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1. EVOLUZIONE DEL MERCATO DISCOGRAFICO

1.6. LA SITUAZIONE ATTUALE

1.6.3. Il problema del Value Gap

Quello, però, che molte associazioni del mondo discografico (IFPI in testa) ma anche numerosi artisti lamentano è l'esistenza di una non equa distribuzione dei guadagni in determinate piattaforme ad-supported (cioè con ricavi determinati dalla pubblicità).

Il volume dei consumi della musica non è mai stato così elevato come oggi. Nonostante questo, però una quota consistente di consumo della musica digitale non è sufficientemente remunerativa quanto, in effetti, dovrebbe essere. Questo fenomeno viene chiamato Value Gap, cioè appunto una disparità retributiva tra chi produce musica e le piattaforme digitali che la distribuiscono. Stiamo parlando, nella maggior parte dei casi, di YouTube.

Secondo il report dell'IFPI, il Value Gap nasce dal fatto che piattaforme come YouTube, che sono user generated content, cioè che permettono il caricamento di contenuti

da parte di qualsiasi utente, riescono ad aggirare le normali regole riguardanti la protezione del copyright. Queste piattaforme si stima che abbiano più di 900 milioni di utenti mensili (800 milioni la sola YouTube), cioè il più alto numero di fruitori della musica, ma che alla fine rendono solo 634 milioni di dollari, il 4% del fatturato globale. Per fare un paragone, i 68 milioni72 di utenti abbonati alle normali piattaforme streaming che hanno regolari accordi con le case discografiche, rendono all'industria discografica più di 2 miliardi di dollari73.

Questa enorme disparità deriva dall'applicazione delle regole del “safe harbour” che vennero introdotte agli albori di Internet, in Europa e negli Stati Uniti. I safe haroburs, letteralmente “porti sicuri”, sono delle eccezioni alle violazioni di copyright. In sostanza a fine anni Novanta, si rese necessaria la redazione di norme di carattere internazionale che permettessero la protezione dei contenuti coperti da copyright dalla dilagante pirateria che si stava affermando in quel periodo. Fu così che venne introdotto il DMCA (Digital Millennium Copyright Act). Questo testo afferma, in poche parole, che ogni ISP (Internet Service Provider, cioè i fornitori di accesso alla rete) e OSP (Online Service Provider, cioè coloro che offrono un servizio specifico all'interno di Internet) devono fare in modo che venga sempre tutelato il diritto d'autore e che provvedano alla rimozione di qualsiasi contenuto protetto, nel momento in cui questo viene segnalato. I safe harbours sono appunto delle eccezioni che limitano la possibilità per i service providers di essere accusati di violazioni previste dal DMCA. Sono esentati da responsabilità, quindi, coloro, la cui attività si limita al trasferimento passivo di informazioni tra terzi soggetti senza che vi sia alcun tipo di conoscenza o controllo su tali informazioni. Ne sono un esempio le piattaforme di web mailing che, appunto, non

72 Nel 2015. A Dicembre 2016 hanno toccato quota 100,4 milioni 73 IFPI Global Music Report 2016

hanno responsabilità su eventuali contenuti coperti da copyright scambiati tra gli utenti. Il problema del Value Gap, quindi, si basa proprio su questo. Cioè che YouTube si dichiara service provider e si appella alle esenzioni dei “safe harbours”, non avendo responsabilità sui contenuti condivisi sulla propria piattaforma da parte degli utenti. L'accusa che la discografia muove, invece, è che questa normativa era stata redatta in modo da essere applicata solo agli intermediari effettivamente passivi e non a quei siti che giocano un ruolo fondamentale nella distribuzione musicale.

Secondo l'IFPI, gli effetti di questo abuso dei “safe harbours” sarebbero una concorrenza sleale nei confronti di quei siti che, invece, hanno regolarmente degli accordi (molto dispendiosi) con le case discografiche per distribuire i contenuti musicali e una non adeguata compensazione agli artisti e ai titolari dei diritti connessi ai brani. Proprio riguardo a questo punto, l'IFPI ha calcolato che nel 2014 Spotify ha pagato alle case discografiche 18$ per utente a fronte del dollaro scarso distribuito, invece, da YouTube. In alcuni Paesi si stima, addirittura, un maggior fatturato sulle vendite degli LP, piuttosto che sugli ascolti delle piattaforme ad-supported. Tra questi vi sono anche USA e Regno Unito.

La discografia ha cercato di rimediare a questo problema scrivendo, nel Giugno 2016, una lettera firmata da più di mille artisti europei e indirizzata al presidente della Commissione Europea Jean-Claude Junker con la richiesta di prendere provvedimenti sulla questione del Value Gap, dello status di safe habours adottato da piattaforme come YouTube e quindi di rivedere le norme in tema di copyright.

