Cap IV: Per un mélo-noir post-matarazziano: la fascia medio-bassa del melodramma Titanus
IV.4. Il secondo mélo noir di Brignone: Bufere
Nel 1953 Lombardo decide di far uscire ben tre melodrammi: oltre a Noi peccatori arrivano nelle sale anche Bufere (uscito appena due mesi prima) e Legione straniera. Si tratta della prima stagione nella quale Matarazzo non realizza un film per la compagnia, e questo spiega almeno in parte il perché l’opera di Brignone di cui si è appena parlato ricalchi così pesantemente il modello della trilogia del regista napoletano, salvo seguire l’esempio di Menzogna integrando una serie ancora maggiore di elementi semantici provenienti dai cicli noir prodotti dalla Lux e dai suoi due fuoriusciti, Ponti e De Laurentiis. Bufere, tuttavia, rappresenta un esperimento completamente opposto, il tentativo – non perfettamente riuscito – di conservare il legame tra melodramma e noir liberandosi però di buona parte dei lasciti matarazziani: è significativo in questo senso il fatto che, con ogni probabilità, i due film siano stati girati a pochissima distanza l’uno dall’altro, come se Lombardo volesse al contempo realizzare un film che puntasse sul sicuro e un altro che aprisse nuove strade. Il film verrà perciò analizzato nel dettaglio, in quanto esempio utile a evidenziare una possibile strada che le produzioni Titanus avrebbero potuto intraprendere all’interno del genere, ma alla quale poi hanno preferito rinunciare.
Sinossi: Antonio (Jean Gabin), un affermato chirurgo, è docente al policlinico di
Perugia e ha la possibilità di concorrere alla prestigiosa cattedra di Bologna. Il lavoro è il suo unico interesse, oltre all’affetto della moglie Maria (Carla Del Poggio) e del figlio Mario (Enrico Olivieri), nonché all’amicizia del veterinario Amedeo (Paolo Stoppa). Una sera, per accontentare il figlio, Antonio si reca con la famiglia a teatro per assistere a uno spettacolo circense, la cui maggiore attrazione è costituita da due acrobati, i fratelli Daisy (Silvana Pampanini) e Sergio Parnel (Serge Reggiani), che compiono mirabolanti evoluzioni al trapezio senza usare la rete di protezione. Al culmine del loro numero, tuttavia, si verifica un tragico incidente che viene provocato, forse intenzionalmente, da Daisy. Sergio si schianta al suolo e viene immediatamente soccorso da Antonio, l’unico medico presente in sala, che lo fa portare nella clinica dove lavora e lo opera immediatamente, riuscendo così a salvarlo dalla morte e dalla paralisi: tuttavia, la guarigione sarà lenta e l’acrobata dovrà per lungo tempo indossare un busto e camminare con l’ausilio di due bastoni. Dopo l’operazione, Daisy va a trovare Sergio, che la accusa di aver tentato di assassinarlo: da come si rivolgono l’uno all’altra si intuisce che non sono fratelli, ma amanti. Passano le settimane: Sergio ha ripreso a camminare e Daisy va insistentemente a trovare Antonio nel suo ufficio. Il medico si dimostra infastidito, ma quando la donna improvvisamente lo bacia, rimane interdetto. Poco tempo dopo, i due si allontanano in macchina dalla città e vanno ad abbracciarsi in un bosco.
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I due amanti continuano a vedersi: di pomeriggio si ritrovano in una camera d’albergo in campagna, di sera ritornano alle rispettive abitazioni. Daisy torna alla camera d’albergo che – all’insaputa di Antonio – continua a condividere con Sergio, il quale sospetta che lei abbia una relazione ed è roso dalla gelosia. Il medico torna invece al desco familiare, dove si dimostra scostante con la moglie e soprattutto col figlio Mario, il quale sostiene di aver visto la macchina del padre davanti a un albergo mentre tornava da una gita scolastica ad Assisi destando i sospetti di Maria.
