Cap IV: Per un mélo-noir post-matarazziano: la fascia medio-bassa del melodramma Titanus
IV.3. Il primo mélo-noir di Brignone: Noi peccatori.
Se si può dire che un vero e proprio genere noir italiano non sia mai esistito, non si può negare che il cinema nazionale prodotto tra la seconda metà degli anni ’40 e, soprattutto, la prima metà degli anni ‘50 abbondi di film che fanno riferimento a quell’immaginario, che era da poco stato introdotto anche sugli schermi italiani grazie alla ripresa delle importazioni da Hollywood. Non è invece del tutto corretto affermare che
se, in un certo gruppo di film italiani, troviamo stilemi chiaramente attinenti al noir, in una quantità tale da poter per molti versi, definire queste opere ‘film noir’, allora possiamo essere certi di almeno due cose: che questi film non hanno una radice ispirativa italiana (dal momento che l’Italia non ha tradizioni in tal senso) e che tale radice ha molte probabilità di derivare, portandosi dietro tutte le figure stereotipiche che le pertengono, dalla cinematografia in cui il
noir ha un ruolo preponderante e che ha maggior presa sul pubblico italiano del decennio
postbellico. (Sudbury, 271s).
Infatti l’introduzione di elementi noir nel cinema italiano viene spesso mediata dall’influsso che quello stesso genere aveva dimostrato di avere su alcuni episodi
231 “Durante gli anni ‘40 e l’inizio degli anni ‘50, il film noir contamina numerosi altri generi, tra i quali il
melodramma. L’atmosfera fatalista dei film noir, i loro scenari oppressivi e le loro luci fortemente contrastate accentuano la tendenza del film drammatico hollywoodiano a fare dei gesti più quotidiani simboli espressivi, a spostare e a condensare stati emotivi in elementi della scena. Inoltre, la trama criminale dei film noir si combina spesso, in quest’epoca, a motivi melodrammatici, cosa che ha l’effetto di rendere caduche le distinzioni tra i due generi per film come Femmina folle o Il romanzo di Mildred”. MOINE ([2002] 2005, 200).
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riconducibili al neorealismo italiano – un cinema dai caratteri decisamente identitari – e su quei film i quali, pur rientrando pienamente nell’ambito di un cinema di fattura industriale e perciò di genere232, conservano comunque diversi tratti pertinenti al movimento, tra i quali il rapporto con il contesto sociale italiano e con il suo paesaggio urbano, anche all’interno di opere che riproducono modelli statunitensi fino al limite del mimetismo come La città si difende (Pietro Germi, 1951)233. Inoltre, se sono pochi i film che includono stilemi noir in quantità tale da poter essere definiti essi stessi come facenti parte del genere, sono al tempo stesso moltissimi quelli che ne presentano in misura inferiore, mescolati a una struttura la quale rimanda invece al melodramma. Si tratta di un processo che si era già visto all’opera a proposito di Catene e che si è appena visto riproporre all’interno di Menzogna: ciò non toglie tuttavia che nei successivi melodrammi della Titanus si assisterà a un aumento esponenziale degli elementi provenienti dall’immaginario del cinema criminale americano, e che ciò avviene in consonanza con quanto stavano già facendo altre case di produzione, in particolare la Lux234.
