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3. CASO PRATICO: LA TEMPESTA DISCHI

3.2. LA TEMPESTA DISCHI S.N.C

3.2.5. Gli aspetti di bilancio

La società si trova attualmente in attivo.

Per quando riguarda i costi tipici si possono trovare principalmente tutti quelle spese legate alla produzione, distribuzione e promozione dei progetti, quindi, innanzitutto vi saranno le spese di registrazione, legate agli studi da affittare e al pagamento delle prestazioni di tutti i soggetti che collaborano al progetto, quali fonico e produttore artistico. Spesso capita, però, che i gruppi più autonomi propongano alla società il master del disco già pronto o

perché hanno effettuato loro l'investimento o perché, magari, hanno lo studio di registrazione costruito in casa. In alcuni casi La Tempesta dovrà sostenere anche le spese per la stampa del disco, anche se più spesso queste sono a carico delle società di distribuzione. Poi vi sono i costi per la promozione che sono principalmente quelli legati al pagamento degli uffici stampa e per la realizzazione degli elementi visivi dei dischi, quindi le grafiche per le copertine degli album o per le locandine dei concerti, e i fotografi.

Le spese per i concerti, invece, (così come i ricavi) sono tutte a carico degli artisti. I gruppi, infatti, hanno la loro agenzia di booking che organizza le date del tour, e per ogni data prenderanno un determinato compenso con cui dovranno coprire tutte le spese sostenute, quindi prestazioni del fonico, del tecnico luci, costi di trasporto ecc.. Vitto e alloggio sono, invece, a carico dei locali che li ospitano.

Per quanto riguarda, invece, i ricavi tipici vi saranno principalmente le entrate derivanti dalle vendite dei dischi, distinguendo le fisiche dalle digitali. Come già detto, la società trattiene solo il 10% di queste entrate, distribuendo il restante 90% agli artisti che hanno realizzato il disco. Questo 10% viene tenuto in un fondo cassa e servirà per finanziare tutti i progetti futuri.

In linea con la tendenza del resto del mercato discografico mondiale, anche La Tempesta percepisce più ricavi dalle entrate legate al digitale che quelle derivanti dalle vendite fisiche dei dischi, al netto delle percentuali trattenute dai distributori. Per quanto riguarda, per esempio, Believe Digital, questa trattiene il 23% del totale dei ricavi derivanti dalle piattaforme digitali con cui ha accordi. Quindi, riprendendo quanto visto nel paragrafo dedicato a Spotify, la società svedese distribuisce il 70% dei ricavi a Believe, che a sua volta ne trattiene il 23% e assegna il restante 77% a La Tempesta, che infine ne percepisce il 10% distribuendo il 90% all'artista. In sostanza, l'etichetta friulana riceverà il 5,39% da quanto ricavato dagli ascolti su Spotify, mentre all'artista andrà il 48,51%.

Oltre ad altre piccole fonti di guadagno, quali quelle provenienti dal merchandising o dai festival de La Tempesta, la società, infine, percepisce, invece, delle importanti entrate derivanti dai diritti connessi quindi da:

• SCF, la società predisposta in Italia per la raccolta e la ripartizione dei compensi dovuti agli artisti e ai produttori per la diffusione della propria musica registrata nei locali pubblici; si tratta di un consorzio costituito dalle maggiori case

discografiche italiane che, a norma del, già visto, Titolo II Capo I della legge 633/1941, hanno diritto ad un “equo compenso” in quanto produttori dei fonogrammi;

• Nuovo IMAIE, che ripartisce, invece, l'equo compenso agli interpreti ed esecutori dei brani, derivante dalla pubblica diffusione, comunicazione, trasmissione e riutilizzazione delle registrazioni fonografiche da essi effettuate, a norma del Titolo II Capo II della medesima legge;

• SIAE, per la raccolta e la distribuzione dei compensi agli autori dei brani; in principio queste entrate andavano alla società editrice a cui La Tempesta aveva venduto i 12/24 delle edizioni, mentre adesso, con la creazione delle edizioni de La Tempesta, l'etichetta è l'unica titolare dei diritti.

CONCLUSIONI

La stesura di questa tesi è coincisa con un momento cruciale nella storia del mercato discografico, ovvero il sorpasso dei ricavi digitali nei confronti di quelli fisici. Un punto di svolta che decreta ufficialmente un cambiamento già in atto da tempo ma che, proprio in questi anni, ha trovato riscontro anche nei numeri.