Nel frattempo, nella camera di Parnel, Daisy si sta preparando per uscire, mentre Sergio svolge con sofferenza gli esercizi ginnici necessari alla propria riabilitazione. I due hanno un violento alterco, in quanto lui ha ormai capito che lei lo tradisce, lei lo ammette candidamente e continua a provocarlo, fino a che lui non arriva a percuoterla. Sergio decide allora di affrontare il proprio rivale e si presenta a casa del dottore: gli svela la vera natura del proprio rapporto con Daisy, di come lui l’avesse trovata nei bassifondi di Budapest all’interno di un postribolo e di come non fosse mai riuscito a lasciarla nonostante i numerosi tradimenti. Sebbene Antonio lo scacci stizzito, le parole di Sergio lo hanno ferito, così che confessa alla moglie la propria relazione e le dice che è finita.
Tempo dopo, la famiglia è di nuovo unita: Maria è tornata serena e Antonio ha ripreso a dimostrarsi affettuoso nei confronti del figlio, che è preoccupato per l’operazione che un suo compagno di scuola sta per subire ma ha fiducia nel padre. L’idillio si rompe quando Daisy si ripresenta nell’aula dove Antonio sta facendo lezione. Nonostante il medico la tratti con disprezzo, la donna ha deciso di riprenderselo e afferma che non c’è nulla che lui possa fare per tenerla lontana. Infatti, in breve i due riprendono a incontrarsi nella solita camera d’albergo, dove progettano la loro partenza da Perugia.
Dopo un mese che Antonio non torna a dormire a casa, Maria decide di partire insieme al figlio, ma una volta in stazione viene raggiunta da una telefonata dell’amico Amedeo: Antonio – che non riesce più a concentrarsi sul proprio lavoro – ha fallito l’operazione del giovane amico del figlio, e sconvolto per la sua morte ha deciso di dare le dimissioni.
Maria torna allora a casa insieme al figlio, allo scopo di convincere Antonio a non lasciare la professione: lì trova Daisy, intenta a fare le valigie insieme ad Antonio. Questi dice all’amante di aspettarlo in macchina e affronta la moglie, che lo implora di ripensarci. Lui le dice che non sa cosa lo spinga a stare con la propria amante, la quale forse lo odia: si tratta di una cosa alla quale non riesce a rinunciare. Sentendo quelle parole, Maria si precipita fuori e si mette alla guida dell’auto nella quale aspetta Daisy: guidando sempre più veloce, cerca di convincerla a lasciare Antonio, offrendole anche del denaro, quando a causa della folle velocità l’auto esce di strada. Arrivato sul luogo dell’incidente, Antonio trova il cadavere di Daisy e Maria ferita, che viene portata in clinica. Nella sala d’aspetto, Amedeo e Mario attendono in fibrillazione, quando Antonio esce dalla sala operatoria e abbracciando il figlio gli dice che sua madre vivrà.
Bufere si presenta come un film eccentrico rispetto al quadro che è stato sin qui
delineato. In primo luogo, a differenza delle opere finora esaminate, non si tratta né di una sceneggiatura originale né di un adattamento da repertori cari al pubblico popolare come la sceneggiata: il film è invece tratto da un testo teatrale del 1912 di Sabatino Lopez. Il critico e drammaturgo livornese era specializzato in un teatro che, sebbene appartenesse ai primi del novecento, tendeva a rifiutare le innovazioni della drammaturgia contemporanea per affondare le radici nell’estetica verista del secolo
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precedente; tuttavia, come in questo caso, ambientava le proprie opere preferibilmente all’interno di un contesto sociale borghese, piuttosto che in quello popolare. Anche il film di Brignone è imperniato sulla raffigurazione di un milieu sociale completamente diverso dal mondo popolare in cui sono prevalentemente ambientate le opere di Matarazzo. Infatti, anche se ne I figli di nessuno o in Tormento compaiono personaggi e spazi propri alle classi nobiliari o alto-borghesi, questi ultimi vengono tuttavia inseriti in un sistema teso a contrapporre i protagonisti – i quali o provengono da un ceto inferiore, oppure attraversano un percorso di degradazione sociale – agli esponenti di una upper
class rosa dalla corruzione e dalla malvagità: un meccanismo che, come si è visto, viene
riproposto anche all’interno di Menzogna. Bufere invece rinuncia a questa esplicita rappresentazione – invero superficiale e populista – dei rapporti di classe, per concentrarsi invece sulla borghesia di provincia: ciò tuttavia non impedisce, come si vedrà, che le dinamiche in atto siano più meno le stesse viste all’opera nei film precedentemente analizzati.