Visto distrattamente, il primo dei due film realizzati da Brignone nel 1953, Noi
peccatori, potrebbe sembrare a tutti gli effetti un film di Matarazzo: è infatti incentrato
su tre personaggi principali, ovvero su di una coppia di fidanzati e un losco figuro, mentre le isotopie in gioco sono quelle dell’equivoco e dell’inganno e infine, nelle sequenze conclusive, non mancano la volontaria clausura in convento e la guarigione miracolosa che caratterizzavano Tormento. L’aspetto più interessante di questo film riguarda però il fatto che le poche variazioni introdotte rispetto a questo schema sono determinate dalla volontà di aumentare, rispetto a quanto già fatto in Menzogna, i riferimenti al cinema noir. Il protagonista maschile, Stefano, è interpretato da Steve Barcley, un attore statunitense che nella seconda parte della propria breve carriera si era trasferito a lavorare in Italia, e che per la Titanus in quello stesso 1953 lavora anche in
Africa sotto i mari di Roccardi e nella coproduzione Fate largo ai moschettieri (Les trois mousquetaires, André Hunebelle). Il suo è un personaggio sostanzialmente
omologo a quelli interpretati da Nazzari, al punto che si può ravvisare persino una certa rassomiglianza tra i due attori, che portano entrambi i baffi: la scelta di Barcley rappresenta perciò il tentativo di trovare un più economico surrogato al celebre divo italiano, il quale a differenza della Sanson – che nella prima metà degli anni ’50 lavorava quasi esclusivamente con la Titanus o la Labor Film – era spesso impegnato su altri fronti. Inoltre, anche le dinamiche nelle quali è coinvolto Stefano rimandano evidentemente alla trilogia di Matarazzo: sebbene egli sia innamorato della protagonista femminile, che gli nasconde un segreto inconfessabile, l’uomo la crede colpevole di una condotta discutibile ed è perciò subito pronto a rinnegarla, salvo ravvedersi quando nel finale scoprirà la verità. C’è però un elemento interessante in questo personaggio, che risiede nella sua iniziale condizione di reduce: la prima sequenza del film presenta infatti l’arrivo di una nave di prigionieri di guerra italiani, che fanno ritorno da un campo di prigionia negli Stati Uniti. La figura del reduce è uno dei numerosi trait
d’union che legano il cinema italiano postbellico al cinema criminale americano: è noto
infatti che la figura del reduce coinvolge numerosi film noir prodotti dopo il 1945, i cui esemplari più celebri sono forse La dalia azzurra (The Blue Dahlia, George Marshall) e
232 Si tratta dei “viraggi del neorealismo” di cui parla F
ARASSINO (2003). In particolare, per quanto riguarda il legame tra neorealismo e noir, si vedano le pagine 213 e seguenti.
233 Un film che peraltro non viene citato da Sudbury, così come altre opere indiscutibilmente legate al noir
quali Senza pietà (Alberto Lattuada, 1948) o Persiane chiuse (Luigi Comencini, 1951).
234 Casa produttrice, oltre che dei film sopra citati, anche de Il bandito (Alberto Lattuada, 1946), Fuga in
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I gangsters (The Killers, Robert Siodmak), entrambi del 1946; allo stesso modo, vi sono
dei reduci anche in moltissimi film italiani usciti nel primo quinquennio dalla Liberazione, realizzati al di fuori (Un uomo ritorna, Max Neufeld, 1946), all’interno (Non c’è pace tra gli ulivi, Giuseppe De Santis, 1950) o ai margini (Il bandito;
Tombolo, paradiso nero, Giorgio Ferroni, 1947) del movimento neorealista. È proprio
all’interno di quest’ultimo gruppo, costituito da film che piegano l’estetica neorealista a un cinema dalla dimensione industriale, che si rafforza il legame tra neorealismo e noir. La scelta di introdurre Noi peccatori con il ritorno in patria dei prigionieri italiani ha allora la doppia funzione di legare il film al coté moderatamente realista235 che faceva da sfondo alla trilogia di Matarazzo – che viene quindi ripreso in quanto elemento che costituisce uno dei probabili motivi del successo del ciclo – rientrando in contempo in quella logica di potenziamento degli elementi provenienti dal sistema dei generi hollywoodiano, e in particolare dal noir, che caratterizza buona parte della produzione italiana a cavallo fra anni ’40 e ‘50. Alla stessa logica risponde anche la caratterizzazione del losco figuro che ricatta la protagonista femminile e provoca la rottura della coppia: il villain, di nome Camillo, è un proprietario di night club: un ambiente rappresentato come equivoco e corrotto e che non può non riportare alla memoria analoghi ambienti propri del cinema americano, come il casinò di Gilda (Charles Cukor, 1946), la cocktail lounge de Il grande caldo (The Big Heat, Fritz Lang, 1946) o lo squallido bar de La donna fantasma (Phantom Lady, Robert Siodmak, 1944). Inoltre, il personaggio è interpretato da Marc Lawrence, un altro attore statunitense che negli anni ’50 si trasferisce per un breve ma prolifico periodo in Italia. Caratterista specializzato nella parte del criminale, negli anni ’40 Lawrence aveva ricoperto ruoli minori all’interno di produzioni di buon livello, come Maschere e pugnali (Cloak and
