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La spettatorialità digitale dagli Audience Studies alla sociologia del cinema

3.3 Audience resistenti, audience produttive

Le ricerche di Lazarsfeld sulla comunicazione politica (Lazarsfeld, Berelson, Gaudet 1944 e Katz, Lazarsfeld 1955) rappresentano un fondamentale punto di riferimento per l’evoluzione degli Audience Studies, come evidenzia Sonia Livingstone (2006), poiché mettono in rilievo come i messaggi dei media siano compresi ed elaborati a diverse velocità dai consumatori (teoria del doppio flusso comunicativo), evidenziando, dunque, come l’audience sia composta tanto da utenti orientati ai media quanto da utenti resistenti. Il feminist film criticism è uno dei primi ambiti dove viene teorizzata una visione resistente delle spettatrici. Partendo dalla nota lettura fortemente ideologizzata di Laura Mulvey (1975), per la quale le donne erano costrette a subire il punto di vista maschile privilegiato dal cinema classico hollywoodiano, la critica femminista produce risultati più articolati. Alcuni studi (Hansen 1991), per esempio, mettono in evidenza come le spettatrici sfruttino alcune fratture del testo filmico per esperirlo in maniera alternativa e gratificante, altri lavori pongono l’accento sulle capacità delle audience femminili di appropriarsi del testo attraverso l’interpretazione (Kuhn 1984, Staiger 1992) o utilizzando le risorse simboliche

dei prodotti cinematografici nella vita quotidiana (Stacey 1994): le donne, come confermano i coevi studi sulle spettatrici di soap opera, hanno quindi nell’appartenenza di genere un patrimonio di saperi e competenze che permettono letture non alienanti degli oggetti mediali. In generale, si riscontra una visione della decodifica come un’attività dalla valenza politica in cui l’interprete ingaggia una vera lotta con il testo per conquistare il senso e costruire la propria identità (Dyer 1987, Gledhill 1988).

Il paradigma dello spettatore resistente, dunque, pervade i reception studies, concepibile come la prima stagione degli Audience Studies (Fanchi 2014: 34). In riferimento alla fruizione cinematografica, sono tanti i contributi volti ad evidenziare pratiche eterodosse, alternative, impreviste e, appunto, resistenti.

A proposito dell’esclusione sociale, per esempio, ancora Miriam Hansen (1991) aveva messo in evidenza come, già negli anni Dieci e Venti, alcune minoranze (donne, immigrati) acquisissero un peso nel discorso sociale grazie alla loro partecipazione al consumo filmico che li trasformava in interlocutori obbligati dell’industria cinematografica, interessata, così, a suscitarne l’interesse rappresentandone valori e punti di vista. Inoltre, la stessa spectatorship degli anni Dieci emerge, da alcuni studi storici (Breakwell, Hammond 1990, Burrows 2004), nella sua complessità di esperienza sociale, poiché il moviegoing, cioè il recarsi fisicamente in sala, rispondeva a bisogni sia individuali (ad esempio, cercare un posto caldo dove dormire o passare del tempo) sia sociali (incontrare amici o farsene di nuovi, darsi appuntamento con il partner, integrarsi in nuovi contesti per alcune minoranze etniche), contemplando inoltre la possibilità (o il brivido?) di azioni illegali o trasgressive, sfruttando il buio della sala (Christie 2012b: 13). Un’altra ricerca di Dyer (1987) aveva evidenziato come le audience utilizzassero il culto dei divi in modi imprevisti e talvolta contrari alle intenzioni dell’industria, rivelando uno spazio di autonomia simbolica e culturale.

Nelle ricerche sulla sala, come spazio fisico e simbolico, si evidenzia come la

spectatorship nei movie theater fosse influenzata dall’interazione tra molti fattori:

l’architettura, il design e i materiali dei locali, l’inserimento nello spazio urbano o periferico, le tecnologie di proiezione, le modalità dell’offerta (scansione giornaliera degli spettacoli, servizi annessi, strumenti promozionali) (Allen 1980, Gomery 1982 e 1992, Hansen 1991, Jancovich, Faire 2003). L’obiettivo di questi contributi è tracciare uno studio culturale della sala, intesa nella sua dimensione dinamica di luogo modellato sia dall’azione dell’industria cinematografica, in termini di investimenti e tecnologie, sia dagli

usi sociali e simbolici degli spettatori. Il quadro che ne emerge è che, soprattutto nell’era del cinema muto, il concetto di sala è piuttosto una semplificazione concettuale, una categoria sotto cui rientrano una grandissima varietà di spazi in cui avviene l’incontro tra il cinema e lo spettatore (spazi estremamente differenziati in ragione dell’ambiente di cui facevano parte: dalle megalopoli agli sperduti paesi di provincia). Alcuni studi (Gunning 1986, Hansen 1991) hanno ritenuto che la molteplicità di forme spettatoriali possibili nelle diverse formule di sala del cinema muto si sia omogeneizzata con l’avvento del sonoro, ma altre ricerche hanno evidenziato come ad una cospicua standardizzazione degli spazi di fruizione non corrispondesse una passivizzazione del pubblico che, anzi, seguitava a mettere in atto processi di costruzione collettiva dell’immaginario, sulla base di pratiche di scambio ed interazione simbolica (Doherty 1999, Staiger 2000). Più correttamente, allora, si può pensare allo spazio di visione in sala come una “cornice”, ovvero come “una

situazione cangiante, che definisce e delimita lo spazio di manovra dello spettatore