Giunti ormai alla conclusione di questo lavoro, ritengo che il momento saliente, l'anno in cui vi è stato il passaggio dal vecchio mercato discografico al nuovo, è stato il 1999. In questo periodo è stato fondato Napster, l'mp3 ha cominciato a prendere piede tra i possessori di computer, ed è coinciso con il picco di fatturato globale nell'intera storia dell'industria discografica. Dopo quell'anno vi è stato un declino inesorabile che ha portato nel caos tutto il settore. Lo dimostra anche il fatto che fino al 2004 si parlava di Big Five, per passare poi a tre major solo pochi anni più tardi, nel 2011. Il motivo principale di questa crisi è, senza dubbio, da ricondurre in primis alla pirateria. Il file sharing e il contrabbando illegale di cd masterizzati hanno provocato dei buchi enormi nei bilanci delle case discografiche. Credo, però, che anche le stesse società siano, in parte, colpevoli. Hanno sottovalutato il problema, convinti che fosse un fuoco di paglia, che lanciando qualche campagna di sensibilizzazione alla legalità e portando a processo qualche piccolo hacker, la bolla sarebbe scoppiata velocemente e i clienti sarebbero tornati di nuovo negli store a comprare i dischi. Il fatto è che il pubblico, effettivamente, non vedeva il file sharing come un'illegalità, quanto piuttosto come un modo più facile di avere il prodotto. E da quel momento la percezione del valore del disco è sceso a zero: che senso ha avere una cosa a 15-20 €, quando è possibile averla gratuitamente? È questo che evidentemente i discografici non hanno capito, o hanno sottovalutato. E nell'immediato non hanno fatto nulla per far sì che la cosa andasse a loro vantaggio, ma hanno, piuttosto, cercato di neutralizzarla.

Il 1999, quindi, segna anche un altro punto di svolta: da quel momento non saranno più le case discografiche a trainare e a rinnovare il mercato quanto piuttosto altre aziende che fino a qualche anno prima non avevano nemmeno pensato alla musica come ad un'opportunità di business. Ogni cambio di formato, dal cilindro al 75 giri, al 33 giri, alla musicassetta, al cd, sono stati tutti ideati e realizzati dalle grandi case discografiche stesse, o comunque da società già nel settore musicale. Dalla crisi del Duemila non è stato più così.

rivoluzionato il modo di usufruire la musica. Ha cercato di far sì che il pubblico avesse quello che effettivamente voleva e cioè musica in formato digitale da ascoltare ovunque, ma di fare in modo che lo avesse ad un prezzo basso, e, quindi, quanto meno non gratis e non in maniera illegale.

La Apple ha, quindi, rallentato il declino ma non ha invertito la tendenza. Infatti, la riduzione del fatturato globale si è fermata solo adesso. E questo perché? Perché è intervenuto un altro modo di usufruire della musica e un'altra opportunità di business. Il download è già, paradossalmente, superato. Non a caso l'azienda di Cupertino ha cercato subito di rimettersi in pari, spostando l'attenzione da iTunes a Apple Music, il servizio di streaming dell'azienda della Silicon Valley. Perché nel frattempo il download ha lasciato spazio allo streaming. E anche in questo caso non sono la Warner, la Universal o la Sony le innovatrici, bensì una start- up svedese, Spotify che, insieme ad altri servizi come Deezer, hanno salvato il mercato discografico con un modello di business semplice quanto incredibilmente efficace: la sottoscrizione freemium. Cioè la possibilità di usufruire di un servizio in maniera assolutamente gratuita, autofinanziandosi con l'advertising, ma allo stesso tempo cercando di fidelizzare il cliente per far sì che una percentuale di essi passi ad un abbonamento a pagamento.

In questa maniera l'ascoltatore medio, ovvero la stragrande maggioranza del pubblico, cioè colui che ascolta musica solo per avere un sottofondo e non è realmente interessato al prodotto in sé, è accontentato perché può farlo senza pagare alcunché, e le aziende non ci perdono perché sono comunque finanziate dalla pubblicità. Allo stesso tempo, invece, l'ascoltatore più assiduo, una percentuale più piccola ma quella che da sola regge l'intero settore, è disposto a pagare una piccola cifra mensile e usufruire di tutta la musica possibile dove e quando vuole, senza nessuna interruzione pubblicitaria e con una qualità audio più alta.