Inoltre, con Bufere si ha un melodramma incentrato principalmente su di un personaggio maschile, il che costituisce un’altra notevole infrazione rispetto alle regole impostate dal ciclo di Matarazzo. Il protagonista, il dottor Antonio Sanna, è interpretato da Jean Gabin: un attore di estremo prestigio – per quanto anziano, è un divo di fama internazionale – con il quale non possono competere né Amedeo Nazzari, né tantomeno il misconosciuto Barcley. Si tratta di un elemento che evidenzia tanto l’intenzione di puntare in alto dal punto di vista del cast impiegato, quanto la volontà di realizzare un prodotto facilmente esportabile238. Il cognome del personaggio ha una forte connotazione regionale, sebbene nessuna battuta di dialogo del film faccia riferimento a una sua possibile condizione di sardo trapiantato a Perugia: si tratta di una delle più importanti differenze rispetto al testo di Lopez, dove questo dato viene invece enfatizzato fin dalla prima scena. Nel dramma, infatti, lo stesso nome del protagonista, un più impegnativo “Antonicu Sanna Branca”, denuncia un’origine che pesa sulle sue azioni come un destino, secondo un determinismo proprio della letteratura di matrice naturalista: il personaggio afferma infatti a più riprese di essere chiuso e taciturno come è costume dei suoi corregionali, mentre in seguito individua nella troppo sobria giovinezza, vissuta a Bitti, il movente della sua infatuazione per una donna di facili costumi. Piuttosto che dalle proprie origini il protagonista della versione cinematografica è invece caratterizzato dalle sue capacità lavorative: le prime due sequenze mostrano infatti Antonio svolgere la sua mansione di docente universitario e, soprattutto, di chirurgo infallibile. Qui il personaggio dapprima tenere una lezione di fronte a una platea di studenti di medicina – occasione nella quale si dimostra al tempo stesso sollecito con i pazienti e accomodante con gli studenti, sebbene questi abbiano richiesto un consulto che non era necessario – poi sostenere un colloquio con il prefetto locale, che lo informa del fatto che sono state richieste indagini su di lui in quanto è stato candidato alla prestigiosa cattedra di Bologna. Il fatto che Antonio svolga la professione di chirurgo, sebbene fosse un aspetto centrale anche del dramma di Lopez, permette al film di legarsi a una tradizione presente all’interno del melodramma internazionale, così come a precedenti interni al cinema italiano.
Presentando le caratteristiche di base del genere, nell’introduzione del suo volume sul melodramma, Landy (1991, 14) sottolinea infatti come all’interno di esso la presenza di medici e psichiatri sia un topos consolidato. In proposito si possono citare esempi celebri che risalgono fino al primo decennio del sonoro: Al di là delle tenebre (Magnificent Obsession, 1935, che come molti altri film di John M. Stahl sarebbe
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avrebbe avuto in seguito un più celebre rifacimento ad opera di Douglas Sirk) racconta la storia di un uomo (Robert Taylor) che, dopo aver causato involontariamente la cecità di una giovane donna – nonché la morte del marito di lei – decide di diventare chirurgo per restituirle la vista; inoltre, con La figlia perduta (Internes Can’t Take the Money, Alfred Santell, 1937), prende il via la fortunata serie cinematografica dedicata al personaggio del Dr. Kildare. Il personaggio, creato dallo scrittore Max Brand239, sarebbe stato poi protagonista di altri nove film, per lo più interpretati da Lew Ayres e diretti da Harold S. Bucquet, all’interno dei quali il genere melodrammatico cui è legata la serie si fonde spesso con elementi tratti dal poliziesco: ne La figlia perduta, ad esempio, il protagonista (Joel McCrea) tenta di aiutare una paziente di cui si è innamorato (Barbara Stanwyck) a riabbracciare la figlia che è finita nelle grinfie di un gangster. Non è un caso che una figura semantica come quella del chirurgo riesca a travalicare i generi e a rappresentare un punto di contatto tra il melodramma e il crime
movie: essa permette infatti di attivare immediatamente un corollario iconografico e una
serie di situazioni narrative che possono essere legate in vari modi al contesto nel quale viene inserita. In primo luogo, le operazioni chirurgiche sono altamente “fotogeniche”: permettono al pubblico di ammirare la tecnologia della moderna scienza medica penetrando all’interno di spazi che sono normalmente interdetti ai non addetti ai lavori. In questo senso, l’operazione diviene di per sé un elemento di attrazione per il pubblico: non solo in quanto artificio narrativo utile ad attivare tensione e curiosità nei confronti della riuscita o meno dell’intervento, ma anche grazie alla possibilità di giocare sulla fascinazione esercitata dai macchinari e dalla potente illuminazione che si rende necessaria in un ambiente chiuso e asettico. Questo aspetto è riscontrabile tuttora – si pensi alla spettacolarità delle operazioni chirurgiche sulle quali è imperniato il tv drama
E.R. (1994-2009) – così come lo era negli anni ’30: si veda in proposito la moderna e
scintillante clinica Art Decò nella quale si svolge l’azione de La figlia perduta.
