito si vedano i capitoli dedicati al melodramma in B

ENTLEY (1966) e CORRIGAN – ROSENBERG (1964).

137 Cfr. D

ANEY – NOAMES (1967) e COMOLLI (1967).

138

89

studioso tratta il “melodramma” come una categoria trans-storica e intermediale, che discende dai morality play medievali e dalle fosche Bänkellied (canzoni da organetto germaniche) del XVII secolo, trova poi la sua principale formalizzazione nel romanzo sentimentale pre-rivoluzionario del XVIII secolo (come Clarissa di Richardson o La

nouvelle Héloise di Rousseau) e nel teatro romantico francese, per poi condizionare le

forme sia del romanzo realista di Balzac o Dostoevskij, che del cinema muto europeo e americano. Le sue caratteristiche, almeno in ambito cinematografico, includono il continuo ricorso all’eccesso nella messa in scena, l’appello all’interiorità e alla dimensione sentimentale dei personaggi, così come un utilizzo enfatico delle musiche, un elemento quest’ultimo che è iscritto nella stessa etimologia del termine (dal momento che la radice mélos rimanda al canto, perciò al dramma cantato). Nelle parole di Elsaesser:

Come codice espressivo il melodramma potrebbe dunque venire descritto come una particolare forma di mise-en-scène drammatica, caratterizzata da un uso dinamico delle categorie spaziali e musicali, opposte a quelle intellettuali o letterarie139.

Benché l’idea di eccesso spettacolare sia già implicata dall’utilizzo che viene fatto delle categorie musicali, che aggiungono enfasi all’azione contribuendo così a oltrepassare le soglie della verosimiglianza, anche tutti gli altri elementi della messa in scena concorrono allo stesso scopo, così che

le qualità stesse di questo tipo di cinema dipendono dai modi in cui si dà ‘melos’ al ‘drama’ attraverso il montaggio, le luci, il ritmo delle immagini, l’ambientazione, lo stile di recitazione, la musica – cioè dei modi usati dalla regia per tradurre il personaggio in azione (non diversamente dal romanzo prima di James) e l’azione in gesto e in spazio dinamico (similmente all’opera e al balletto del XIX secolo)140.

Il melodramma cinematografico raggiunge il suo massimo splendore con i melodrammi familiari della tarda Hollywood classica, in particolare con quelli diretti da Douglas Sirk, Vincente Minnelli o Nicholas Ray. Si tratta di lavori caratterizzati, sul piano tematico, da conflitti che oppongono padri e figli in un universo domestico opprimente, rappresentato a livello della messa in scena attraverso la preferenza per interni chiusi dal décor sovraccarico. Tali conflitti non esplodono quasi mai direttamente, ma sono espressi per via metaforica mediante la colonna sonora e soprattutto attraverso l’uso del colore in funzione antinaturalistica; inoltre, a livello di

découpage e di struttura del racconto, questi film sono caratterizzati da un ricorso

sistematico alla contrapposizione tra continuità e discontinuità, così che

la continuità della narrazione della storia è accompagnata dalla discontinuità visiva (cambiamenti di angolazione, campo lungo, primo piano, controcampo, travelling ecc.: anche un cattivo regista avrà imparato come variare la ripresa il più possibile per interrompere una scena statica, per esempio in un dialogo). Più difficile da manipolarsi è la discontinuità a livello della trama (ellissi) che è spesso collegata a una continuità visiva, più o meno ovvia e sottile, per esempio un movimento di macchina seguito da una ripresa in profondità, da una dissolvenza o da qualsiasi altra tecnica di montaggio capace di creare catene di associazione metonimica. Infine ci sono continuità e discontinuità strutturali e dinamiche (che Sirk ha chiamato «ritmo dell’intreccio») che si definiscono meno facilmente141.