Questo ha generato, quindi, un'accesa competizione tra le diverse piattaforme

streaming che ha portato, nel 2016, a quella che potrebbe essere definita “la guerra delle

esclusive”. È evidente che Spotify sia leader del settore e per cercare di insidiarlo le varie

competitors, Apple e Tidal fra tutte, hanno cominciato a prendere accordi di esclusiva con le

varie case discografiche per far sì che certi dischi degli artisti più influenti del momento venissero distribuiti solo sulla propria piattaforma. E questo, in parte, ha portato i suoi frutti.

Dico in parte perché non credo che questa sia la strada giusta da seguire e credo che non verrà più ripetuta in maniera così accesa come l'anno appena trascorso. Perché il rischio che si ritorni alla pirateria è troppo alto e nessuno se lo può permettere. Se il cliente, che ha un abbonamento a Deezer, intende ascoltare l'ultimo disco uscito, distribuito digitalmente solo su Tidal, difficilmente passerà da una piattaforma all'altra, quanto, più verosimilmente, effettuerà un download illegale come faceva in passato. E in questa modo, a risentirne è l'intera industria discografica. Credo, quindi, che Spotify rimarrà leader del settore ancora a lungo, ma la Apple ha risorse economiche che non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle della società svedese, e, quindi, sicuramente sarà, come lo è già adesso, la diretta concorrente.

Ma l'avvento del digitale non ha modificato solo il modo di usufruire del prodotto ma ha rivoluzionato tutto il settore. Dopo il 1999, le industrie hanno subito pesanti perdite, alcune sono fallite, altre sono state incorporate e le più forti si sono ridimensionate. Ne sono un esempio i nuovi dipartimenti interni alle major che hanno preso sempre più piede, primo fra tutti il New Media, cioè quella divisione specializzata nella promozione del prodotto attraverso Internet, che comprende una quantità molto grande di canali e possibilità di sbocco. Ma non solo. Nel secondo capitolo si è visto anche come le vecchie logiche di distribuzione e di promozione stanno diventando quasi obsolete. Spesso gli artisti pubblicano i propri progetti anche solo in streaming, o addirittura in download gratuito. Perché anch'esso è una forma di promozione. Il disco deve arrivare a quanti più ascoltatori possibili, poco male se viene distribuito gratuitamente. Perché più si allarga il bacino di utenza, più l'artista cresce di popolarità e più vi saranno persone interessate a vedere il loro beniamino ai concerti. Perché, come visto, spesso la principale fonte di guadagno per l'artista non è più la vendita dei dischi ma bensì l'attività live.

E in questo panorama si è visto come anche il diritto d'autore in Italia stia lentamente mutando. La Direttiva Barnier dell'Unione Europea è stata redatta principalmente per far sì che le grandi collecting europee si accorpino e prevedano licenze multiterritoriali attraverso le quali stipulare accordi con i grandi colossi di servizi digitali. Questa ha generato anche un ulteriore motivo di dibattito in Italia perché è stato messo in discussione il monopolio sulla gestione dei diritti d'autore e connessi in mano da oltre 125 anni alla SIAE. È intervenuta la nuova società concorrente, Soundreef, e la nuova gestione Sugar nella società italiana degli autori, che hanno messo in moto una serie di piccole rivoluzioni digitali nell'ambito del diritto

d'autore.

Anche il mercato indipendente è stato travolto dai cambiamenti incorsi dopo il 1999. Non a caso, esattamente un anno dopo, quindi in concomitanza con la crisi mondiale del disco, è stata fondata la società scelta come caso pratico per questo lavoro: La Tempesta Dischi. Le piccole società alternative alle major hanno subito moltissimo questo declino nella vendita dei prodotti e sono riuscite a rimanere in piedi solo alcune aziende. Una di queste è proprio La Tempesta. E questo è stato possibile perché l'etichetta discografica friulana non ha una struttura, non ha uffici, né sedi, né dipendenti. Era ed è composta esclusivamente da validi artisti. Quindi mentre le altre società fallivano o riducevano i propri assets, La Tempesta non subiva più di tanto, ma al contrario, ha saputo sfruttare questo momento in cui le competitors chiudevano e quindi non producevano materiale concorrente, per espandersi e diventare una delle realtà più importanti del panorama indipendente italiano. La Tempesta, inoltre, non ha subito l'avvento delle nuove piattaforme streaming ma piuttosto ha cercato di sfruttarle il più possibile. Ne è un esempio il fatto che l'account Tempesta su Spotify abbia creato delle

playlist annuali che comprendono tutti i propri progetti usciti fino a quel momento. E questo,

per un ascoltatore assiduo dei prodotti Tempesta, è uno strumento promozionale molto importante.