Lo stesso cinema italiano non è rimasto insensibile, seppure sporadicamente, a tale fascinazione: è il caso di un film di particolare interesse, un melodramma del periodo bellico diretto da Mario Mattoli, il già citato Labbra serrate (1942). Si tratta della terza e penultima pellicola della serie intitolata “I film che parlano al vostro cuore”, che comprende anche Luce nelle tenebre (1941), Catene invisibili (1942) e
Stasera niente di nuovo (1942). Questa serie contribuì a lanciare Alida Valli (non
presente, però, in Labbra serrate) e costituisce una delle esperienze più importanti del melodramma italiano prebellico. Labbra serrate narra la storia di Carlo, il giovane rampollo di una ricca famiglia che trascura gli studi per frequentare cattive compagnie, tra cui una duchessa straniera di facili costumi; Anna, la sorella del giovane, che studia per diventare medico e assiste le operazioni di un chirurgo in una grande clinica, convince il fidanzato Ruggero, un valente avvocato, a far desistere il giovane. L’avvocato, però, conosce bene la presunta duchessa, del cui fascino era stato vittima in passato: si presenta perciò nell’appartamento della donna per intimarle di lasciare la città – lei ha dei conti in sospeso con la legge e lui minaccia di svelare alla polizia la sua vera identità – ma nell’uscire dall’edificio viene visto da Carlo. Quando, quel giorno stesso, la donna viene trovata strangolata nel proprio appartamento, si ingenera un equivoco: Carlo, il cui legame con la vittima era universalmente noto, viene arrestato in quanto principale sospettato e questi, credendo che l’assassino sia in realtà Ruggero e non volendolo denunciare per amore della sorella, ammette tutte le accuse. A sua volta
239 Pseudonimo di Frederick Schiller Faust. Ironia della sorte, il prolifico scrittore – dalle cui opere sono
stati tratti molti altri adattamenti cinematografici, come Partita d’azzardo (Destry Rides Again, di George Marshall con James Stewart e Marlene Dietrich, 1939) – morì nel 1944 proprio in Italia, dove si trovava in qualità di corrispondente di guerra al seguito delle truppe americane.
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Ruggero, che non crede alla colpevolezza di Carlo, è costretto a rivestire la carica di pubblico ministero nel procedimento contro di lui: avvierà allora delle indagini private, grazie alle quali scoprirà il vero colpevole.