Dagger, Fritz Lang, 1946), L’isola di corallo (Key Largo, John Huston, 1948) e Giungla d’asfalto (The Asphalt Jungle, John Huston, 1950). In Italia, dopo aver
interpretato la parte del malvivente in Vacanze col gangster (Dino Risi, 1951), aveva lavorato in coppia con l’attrice Tamara Lees all’interno di un altro film che fondeva melodramma e noir: La tratta delle bianche (Luigi Comencini, 1953), una produzione realizzata da Ponti e De Laurentiis per la Excelsa Film e uscita solo sei mesi prima del film di Brignone. In Noi peccatori Lawrence e la Lees interpretano più o meno gli stessi ruoli che avevano nel film di Comencini: lui è un gangster che usa il locale notturno di sua proprietà come copertura per i propri loschi traffici; lei è la sua complice. I due attori e i caratteri a essi legati vengono perciò prelevati da un altro tipo di produzione – quel noir melodrammatico che era uno dei cavalli di battaglia della Lux, dalla quale provenivano Ponti e De Laurentiis – e poi inseriti all’interno di una sintassi narrativa che corrisponde a quella, già rodata, di Catene: Camillo, che in passato ha compiuto un omicidio addossandone la colpa alla propria guardarobiera, madre della protagonista interpretata dalla Sanson, prima costringe quest’ultima a esibirsi nel proprio locale, poi fa credere a Stefano, il di lei fidanzato, di essere l’amante della donna. Allo stesso modo, il personaggio interpretato da Tamara Lees, svolge quel ruolo di testimone – già ricoperto dall’avvocato di Catene, dalla donna di servizio di Tormento, ma anche dall’amante di Folco Lulli in Menzogna – che nel finale dei melodrammi Titanus decide improvvisamente di svelare la verità al protagonista, permettendo così un lieto scioglimento della vicenda.
235 Vale la pena di notare che il film si prodiga in una serie di generiche – e qualunquiste – notazioni sulle
difficoltà della vita nell’immediato dopoguerra italiano: Stefano e il suo amico, entrambi ex prigionieri di guerra, devono affrontare la disoccupazione, non hanno alcun trattamento di favore dallo stato; l’anziano padre di Stefano, contadino, è messo in difficoltà dallo sviluppo della meccanizzazione agricola.
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L’eroina, invece, interpretata come al solito da Yvonne Sanson, permette di legare più stabilmente il film al melodramma, in quanto è sostanzialmente modellata sul personaggio di Rosa, la protagonista di Catene. È però interessante notare come, pur non essendo una madre – qui, come in Menzogna, si interrompe il legame con il
maternal melodrama che aveva segnato la trilogia – il personaggio rafforzi il legame
che il film capostipite intratteneva con il prototipo rappresentato da Venere bionda: anche in Noi peccatori, infatti, la protagonista femminile intraprende un precorso di degradazione che la porta a cantare in un locale notturno236 al fine di ottenere il denaro necessario a guarire il proprio uomo (Steve Barcley sta diventando cieco), il quale dapprima la abbandona non appena scopre la verità, e poi la riaccoglie nel finale. A tale proposito è interessante notare come uno degli elementi fondamentali dell’originale – l’ambiguo legame che il personaggio di Marlene Dietrich intratteneva con il ricco milionario interpretato da Cary Grant – scompaia del tutto: nel cinema italiano di genere di questo periodo, un adulterio femminile realmente consumato (e non solo sospettato) è un eventualità da non prendere neppure in considerazione, e questo spiega l’assenza di sottogeneri in voga già nella Hollywood pre-codice come il melodrama of the other
woman. Allo stesso modo il personaggio di Anna – sul quale il film è quasi interamente
focalizzato nella sua seconda parte, mentre la prima era incentrata principalmente sulle disavventure di Stefano e sulle sue difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro – attiva anche un secondo riferimento intertestuale al cinema americano: dopo essere stata scoperta dal suo uomo mentre è intenta a esibirsi nel locale di Camillo, Anna si getta in strada al suo inseguimento, ma viene investita da un autoveicolo. Rimasta paralizzata, rifiuta di mettere Stefano a conoscenza della sua condizione e chiede a un loro comune amico di mantenere il silenzio. L’episodio, per il tema dell’incidente debilitante e della dimensione del segreto, ricorda la seconda parte di Un grande amore (Love Affaire, Leo McCarey) – un film del 1939 che era però stato distribuito in Italia soltanto nel 1948 – nel quale Irene Dunne si rifiutava di mettere al corrente Charles Boyer dell’incidente che l’aveva ridotta in sedia a rotelle, a costo di generare un equivoco sui suoi sentimenti nei confronti dell’uomo.