139 E LSAESSER ([1972]1992,80). 140 E LSAESSER ([1972]1992,85). 141 ELSAESSER ([1972]1992,96).

90

Musiche, messa in scena, colore, découpage e struttura narrativa sono quindi improntati a un eccesso che si autodefinisce in quanto opposizione alla norma del linguaggio classico del cinema americano, il quale sarebbe viceversa votato al realismo e alla trasparenza. Sul piano dei significati, quest’insieme di procedure corrisponde a due esigenze differenti ma interrelate, di matrice psicanalitica e ideologica: Elsaesser parte dalla distinzione, operata da Freud a proposito dell’interpretazione dei sogni, tra materiale onirico manifesto e contenuto onirico latente, per dimostrare come, attraverso la rappresentazione di ambienti e vicende borghesi, questo cinema mette a nudo le paure e le contraddizioni interne della classe dominante statunitense. Questo “rimosso”, questa dimensione inconscia, emerge attraverso il non detto, attraverso le scelte della messa in scena che assolvono contemporaneamente a una dimensione ideologica – in quanto sono improntate a una continua infrazione del linguaggio classico – e fungono da contrappunto ironico ai contenuti espliciti della narrazione, dei quali criticano implicitamente gli assunti: un meccanismo che è particolarmente visibile nei “falsi”

happy ending di Sirk, che in genere sono talmente improvvisi e implausibili da ribadire,

nonostante lo scioglimento euforico dell’intreccio, le contraddizioni che l’avevano preceduto.

In questo senso, la funzione svolta dal linguaggio del melodramma familiare americano è simile a quella dello straniamento brechtiano – in quanto permette di cogliere le contraddizioni di una classe e di una società attraverso gli strappi operati nel tessuto dell’illusione scenica – benché si tratti di un risultato ottenuto, diversamente che nel teatro epico, mediante una dimensione patemica debordante invece che per sottrazione. Tuttavia, è bene sottolinearlo, si tratta di un’operazione condotta a livello inconscio, senza che, almeno per quanto riguarda le società produttrici dei film, vi sia una volontà esplicita di commento sociale.

Elsaesser, nel momento in cui tratteggiava le linee della sua teoria del melodramma, era pienamente inserito nel paradigma culturale dell’epoca, che da una parte vedeva estendersi in tutte le scienze umane il primato della critica di matrice marxista e il successo sempre crescente della psicanalisi applicata ai prodotti culturali, dall’altra vedeva diffondersi anche nei film studies anglosassoni il concetto di politique

des auteurs e l’interesse per il cinema hollywoodiano portati avanti dalla critica francese

del decennio precedente. Così lo stesso autore, in un saggio di 35 anni dopo, rievoca le radici delle sue posizioni:

Una premessa non esplicitata, ma chiaramente sottintesa nel mio saggio, era la convinzione che il filone principale del cinema di Hollywood potesse avere un atteggiamento “critico”, e non solo compiacente, nei confronti del sogno americano. Fino ad allora, una certa potenzialità sovversiva era stata associata per lo più a opere di auteurs in buona fede. […] Il mio obiettivo di critico – e di cinefilo partigiano di Hollywood – fu di adottare una posizione “contro-intuitiva”, affermando la presenza di una contraddizione nel cuore stesso del cinema americano. […] Il melodramma si differenziava dall’avanguardia, tradizionalmente intesa, perché faceva appello alle emozioni (in opposizione allo straniamento brechtiano) e perché si affidava alla narratività (in opposizione ai principi epici, anti-aristotelici, o “parametrici”). Il melodramma, però, si opponeva anche al realismo – sia all’idea brechtiana di realismo, per l’uso spudorato di illusionismo e spettacolarizzazione (a quei tempi, la strategia politicamente corretta era l’anti-illusionismo), sia al neorealismo, perché si avvaleva di attori professionisti, riprese in studio, illuminazione codificata, schemi cromatici, musica romantica e scenografie manifestamente finte anche per gli ambienti naturali142.