(spazio fisico e simbolico)” (Fanchi 2005: 17), senza annullarlo e senza imporsi in maniera definitiva. Questo “spazio di manovra” nel tempo diviene sempre più ampio. In questi studi sulla sala il paradigma dello spettatore resistente si intreccia con il paradigma dello spettatore attivo (o, per usare un espressione di Sonia Livingstone, intraprendente). La natura attiva delle audience emerge grazie al radicamento dell’etnografia dei consumi negli Audience Studies, nell’ambito di un quadro teorico arricchito dalla confluenza tra cinque tradizioni di studio: Scuola di Birmingham, teorie della resistenza, gender studies, post-strutturalismo e approccio degli Usi e Gratificazioni. Da questo proficuo clima culturale, si apre un quadro teorico fondato sul coinvolgimento dello spettatore, come soggetto sociale articolato e attivato da più fattori, compresi quelli provenienti dalla collocazione sociale e culturale dell’esperienza di consumo mediale. In definitiva, come spiega Nightingale (1996), i lavori sull’audience come soggetto attivo si fondano in particolare su due punti, in base ai quali l’esperienza mediale, per un verso, coinvolge lo spettatore a più livelli (emotivo, cognitivo) e per l’altro è mutabile, non solo perché diversa da testo a testo per lo stesso spettatore e da spettatore a spettatore per lo stesso testo, ma perché significativamente influenzata dall’evoluzione delle tecnologie e delle situazioni di consumo. Questo secondo punto è particolarmente significativo per l’orizzonte di ricerca sulla spettatorialità postcinematografica, in quanto stabilisce il ruolo fondamentale esercitato dal rapporto tra utente, dispositivo filmico e contesto, così centrale per la comprensione delle audience contemporanee.

Già in epoca pre-digitale, comunque, Anne Friedberg (1993) aveva sottolineato come la visione sui televisori domestici dei film configurasse una esperienza mediale parzialmente diversa dalla visione in sala, per una serie di elementi tra cui il collocamento del dispositivo nello spazio domestico.

Un anno prima Ann Gray (1992) aveva condotto una ricerca etnografica sull’uso del videoregistratore in ambito familiare, notando la ritrosia delle mogli e delle madri a padroneggiarlo, giustificata con il tentativo di evitare che il resto della famiglia facesse ricadere sulle loro spalle l’incombenza di richieste relative ad un ulteriore dispositivo. Lo studio della Gray rafforzava, dunque, il peso della situazione socioculturale e ambientale sull’esperienza di consumo di audiovisivi. Va precisato, inoltre, che il ruolo centrale dell’ambiente domestico nel definire caratteristiche, modalità e forme di appropriazione del consumo mediale, è una concezione formalizzata dallo studio sulla “domestication” delle tecnologie di Hirsch e Silverstone (1992). Proprio le nozioni di “domestication”, come addomesticamento delle tecnologie per gli usi e le gratificazioni del nucleo familiare, e di “economia morale” della famiglia, intesa come l’insieme informale di pratiche, routine, valori, credenze e saperi che presiedono allo svolgersi delle attività familiari quotidiane nell’ambito domestico (“household”), concepito come unità economica, sociale e culturale, sono alla base di quella che Alasuutari (1999) definisce la terza fase degli Audience Studies, contrassegnata dall’inserimento dell’analisi delle audience in più vasti processi macro-sociali. Un esempio di questa tendenza è lo studio di Marie Gillespie (1995) sulla comunità Punjab di Londra, in cui il consumo consistente di tv britannica e videocassette di Bollywood risponde alla duplice, contrastante e faticosa dialettica tra la conservazione delle proprie radici culturali e l’integrazione nella comunità occidentale.

Riepilogando oltre un decennio di contributi, Nightingale (1996) formalizza l’inquadramento teorico delle audience attive definendo l’esperienza mediale come: 1) un’interazione tra testo (o industria culturale, o medium) e spettatore; 2) una performance, in cui lo spettatore esibisce un’eccedenza rispetto alla situazione prevista dal testo, dall’apparato e dall’industria; 3) un esercizio di potere, per le industrie che provano a regolare e indirizzare le forme del consumo, e un esercizio di resistenza da parte delle audience, che modellano, aggiustano o rifiutano le loro istanze; 4) un’azione funzionale, per gli utenti che ricavano dal consumo dei prodotti culturali parte delle provviste simboliche per il vissuto quotidiano (cfr. Fanchi 2014: 51).

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