L'industria discografica indipendente italiana, oggi, sta vivendo una seconda giovinezza perché il digitale ha permesso di avvicinare gli artisti più mainstream a quelli più indipendenti. Quindi il settore sta rinascendo, le etichette indipendenti si stanno facendo più numerose e, a beneficiarne, è l'intero mercato discografico italiano.

In questo nuovo scenario musicale, però, non tutto è stato risolto. Il consumo di musica è più elevato di quanto sia mai stato in passato ma il fatturato globale, per quanto sia in risalita rispetto agli altri anni, è ancora molto lontano da quello del 1999. Spotify ha raggiunto quota 50 milioni di utenti abbonati all'account premium eppure risulta in perdita ancora dall'anno zero, Deezer ha rinviato la sua IPO e soprattutto gli artisti e le etichette discografiche lamentano il fatto che non percepiscono quanto effettivamente viene consumato dagli utenti. Questo problema viene denominato Value Gap e sostanzialmente riguarda una delle piattaforme su cui, più di tutte, viene ascoltata, ma sopratutto vista, la musica: YouTube. Il sito ha un bacino di utenza molto più vasto di quello di Spotify, eppure, in proporzione, rende alle case discografiche una percentuale bassissima.

Riprendiamo quindi le domande poste ad inizio lavoro, nell'introduzione. Il mercato discografico è destinato a rimanere su questi numeri? Oppure il cambiamento è ancora in atto e il settore deve completare il suo percorso di assestamento? Il modo di usufruire della musica cambierà ancora? Partendo da quest'ultima, si potrebbe dire che un nuovo cambiamento sia ancora probabile. Basti vedere il download digitale che in pochi anni è passato dall'essere la fonte di salvezza del mercato, ad un modo di avere la musica obsoleto, e che già al tempo di iTunes c'erano stati dei tentativi di abbonamenti legali ai servizi streaming che però sono finiti rapidamente nel dimenticatoio per poi passare alla ribalta qualche periodo dopo. Io credo, però, che questo nuovo modo di godere dei prodotti musicali, cioè tramite account free o

premium in streaming, non solo resisterà ancora per diverso tempo ma finirà per espandersi

fino a diventare uno dei pochi, se non l'unico modo, di usufruire della musica. Questo farà sì che le prossime generazioni si abituino ad un mercato discografico sempre più digitale, su tutti i fronti, anche su quello della promozione e della produzione. Ritengo che questa sia la via futura anche perché, a differenza di quanto successo con il download digitale, in cui vi era, sostanzialmente, una sola azienda a fornire questo tipo di servizio, la Apple, in questo caso, invece, le piattaforme sono numerose e la concorrenza è molto accesa e questo farà sì che le società migliorino continuamente la propria offerta per restare presenti e competitivi sul mercato. Un altro elemento, inoltre, a sostegno di questa tesi è la recente classifica stilata dalla rivista specializzata Billboard sulle 100 persone più influenti del business musicale127. Al primo posto troviamo Daniel Ek, CEO di Spotify, e al quarto il trittico di Apple Music, Eddy Cue, Jimmy Iovine e Robert Kondrk. Questo a dimostrazione del fatto che le piattaforme

streaming giocheranno un ruolo fondamentale nel futuro del mercato discografico. I dischi

fisici non sono sicuro che scompariranno del tutto ma diventeranno piuttosto dei prodotti di nicchia, quasi da collezionismo.

Sul fatto che il fatturato globale non ritorni più alle cifre del 1999, invece, non sono riuscito a trovare risposta nella stesura di questo lavoro. È possibile sia che i numeri rimangano più o meno quelli visti in questi anni, sia che possano tornare a salire fino ai fasti del pre-Duemila. Lo spunto di riflessione che questa tesi deve creare è esattamente questo. E potremo avere una risposta a questo quesito solo fra qualche anno, quando e se verrà colmato quel gap tra consumo di musica e quanto effettivamente percepito dall'industria discografica.

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