Immediata è stata la risposta della Commissione Europea che avrebbe redatto una bozza di legge che prevede l'obbligo da parte delle piattaforme di firmare accordi con coloro che detengono i diritti sulle opere in modo che questi riflettano l'effettivo valore economico del contenuto protetto da copyright. L'obiettivo sarebbe quello di riconoscere a tali titolari una posizione più forte nei negoziati.

Dal canto suo, YouTube ha cercato di rispondere alle accuse che gli sono state mosse in questi anni con il, già citato, Content ID, cioè quella tecnologia che segnala la violazione di

copyright al titolare del diritto e permette la possibilità di rimuovere il contenuto o

monetizzarlo. Tutte le etichette ne fanno uso ma sostengono che si tratti di uno strumento fallace in quanto gran parte della musica non sarebbe effettivamente identificata e non produrrebbe pertanto introiti per i detentori di copyright.

Il fatto è che, la recente storia del mercato discografico ha dimostrato come combattere un nemico per vie giudiziali piuttosto che assecondarlo e cercarne di trarne il maggior profitto, ha causato dei danni che forse, solo adesso, si stanno lentamente rimarginando.

Il mercato discografico, inoltre, deve tantissimo a YouTube. È vero che i guadagni diretti che la piattaforma porta nelle casse delle etichette non sono adeguati ed equi nei confronti degli altri servizi streaming, ma è vero anche che YouTube genera una quantità incalcolabile di ricavi riflessi. Il sito vanta più di 1 miliardo di utenti ed è la piattaforma più usata per il consumo di musica online del mondo. L'82% degli utenti lo utilizza per ascoltare musica, fino a toccare il 93% se si prende in considerazione il target 16-24 anni74. È evidente che ascoltando un determinato artista su YouTube, anche se non porta un riscontro nell'immediato può portare in futuro all'acquisto del disco, del biglietto del concerto o del

merchandise.

Ecco perché il mercato discografico non può fare a meno di YouTube. E viceversa. Perché i dieci video più visti su YouTube sono tutti video musicali. Quindi è evidente che entrambe le parti hanno bisogno l'uno dell'altra.

Oltretutto YouTube ha anche reso possibile, tramite la presenza della pubblicità nei video caricati, una monetizzazione di certi ricavi che altrimenti andrebbero perduti. Cioè YouTube ha permesso di lucrare su quei consumatori generici, non interessati a servizi Premium, che altrimenti potrebbero semplicemente scaricare illegalmente la musica.

Una delle leggi fondamentali del mercato è quella per cui il valore economico di un bene o un servizio è determinato da quanto quel consumatore è disposto a pagarlo per usufruirne. Ed oggi, dopo l'avvento della pirateria musicale, quel valore, per la grande maggioranza degli utenti, è diventato zero, perché, appunto, è in grado di averlo a zero grazie al file sharing. Quindi ben vengano i servizi freemium di Spotify, o le piattaforme interamente

ad-supported come YouTube. Perché in ogni caso, una remunerazione c'è, anche se bassa.

Un'altra fetta di utenti invece, per quanto riguarda lo streaming musicale, è disposta a pagare un abbonamento del valore di 10 euro al mese per avere, in più, la musica senza pubblicità e la possibilità di ascoltarla offline.

Gli utenti generici dovrebbero essere visti dall'industria come un quid pluris, un

qualcosa che in ogni caso andrebbe persa. Sono invece i fruitori assidui di musica, una parte piccolissima di utenti, a generare la maggioranza dei ricavi, ed è su questi che l'industria dovrebbe concentrarsi cercando di fidelizzarli sempre di più, offrendogli contenuti di alta qualità e servizi che possano invogliarli a considerare la musica come un bene che abbia un valore.

Nel 2015 c'è stato un avvicinamento tra le due realtà perché YouTube ha presentato (attualmente solo per gli Stati Uniti) il servizio YouTube Red che, tramite il pagamento di un abbonamento a 9,99 $, proprio come Spotify e simili, permette di usufruire di importanti vantaggi rispetto alla normale versione free. Prima di tutto la possibilità di vedere i video senza la pubblicità; poi si permette all'utente di salvare i video in modo da poterli vedere anche offline quando non è presente una connessione; e soprattutto con l'abbonamento sarà possibile vedere gli YouTube Originals, cioè quei contenuti esclusivi creati soprattutto dai più famosi canali del sito, che saranno, appunto, a disposizione solo degli utenti paganti. Per quanto riguarda il settore musica, anche da questo punto di vista il cambiamento è notevole: se, infatti, il servizio sarà utilizzato tramite uno smartphone, si potrà ascoltare la musica anche se l'applicazione è in background. In questa maniera, YouTube Red si presenta come una vera e propria alternativa alle altre piattaforme di streaming, offrendo un servizio che è praticamente identico, con la differenza che in questo caso il contenuto potrà anche essere visto, e non solo ascoltato. Allo stesso tempo, le case discografiche, grazie agli abbonamenti potrebbero ricevere una remunerazione più equa.