L’operazione critica condotta da Elsasser nei primi anni ’70 era perciò coerente con i primi passi compiuti dalla teoria del genere cinematografico di matrice ideologica,

142

91

apparsa in ambito anglosassone agli albori del decennio. Klinger ([1984] 2003) riconduce la sua nascita all’apparizione sulle pagine della rivista «Screen» della traduzione di un articolo di Comolli e Narboni intitolato Cinéma/Idélogie/Critique, apparso nel 1969 sulle pagine dei «Cahiers du Cinéma»143, un saggio incentrato sull’applicazione nell’ambito della critica cinematografica delle teorie di Louis Althusser. Secondo il filosofo marxista, l’arte entra in una relazione particolare con l’ideologia che l’ha prodotta: sebbene infatti il suo lato sensibile trasmetta in maniera pressoché immediata e trasparente l’ideologia dalla quale discende – che viene così recepita dal fruitore a livello inconscio – certe opere permettono invece al critico, a causa di uno strappo interno al tessuto della rappresentazione, di conoscere e studiare proprio quei contenuti che in altri casi vengono assorbiti inconsapevolmente. L’articolo di Comolli e Narboni consiste quindi in un repertorio dei possibili approcci all’ideologia che sono caratteristici di diversi modelli cinematografici, raggruppati in sette categorie che vanno dalla totale rottura al semplice rispecchiamento. Di queste categorie due, classificate come “a” ed “e”, riguardano il cinema hollywoodiano: la “a” corrisponde ai film che adottano in pieno il linguaggio classico, identificato con quello dell’ideologia dominante e caratterizzato da quello un grado zero della scrittura cinematografica, ovvero da un linguaggio trasparente nel quale tutto (découpage, messa in scena, sceneggiatura, recitazione) contribuisce al mantenimento dell’illusione rappresentativa. La categoria contrassegnata con la lettera “e” corrisponde invece a quei film che, sebbene «sembrino supportare quell’ideologia che condiziona la loro stessa esistenza, ne ostacolano una diretta espressione mediante la produzione di rotture, motivate da esigenze formali, nella vernice delle sue stesse premesse»144, e quindi lasciano percepire direttamente quegli stessi sottintesi ideologici che gli altri film tentano di nascondere. Appare perciò evidente anche ai lettori di «Screen» come certi prodotti dell’industria culturale hollywoodiana possano svolgere la funzione auspicata da Althusser: si scatena così la caccia a quello che Klinger chiama testo “progressista”, un particolare tipo di prodotto di Hollywood che si contrapporrebbe al cinema classico in base all’opposizione “discontinuità/continuità” – operante sia a livello visivo che a livello narrativo – ma anche in base a categorie tematiche come la presenza o meno di una visione pessimistica, l’attitudine manifestata nei confronti delle autorità e infine la tendenza o meno a privilegiare il singolo episodio rispetto alla totalità della narrazione. Tra gli esempi più celebri citati da Klinger in questo contesto vi sono gli scritti di Wood (1979) a proposito del genere horror o quelli di Cook (1976) a proposito del cinema di serie B, ma è evidente come un posto di rilievo all’interno di questa produzione sia occupato in particolare dal testo di Elsaesser del 1972.

In ambito cinematografico, perciò, il genere melodrammatico è un costrutto relativamente recente il quale risponde a esigenze che in parte esulano dalla storiografia del cinema, ma piuttosto affondano le radici nella critica di matrice ideologica. Ciò spiega il valore di provocazione assunto dal testo di Elsaesser e ridimensiona i suoi difetti, riconducibili principalmente alla tendenza a concentrarsi su di un numero estremamente circoscritto di film – tutti realizzati attorno al decennio ’50 – e alla vaghezza con la quale viene tratteggiata la genealogia del genere, che copre in maniera piuttosto confusa un arco di circa quattro secoli.

143 Cfr. C

OMOLLI – NARBONI J. (1969). La traduzione è apparsa su «Screen», XII, 1, Spring 1971, 27-36: è assai significativo che si tratti del numero che precede lo speciale su Sirk sopra citato.

144

92