Questo affastellarsi di rimandi intertestuali denuncia la generale volontà da parte del film di mantenere la sintassi propria del capostipite Catene – caratterizzata dalla preminenza di una dimensione cognitiva incentrata sulla situazione dell’equivoco – sostituendo però il tema del triangolo amoroso con altri elementi sintattici prelevati dal cinema hollywoodiano. Si tratta di un processo che è riscontrabile anche nel trattamento degli esterni, i quali riprendono sostanzialmente la dimensione tripartita che caratterizzava Catene. A un primo livello, la città nella quale è ambientato il film – di nuovo Napoli – viene presentata come una metropoli anonima e priva di elementi riconoscibili, allo stesso modo delle città dei melodrammi esaminati finora. A un secondo livello, tuttavia, quella stessa città contiene degli spazi nettamente riconoscibili, presentati come ameni e valorizzati in quanto appartenenti all’oleografia partenopea: gli incontri più lieti tra i due innamorati Stefano e Anna avvengono nella cornice delle rovine di Pompei, uno scenario che svolge la stessa funzione del golfo di Napoli, che era visibile in diverse inquadrature di Catene. È curioso notare, inoltre, sebbene non si tratti di un accostamento che può reggere sul piano filologico, come la presenza delle rovine, della chiesa attigua e soprattutto della processione religiosa che collega questi due spazi attivi un legame intertestuale con un altro film che uscirà qualche mese dopo:
Viaggio in Italia (Roberto Rossellini, 1954). Questo rapporto viene rafforzato dal fatto
che come nel film di Rossellini la processione religiosa sembrava provocare, sul piano
236 Naturalmente questo espediente permette che vi sia un’esibizione canora. In questo caso Yvonne
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metaforico, il “miracolo” del riavvicinamento tra i due coniugi interpretati da Ingrid Bergman e George Sanders, mentre nel film di Brignone si assiste a un miracolo letterale: al termine della processione, durante la messa, Stefano e Anna vengono finalmente riuniti quando un fascio di luce, proveniente dall’alto, colpisce la donna che improvvisamente guarisce dalla paralisi, si alza e si inginocchia mentre l’uomo, da tempo miscredente a causa degli orrori visti in guerra, si converte all’istante e inizia a pregare con lei. Non si è qui deciso di accostare i due episodi in virtù di un’audace interpretazione del concetto di intertestualità che, come negli scritti di Julia Kristeva (1969), collega i testi gli uni agli altri a prescindere da connessioni di cronologiche o causali; tuttavia, si ritiene che la compresenza del tema del miracolo e la comune decisione di legare una simile dimensione religiosa allo scenario Napoletano – una città che ha costruito la propria identità anche sul ripetersi del prodigio della liquefazione del sangue di San Gennaro – sia indicativa di come quegli stessi “luoghi” – il termine è da intendersi in senso sia letterale che figurato – siano al contempo frequentati dall’avanguardia autoriale rappresentata dal Rossellini post-neorealista che da prodotti nati da una logica saldamente industriale come questo “pseudo-Matarazzo” firmato Brignone. D’altra parte, anche Aprà (1979) aveva ipotizzato che fosse proprio la qualità “melodrammatica” del Rossellini di Europa 51 (1952) e Viaggio in Italia ad alienare all’autore il sostegno della coeva critica italiana.