Il film, relativamente al discorso che viene qui portato avanti, contiene tre elementi di interesse. In primo luogo, la dinamica dell’equivoco ricollega il film a
Catene, soprattutto per il fatto che Carlo, come la Rosa del film di Matarazzo, per
proteggere qualcun altro deve fingersi colpevole di fronte ad un tribunale: ciò evidenzia come, sebbene Catene prescindesse dalle dinamiche del melodramma prebellico per ricollegarsi a tradizioni spettacolari come la sceneggiata o viceversa alla contemporanea temperie neorealista, vi siano comunque degli elementi che legano quel film al cinema della prima metà degli anni ’40. In secondo luogo il coté medico, che è totalmente marginale e potrebbe tranquillamente essere espunto dalla sinossi, riceve sul piano visivo un trattamento di notevole importanza. Nella prima parte del film nasce infatti la simpatia fra Ruggero e Anna: l’avvocato accompagna la giovane al lavoro, che lei svolge in una clinica in qualità di assistente di un chirurgo, e una grande attenzione viene dedicata alle riprese dell’intervento al quale partecipa la donna. Lontano dalle atmosfere popolari dei melodrammi postbellici, il film di Mattoli si fonda sul fascino esercitato dalla professione forense e da quella medica: un fascino simile a quello veicolato dal contemporaneo cinema americano e che si ritroverà intatto nel film di Brignone del quale ci si sta occupando. Infine, Labbra serrate infarcisce una sintassi propria del melodramma – è incentrato su di un equivoco e sulla persecuzione di un innocente, ponendo un’attenzione maggiore alle dinamiche sentimentali tra i personaggi che alla risoluzione dell’enigma o all’elemento della detection – con una serie di elementi semantici che rimandano al cinema o alla letteratura criminale americani: il film si apre infatti su di un incontro di boxe che si tiene in un locale malfamato e periferico, al quale assistono Carlo, un suo amico e la falsa duchessa; inoltre in alcune sequenze vengono presentate delle vedute notturne della metropoli e il personaggio della vittima, una femme fatale che sfrutta gli uomini per poi liberarsene e che fa una brutta fine, ricorda figure analoghe del cinema americano. La presenza di questi elementi è particolarmente interessante, dal momento che si tratta di un film realizzato a quattro anni dal ritiro delle majors statunitensi dal mercato italiano, ma anche perché questo dato può parzialmente ridimensionare la teoria secondo la quale l’introduzione di spazi o caratteri tipici del cinema poliziesco americano all’interno del cinema nazionale sarebbe un fenomeno esclusivamente postbellico.
Il contesto che è stato fin qui illustrato può aiutare a chiarire il senso dell’operazione che sta dietro a Bufere. Ci si potrebbe chiedere infatti cosa abbia spinto la Titanus ad andare a ripescare un dramma naturalista di inizio secolo: ebbene, il testo di Lopez offre in primo luogo l’opportunità di giocare sull’attrazione esercitata nei confronti del pubblico dalla professione medica, sulla quale faceva parzialmente leva lo stesso Noi peccatori: in quel film, prima di diventare una chansonnier, la Sanson era infatti l’infermiera, e la seconda parte della pellicola gravita attorno all’operazione che dovrebbe ridare la vista a Steve Barcley. In secondo luogo, la professione medica viene contestualizzata all’interno di un ambito alto-borghese: i melodrammi Titanus del 1952 non entrano nella top ten degli incassi e può darsi che Lombardo avesse attribuito l’insuccesso ad un eccessivo sfruttamento del coté popolare – d’altra parte anche il successivo film di Matarazzo, Torna!, è ambientato nell’alta società240. Infine, con la sua femme fatale ante litteram, il dramma di Lopez permette di fondere il melodramma
240 Questa considerazione, ovviamente, non vale per la commedia: il 1953 è l’anno di Pane, amore e
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con il noir seguendo la tendenza inaugurata da Menzogna ma rifacendosi comunque a formule collaudate ancora prima della guerra.
Infatti, come accedeva in Menzogna, anche in Bufere c’è una protagonista femminile che trasferisce sul piano figurativo il ruolo tematico della prostituta: Daisy Parnel, la quale, a differenza della nobildonna interpretata da Yvonne Sanson, è però presentata come un personaggio completamente negativo. Sebbene ci siano delle lievi differenze (nel testo originale si chiamava Cora), il personaggio viene presentato in maniera sostanzialmente analoga nel film come nel dramma. In primo luogo, in entrambi i casi vengono messi in luce l’origine straniera l’assenza di radici della donna come un indice della sua pericolosità. L’Antonicu letterario ascoltava infatti disgustato il racconto delle passate relazioni di Cora, testimoniate dai numerosi pegni d’amore che la donna si portava appresso: un veneziano conosciuto a Corfù, un’«amica del circo di Odessa […] una incantatrice di serpenti [che] aveva incantato anche me»241 e, secondo una progressione climatica dal più accettabile al maggiormente intollerabile – per il pubblico dell’epoca – «un arabo. Brutto, molto brutto; un nano, con una gran testa ricciuta»242. Nella versione cinematografica l’omosessualità femminile svanisce a favore di un potenziamento della dimensione razziale: innanzitutto la stessa Daisy, le cui origini nella versione teatrale sono incerte, ha secondo Antonio un aspetto levantino,