Vi è infine un terzo livello della rappresentazione degli spazi diegetici che merita di essere evidenziato: come in Tormento – nel quale appariva un altro locale notturno – anche in Noi peccatori appaiono degli spazi che rompono con il coté popolare che dominava all’interno della trilogia. Lo stesso night club di Camillo permette di introdurre degli interni dal design più moderno, che significativamente vengono legati all’ambito malavitoso, mentre gli onesti e indigenti protagonisti abitano spazi disadorni ma dall’arredamento maggiormente affine alla tradizione italiana. Ancora una volta, quindi, il contemporaneo design internazionale che nelle commedie degli anni ’30 era normalmente associato a situazioni euforiche, nel dopoguerra diviene un simbolo di corruzione, tanto più che viene associato a situazioni prelevate dal film noir. Lo stesso discorso si può fare per i costumi: all’interno del locale, la bella straniera Tamara Lees indossa una mise orientale che ben si attaglia al ricercato arredamento, ma che al tempo stesso contrasta con gli abiti più dimessi – o comunque meno esotici – che fasciano le più mediterranee forme di Yvonne Sanson. Anche in questo caso è bene notare come il personaggio dell’attrice austriaca sia omologo a quello da lei interpretato ne La tratta delle bianche, il quale abitava un appartamento dal design modernista e indossava addirittura un paio di pantaloni237.
237 Dopo la guerra, la posizione del cinema italiano nei confronti del modern style architettonico cambia
notevolmente, per avvicinarsi maggiormente al contemporaneo cinema americano. Lì, come afferma COSTA (2002, 111): «Secondo uno schema abituale nello ‘screen deco’ di Hollywood, all’architettura modernista viene assegnata una valenza del tutto negativa pari almeno all’esotica eleganza delle sue forme, con effetti di esorcizzazione dell’altro attraverso una riconferma dei valori della tradizione». Allo stesso modo, sempre nel cinema hollywoodiano, è frequente trovare situazioni nelle quali, a prescindere dal design o da questioni di stile architettonico, si istituisce un contrasto forte tra lo spazio domestico e quello del locale notturno, che trasferisce sul piano simbolico una più profonda opposizione tra valori familiari e tentazioni proibite: si veda anche il contrasto tra la città di Santa Rosa e lo spazio del noir rappresentato dal fosco locale Til Two Bar ne L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt, Alfred Hitchcock, 1943) all’interno dell’analisi condotta in WOOD ([1977] 2003, 67-73). Il rifiuto proprio del melodramma italiano per gli ambienti dal design moderno e per i nuovi intrattenimenti notturni sembra perciò essere originato dal rapporto che il genere in Italia intrattiene con il cinema americano e con l’eredità del neorealismo, il quale a sua volta stigmatizzava le scenografie e le ambientazioni del melodramma e della commedia prebellici.
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L’articolazione degli spazi riprende perciò le opposizioni già attive all’interno di
Menzogna: a personaggi di estrazione popolare, integri ma sfortunati e che abitano
dimore modeste, sono associate situazioni che rimandano al melodramma e – seppur con una certa approssimazione – al cinema neorealista; i personaggi che sono invece legati al cinema noir si muovono all’interno di spazi prossimi alle abitudini e al gusto borghesi. Si tratta di un sistema di valori destinato a essere ribaltato nell’altro film realizzato da Guido Brignone per la Titanus in quello stesso anno, un’opera che fonde ancora noir e melodramma collocandoli però in un milieu middle class e provinciale che, in questo caso, è vissuto come euforico.